Stampa Articolo

Memoria, identità, ricostruzione: la comunità ebraica di Roma dopo la Seconda Guerra mondiale

Roam, Sinagoga, vista dal Teatro Marcello

Roma, Sinagoga, vista dal Teatro Marcello

di Stefano Bellu 

Introduzione 

La storia della comunità ebraica di Roma nel secondo dopoguerra rappresenta un capitolo da tenere in debita considerazione per comprendere il processo di ricostruzione socioeconomica e culturale del Paese. Il contesto storico di questo periodo, caratterizzato dalla fine delle persecuzioni nazi-fasciste e dall’avvio della ricostruzione, pone in evidenza sfide e trasformazioni che hanno profondamente segnato l’identità della comunità. Questo lavoro si propone di analizzarne gli aspetti più significativi, mettendo in luce non solo le difficoltà affrontate, ma anche le strategie adottate dagli ebrei romani per rispondere agli eventi traumatici della guerra e delle leggi razziste.

L’immediato dopoguerra ha rappresentato per l’ebraismo romano una fase di transizione tra la devastazione causata dalle persecuzioni e la progressiva reintegrazione nella società italiana. La promulgazione delle leggi razziste del 1938 e le deportazioni avvenute durante l’occupazione nazista hanno avuto un impatto devastante sui cittadini ebrei e sui corpi intermedi, lasciando segni indelebili tanto sul piano demografico quanto su quello economico e sociale. Al termine del conflitto, gli ebrei romani si trovarono a dover affrontare la ricostruzione non solo materiale, ma anche identitaria.

Alcuni storici hanno definito il dopoguerra come un periodo di “ritorno alla vita”, un’espressione che ben descrive la condizione di chi ha vissuto gli orrori della Shoah. La comunità ebraica romana, sebbene fortemente provata, è riuscita a mantenere una continuità culturale e sociale grazie alla solidità delle sue istituzioni e alla capacità di adattamento dei suoi membri. Le difficoltà materiali, come la perdita di beni confiscati, e quelle demografiche, aggravate dalla riduzione del tasso di natalità e dall’emigrazione, hanno trovato risposta in iniziative comunitarie volte alla ricostruzione del tessuto sociale ed economico.

Uno degli obiettivi di questo lavoro è stato quello di comprendere come gli ebrei della capitale abbiano affrontato queste sfide, concentrandosi su aspetti come la ripresa delle attività comunitarie, il ruolo delle istituzioni comunitarie e la reintegrazione degli ebrei nella società romana.

L’identità ebraica è qui intesa come un insieme di elementi culturali, religiosi, politici e sociali che si intrecciano con le complesse relazioni tra la comunità e il contesto romano. Nello specifico, l’analisi si è soffermata sul concetto di appartenenza, sull’affermazione del sionismo e sui processi attraverso cui gli ebrei romani hanno rinegoziato il loro ruolo all’interno della città. 

02-targa-16-ottobre1.1 Roma città libera

Dopo la liberazione di Roma gli ebrei romani si trovavano in una condizione in cui le difficoltà materiali ed emotive si associavano alle conseguenze della persecuzione appena subita e non metabolizzata, nonché di aspettative nei confronti del processo di reintegrazione nel tessuto sociale e cittadino. Gli studi sull’uscita degli ebrei di Roma dalla clandestinità sono pochi, la bibliografia specifica sull’argomento è scarna, così come lacunosa è la documentazione archivistica. Pertanto, i diversi testi che trattano di questo determinato periodo fanno un frequente ricorso alle testimonianze orali e scritte: diari, lettere, memorie, interviste. Dalle fonti emerge un panorama di sentimenti contrastanti, tra chi riponeva speranza nel futuro, in una nuova Italia libera, e chi riteneva impossibile un ritorno alla normalità e alla convivenza al fianco di chi, fino a pochi mesi prima, si rese responsabile di atti meschini. Durante l’occupazione nazifascista della città di Roma, dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944, si contano circa 1.750 ebrei tra le vittime della deportazione nei campi di sterminio e tra coloro che furono uccisi alle Fosse Ardeatine. Su una popolazione di circa 12.000 persone furono più di 10.000 quelli che si salvarono, l’80% della comunità ebraica romana.

Di fronte a queste cifre, a maggior ragione se paragonate agli effetti prodotti dalla Shoah in altre parti d’Europa (se consideriamo il caso francese, quello più vicino a quello italiano, gli ebrei deportati su un totale di 330.000 è pari al 25%), è lecito domandarsi cosa abbia permesso alla maggior parte degli ebrei di Roma di mettersi in salvo. Su questo punto specifico la storiografia si è interrogata circa i fattori alla base di questa condizione e non sempre i risultati sono concordi. In Italia gli ebrei non erano riconoscibili alla vista come tali. Non essendo il Paese formalmente occupato dal Reich, non vigeva l’obbligo di indossare e rendere visibile la stella di David. I documenti non recavano, così come nella Francia occupata o a Vichy, il timbro con la «J.» di Jude.

Dopo l’8 settembre 1943, in seguito all’annuncio dell’armistizio e alla fuga del re, della corte e del governo diretto da Badoglio a Brindisi, mutava il contesto che fino a quel momento aveva segnato il destino degli ebrei romani. Decisivo fu, con tutta evidenza, il ristretto lasso di tempo della durata dell’occupazione tedesca, inferiore a quella subita da altri Paesi (si pensi in particolare all’est Europa, all’Olanda, al Belgio e alla Norvegia), uno dei fattori determinanti per ridurre le perdite. Inoltre, va sottolineato come, a fronte di numerosi casi di delazione nei confronti degli ebrei, la popolazione ebraica di Roma, ben integrata nel tessuto sociale capitolino, poté godere del sostegno di molti cittadini romani. Laddove questo sostegno non si rivelava gratuito, ma richiedeva un prezzo esoso per chi chiedeva riparo – le testimonianze dei superstiti sono ricche di episodi di abusi e ricatti nei confronti degli ebrei braccati dai nazifascisti – fu necessario affidarsi alle capacità individuali dei singoli di mobilitare tutte le risorse economiche e strategiche a loro disposizione per garantire la sopravvivenza nella clandestinità.

Discorso a parte merita il rapporto tra gli ebrei romani e la Chiesa cattolica. Molto si è detto e scritto in relazione al comportamento del Vaticano riguardo la deportazione e la repressione sistematica organizzata dall’occupante tedesco. È vero che la Chiesa, così come la Resistenza o alcuni privati, si adoperò nel fornire documenti falsi con nomi non ebraici agli ebrei, rendendo quindi possibile la salvezza nel momento in cui la deportazione veniva organizzata attraverso l’utilizzo delle liste del censimento del 1938, aggiornate al 1942. Tuttavia, fu solo dopo l’8 settembre 1943 che si sbloccarono le iniziali titubanze della curia romana nell’offrire protezione ad un numero consistente di ebrei e oppositori dell’occupante nazista. Dai 4.000 ai 5.000 ebrei trovarono rifugio nelle istituzioni ecclesiastiche, nei conventi, negli istituti religiosi, negli ospedali come il Fatebenefratelli, dove in corsia accanto al personale medico si poteva fare affidamento sul sostegno dei frati. Roma, durante il periodo dell’occupazione nazifascista, era costellata di istituti religiosi, molti dei quali aprirono le porte a ebrei, rifugiati politici e sfollati. Inizialmente, questa ospitalità fu una necessità imposta dalle circostanze, ma con il tempo si trasformò in una scelta consapevole e umanitaria. Allo stesso tempo, non erano rari i casi in cui la convivenza non fu sempre semplice e non pochi furono i momenti controversi che generarono tensioni.

Dopo l’arrivo degli alleati, un ruolo significativo fu assunto dai soldati palestinesi e dalla Delasem (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei), che si occuparono di sostenere in particolare i più vulnerabili che avevano trovato rifugio presso gli istituti religiosi. Molti degli ospiti manifestarono gratitudine nei confronti dei religiosi che li avevano protetti, mentre le istituzioni ebraiche si impegnarono a raccogliere testimonianze utili per il riconoscimento del titolo di “Giusto tra le Nazioni” presso lo Yad Vashem. Ad oggi, circa venti tra religiose e religiosi che operarono a Roma durante la guerra sono stati insigniti di questo prestigioso riconoscimento, a testimonianza del coraggio e dell’umanità dimostrati in un periodo di atroci persecuzioni. 

La brigata ebraica

La brigata ebraica

1.2 Il 4 giugno 1944 e l’opera della Brigata ebraica

Il 4 giugno 1944 la Quinta armata del Generale Clark entrò dai quartieri a sud della città e diede inizio alla liberazione di Roma. Ad accoglierli, i soldati trovarono una folla festante. Roma era la prima capitale dell’Asse liberata dagli alleati in Europa. Le strade della città, che i racconti dei terribili mesi di occupazione nazifascista avevano descritto come deserte, pattugliate dalle ronde dell’esercito tedesco, erano gremite a festa. Tra i cittadini di Roma c’erano anche quelle centinaia di ebrei che erano riusciti a sfuggire alla furia degli occupanti. Finiva in quel giorno un lungo periodo di soprusi che aveva visto riemergere l’intolleranza nel settembre del 1938 e che aveva avuto una recrudescenza dall’8 settembre 1943 in poi.

Varcata la soglia della porta del Tempio maggiore che si affaccia su Lungotevere de’ Cenci, sulla sinistra è possibile vedere una targa in ricordo di Charles Aaron Golub, il primo soldato ebreo americano ad entrare e pregare nella principale sinagoga di Roma il 4 giugno del 1944. Golub era un militare dell’esercito americano e portava al collo, accanto alla piastrina di riconoscimento, il Magen David. Racconta, a proposito di quell’episodio, Vittorio Polacco:

«La mattina del 4 giugno Roma fu liberata dall’esercito americano. Mia madre era in strada a salutare i primi reparti entrati in città, tra loro un giovane che al collo aveva una stella ebraica accanto alla piastrina di riconoscimento. Faceva parte della 143esima divisione fanteria Texas, quinta armata. Si chiamava Charles Aaron Golub. Mia madre si avvicinò e gli disse “Shalom!”, per fargli capire che era ebrea. Lui si avvicinò e tentò un contatto alla meglio: parlava solo inglese e mia madre solo italiano […] Mio padre Elio era già lì e fu tra quelli che, insieme a Golub, spalancarono le porte della sinagoga e tolsero i sigilli. Nell’occasione gli fece mettere Talled e Tefillin […] Cosa provò Charles quel giorno lo scrisse anni dopo in una lettera al quotidiano della città in cui si andò poi a vivere, il Worcester Telegraph. Così si rivolge alla moglie: “Avresti dovuto vedere l’espressione di incredula felicità sui volti della gente: che spettacolo quando la sinagoga è stata riaperta al pubblico e le preghiere di ringraziamento si sono levate nel cielo. Sono stato persino invitato a dare una berachà. Molta gente si fermava e mi ringraziava. Se il Signore mi proteggerà in futuro come ha fatto in passato avrò abbastanza di cui essergli grato”».

Più di un milione e mezzo di ebrei combatterono tra le fila della coalizione anti-Asse, la maggior parte dei quali nell’esercito dell’Unione Sovietica. Lo fecero come cittadini dei Paesi alleati, ognuno sotto la propria bandiera. Nella campagna d’Italia del 1944 l’esercito britannico inquadrava, tra le altre, una brigata composta interamente da ebrei palestinesi, il Jewish Brigade Group. In italiano questa unità prende comunemente il nome di Brigata Ebraica. Questa non fu l’unica compagnia ad essere composta in modo totale o prevalente di soldati ebrei palestinesi. Ma la Jewish Brigade Group aveva una particolarità: fu l’unica Brigata ebraica a portare in battaglia la bandiera bianca con la Stella di Davide al centro del drappo.

Tra le file delle varie compagnie arruolate in Palestina vi erano, pertanto, soldati provenienti dai vari kibbutzim o inquadrati nell’Haganà (l’organizzazione paramilitare ebraica in Palestina durante il mandato britannico). Si trattava di soldati inseriti nelle Plugoth, compagnie autonome formate da 250-300 uomini agli ordini di un maggiore. Sulla loro divisa non era espressa in modo distintivo la loro provenienza da Eretz Israel, sulla spallina era stampata la dicitura Palestine. Diversa era la connotazione della carrozzeria dei veicoli militari di queste compagnie che, grazie all’iniziativa dei soldati, figuravano oltre ai vari simboli portafortuna delle singole unità il Maghen David. I soldati godevano di una relativa libertà di movimento e questo permise loro di portare assistenza morale e materiale alla popolazione ebraica man mano che il territorio italiano veniva liberato. I beneficiari del sostegno erano in prevalenza profughi ebrei jugoslavi o provenienti dagli altri Paesi dell’est Europa, già internati nei campi di detenzione del Sud Italia.

Con la liberazione di Roma nel giugno 1944, il Centro profughi costituito a Bari (Merkaz ha-plitim) trasferì le sue attività nella Capitale e il 15 luglio tenne la sua prima riunione nei locali dell’Oratorio di via Balbo. Vi parteciparono rappresentanti delle Compagnie 178.a, 179.a e 468.a, tra cui il rabbino militare dell’VIII armata Efraim Urbach, il maggiore Sacharov, Yosef Bankover, Yechiel Duvdevani, Zwy Ankori e Josef Sternlicht. Durante l’incontro furono affrontati i problemi che affliggevano la Comunità ebraica e venne elaborato un piano di lavoro che coinvolgeva le compagnie presenti in Italia. Nel settembre dello stesso anno, il Centro assunse il nome di «Merkaz la-Golah» (Centro della Diaspora) sotto la direzione del sergente Ariyé Stern-Oron, che sarebbe poi divenuto il primo Console israeliano a Roma dopo la nascita dello Stato d’Israele.

yashar-lachayal-outlinedRoma diventava così la sede di una serie di iniziative poste in atto dai soldati palestinesi. A Via del Tritone venne inaugurato il Jewish Soldiers’ Club, venne allestita una tipografia dove si mandò in stampa il giornale militare in lingua ebraica «Lachayal» (Per il soldato), il primo foglio in ebraico regolarmente stampato in Italia nel dopoguerra. Le forze alleate presenti a Roma si impegnarono anche nella riorganizzazione dei vertici dell’ebraismo romano, trovando una comunità profondamente afflitta e frammentata. Il presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ugo Foà, e quello dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Dante Almansi, erano stati in carica durante il regime fascista e l’occupazione nazista. Altra questione improcrastinabile era relativa alla nomina del rabbino capo. Durante l’occupazione c’era stata una vibrante discussione in seno alla Comunità, dopo l’8 settembre, il rabbino capo Israel Zolli aveva esortato i dirigenti comunitari affinché si interrompessero le funzioni religiose presso la sinagoga, venissero distrutti gli elenchi contenenti gli iscritti e invitato tutti i correligionari a cercare la salvezza nella clandestinità. Non trovò ascolto e decise di fuggire trovando rifugio presso amici legati alla Resistenza. All’indomani della liberazione, le tensioni tra queste figure, già evidenti e plateali durante il momento più drammatico della storia recente dell’ebraismo romano, si intensificarono fino a una rottura definitiva. Zolli fu accusato di aver abbandonato la comunità per mettersi al sicuro, mentre il rabbino rispose accusando i vertici della Comunità di aver riposto un’eccessiva fiducia negli occupanti nazisti, una scelta che, secondo lui, aveva contribuito a determinare le deportazioni e i tragici eventi che trovarono il loro apogeo con i fatti del 16 ottobre 1943.

Nonostante gli scontri interni alla comunità, Charles Poletti, governatore alleato di Roma, decise di reinsediare Zolli, e di sciogliere il consiglio della comunità romana. La scelta di reintegrare il vecchio rabbino capo non venne accolta con favore da larghe fasce della comunità, ma il rabbino era riuscito a procacciarsi nei primi mesi che seguirono la liberazione la fiducia di alcuni rabbini militari americani (questi non vedevano di buon occhio l’attivismo di chiara matrice sionistica della Brigata Ebraica), sia, come conferma la scelta di Poletti, dell’amministrazione americana. Foà venne sostituito dal commissario straordinario Silvio Ottolenghi, figura discussa per il suo passato fascista e le sue posizioni fermamente antisioniste. Nell’ottobre del 1944 si dimetteva anche Dante Almansi. Sullo sfondo di questa crisi politica si stagliava, in modo sempre meno velato, lo scontro tra i sionisti e il gruppo dirigente del periodo fascista. Lo stesso Zolli lasciò l’incarico assegnato da Poletti. Fu questo, un episodio drammatico e inaspettato. Nel febbraio del 1945, pochi giorni dopo aver rassegnato le dimissioni si convertì al cattolicesimo. Venne battezzato e prese il nome di Eugenio. A sostituirlo, il nuovo Consiglio elettivo presieduto da Vitale Milano individuò David Prato, il predecessore dello stesso Zolli fino al 1940, quando a causa delle sue posizioni sioniste venne cacciato dal regime e costretto ad emigrare. Prato rimase in carica fino al 1951, anno della sua morte. Nel suo discorso di insediamento alla Sinagoga di Roma, il 19 dicembre 1945, Prato esprimeva l’aspirazione degli ebrei italiani a tornare a essere italiani, mantenendo l’appartenenza, con orgoglio, alla propria ebraicità: 

«[l’]ebreo ha da compiere i propri doveri verso tre patrie e da esse deve esigere al tempo stesso i propri diritti. L’ebreo […] deve considerarsi cittadino di tre patrie, della terra che gli ha dato i natali, della terra avita e profetica, e del mondo».
David Prato

David Prato. Museo ebraico, Roma

Alla figura di Prato è legato uno dei momenti più significativi, sia dal punto di vista politico che emotivo, della vita comunitaria. La dichiarazione delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947, che sancì il diritto degli ebrei ad avere un proprio Stato in Palestina, venne accolta a Roma, come presso tante altre sedi delle singole comunità, con gioia. Tre giorni dopo, il 2 dicembre del 1947, un popolo festante ascoltava il rabbino capo sotto l’Arco di Tito. Ancora oggi, è possibile vedere in una foto d’archivio della Comunità ebraica di Roma, il profilo di Prato che parla alla folla e, sullo sfondo, nella parte interna del fornice, in rilievo sul travertino, la menorah sottratta dai soldati romani, simbolo della diaspora ebraica.

In seguito alle dimissioni di Almansi venne nominato commissario governativo dell’Unione delle Comunità Giuseppe Nathan, figlio di Ernesto Nathan, primo sindaco ebreo di Roma. Il congresso del 1946, il primo dopo la liberazione, elesse come presidente dell’Unione Raffaele Cantoni. La conversione di Zolli non fu un episodio isolato, circa 4.000 ebrei italiani si erano convertiti dopo la promulgazione delle leggi razziali. Ma casi di conversione si erano registrati anche dopo la liberazione nel centro e nel meridione del Paese. Tra le motivazioni alla base di questa scelta compiuta anche in un nuovo contesto nazionale andavano individuati il sentimento di gratitudine verso le istituzioni cattoliche, l’aumento dei matrimoni misti o, in taluni casi, un più generico desiderio di assimilazione. Da parte dei soldati delle compagnie palestinesi ci fu una risposta decisa al fenomeno delle conversioni. L’impegno era adesso indirizzato nel recuperare i bambini, e in particolar modo gli orfani, che avevano trovato rifugio nei monasteri, l’ambiente ideale per la conversione.

La comunità romana, probabilmente spaesata per i cambiamenti epocali che riguardavano la sfera individuale e quella collettiva, vedeva nella formazione della Brigata ebraica un motivo di entusiasmo. Ci fu un tentativo, bloccato dal governo britannico, di reclutare nuovi volontari da integrare nelle compagnie tra gli ebrei italiani impegnate a liberare il territorio italiano ancora sotto occupazione nazifascista. Il reclutamento di nuovi soldati tra le file della Brigata venne accolto solo per gli ebrei di nazionalità inglese, mentre non era previsto l’arruolamento tra gli ebrei risiedenti in Europa sopravvissuti alla furia nazista.

Il passaggio della Brigata ebraica in Europa e a Roma non va annoverato tra gli episodi, apparentemente secondari, delle diverse compagnie reclutate tra le minoranze etniche del Commonwealth o nell’Africa francofona impiegate durante la campagna d’Italia al seguito degli eserciti alleati. Ad un primo obiettivo, quello che si manifesta nell’immediato nel momento in cui un esercito decide di entrare in guerra: ovvero combattere un nemico, c’era un profondo compito da assolvere, di carattere eminentemente politico e che consisteva nella promozione degli ideali sionisti tra coloro che erano sopravvissuti nella vecchia Europa.

9b95db03d43f0801aea67ee4015ee7f1_6228f213-d624-43bc-803d-5055748ca901Non è questo il luogo nel quale approfondire in quali termini, qualitativi e quantitativi, effettivamente ci fu un’adesione incondizionata al sionismo promosso dai militari palestinesi. Ma va ricordato come, nel contesto romano, questo compito sia stato assolto ottenendo in diversi casi il risultato sperato. Per i giovani ebrei romani, l’incontro e la collaborazione con i soldati delle compagnie ebraiche rappresentavano un’opportunità unica per affrontare in modo nuovo il dibattito sul sionismo e sul futuro del popolo ebraico. Il sionismo, fino ad allora oppresso dalla censura e dalla retorica del regime fascista, veniva ora osservato con occhi diversi, finalmente libero dalla stretta ideologica imposta dai vertici dell’ebraismo italiano e romano. Sebbene alcuni percepissero un senso di disagio di fronte a un’ideologia intrisa di nazionalismo, per altri ciò costituì l’occasione per esplorare una realtà complessa e diversificata, attraversata da correnti politiche differenti. Era un mondo nuovo che suscitava curiosità e interesse.

Il film di propaganda Road to Liberty, una commemorazione cinematografica della Brigata Ebraica prodotta dall’Agenzia Ebraica, offre un’importante testimonianza del passaggio della Brigata in Italia, con Roma in primo piano. Il montaggio, un mix di immagini di repertorio e scene recitate, include la simbolica sequenza dei camion della Brigata che attraversano l’Arco di Tito, il monumento eretto per celebrare la vittoria romana sulla Giudea al termine della prima rivolta giudaica. L’uso delle immagini in filmati di propaganda non è mai casuale, e in questo caso assume una rilevanza particolare. Il documentario dimostra come Roma sia stata al centro di una battaglia ideologica, con il chiaro intento, da parte degli autori, di utilizzare la città e i suoi simboli per veicolare un messaggio politico e culturale. Attraverso il film, la Palestina viene presentata con queste parole: 

«Una terra dove gli ebrei possano vivere, lavorare e ritrovare il rispetto di sé stessi. Una terra dalla quale in tempi passati i loro antenati hanno dato molto al mondo, e nella quale, una volta che vi abbiano messo radici, gli ebrei potranno dare ancora molto. Una terra dove i loro bambini potranno nascere liberi».

Come ha fatto notare Gianluca Fantoni, l’idea di fondo che ha mosso la produzione del documentario era quella di mostrare i soldati ebrei palestinesi ripercorrere le tappe della storia del popolo ebraico, riscrivendone il significato. «Ora sfilano come soldati in armi accanto a quello che fu il simbolo della dispersione e riduzione in schiavitù». Con maggiore foga, questo intento veniva sentenziato nelle parole che il rabbino Rabinowitz aveva riportato nel suo testo Soldier from Judea: «Marciatevi attraverso! Passateci in mezzo con le bandiere e la fanfara. Marciate proprio sotto l’Arco, con orgoglio, a testa alta, perché voi avete cancellato l’antica sconfitta». 

1. 3 I giovani nella Roma liberata 

Enzo Sereni

Enzo Sereni, visual artist

Da parte della componente più anziana della comunità, aveva generato non poche perplessità l’uso delle tradizioni religiose che venne fatto nell’opera educativa perpetrata dai militari palestinesi. Ma erano proprio i giovani, più che gli anziani il terreno fertile nel quale queste idee dovevano germogliare. Pertanto, oltre al fondamentale sostegno offerto ai profughi, in particolare a quelli di origine non italiana, i giovani rappresentarono il fulcro del tessuto sociale ebraico su cui i soldati ebrei concentrarono maggiormente le loro iniziative. Decisivo, ad esempio, fu il contributo dato dai militari per la riapertura della scuola elementare ebraica Vittorio Polacco. I soldati si resero protagonisti attivi della ripresa dell’istruzione scolastica, un momento cruciale per la vita di un minore che aveva subìto un crescendo di traumi, dall’emarginazione delle leggi razziali fino al rischio dell’annientamento.

Durante gli anni della discriminazione la Polacco era divenuta il pilastro per migliaia di bambini ebrei cacciati dalle scuole pubbliche del Regno. La ripresa dei corsi rappresentava un modo per combattere l’assimilazione e il progressivo abbandono delle tradizioni ebraiche. Nel ricordo di chi visse quei momenti un posto particolare l’ha ottenuto la figura di Elymelek Cohen. Un soldato che, nella definizione di Amos Luzzato, era il primo prototipo dello shalyach, l’inviato ebreo-palestinese che si paleserà sovente nell’Italia ebraica del dopoguerra. I soldati ebrei palestinesi affiancavano gli insegnanti durante le lezioni, insegnavano ai bambini l’ebraico, fondavano associazioni con i gruppi dei genitori con l’obiettivo di organizzare una struttura scolastica in grado di accogliere circa seicento bambini di età compresa tra i sei e i dodici anni, per la maggior parte orfani, poveri o figli di deportati.

Il 30 agosto del 1944 venne inaugurata la sede del Centro Giovanile Ebraico. La vecchia sinagoga romana di via Balbo divenne il centro di attrazione per numerosi giovani, molti dei quali tiepidi fino ad allora nei confronti delle attività della comunità. Si consumavano i pasti in comune – spesso le razioni militari messe a disposizione dai soldati – si organizzavano iniziative culturali, seminari sulla storia dell’ebraismo, del sionismo e del movimento socialista ebraico. I più motivati tra loro poterono frequentare l’hacksarà istituita il 15 luglio 1944 a Ponte di Nona, borgata periferica della città lungo la via Prenestina. Il proprietario del lotto di terra, un nobile romano che aveva sposato una donna di origini ebraiche, concesse i terreni per l’apertura di una scuola agraria «verso il Negev», con l’auspicio che gli studenti della scuola, una volta usciti da lì avrebbero contribuito alla trasformazione del deserto del Negev in un luogo nel quale praticare l’agricoltura. Ai giovani si unirono alcuni nuclei famigliari intenzionati a emigrare e compiere l’aliyà (la salita verso la terra d’Israele). Già nel 1945, circa duecento persone poterono partire per la Palestina.

Roma Ghetto ebraiico, anni 50

Roma Ghetto ebraico, anni 50

Sono anni, quelli dell’immediato dopoguerra, caratterizzati da un eccezionale fermento giovanile. Se l’esperienza dei primi movimenti giovanili ebraici affiorati nella prima metà del XX secolo, per quanto importante, appare piuttosto esile dal punto di vista numerico e dell’agibilità politica, dal 1945 in poi, in linea con quanto accade nel resto del Paese, si assiste alla nascita di una molteplicità di organizzazione e associazioni di varia natura: religiose, sportive, culturali che coinvolsero migliaia di giovani ebrei italiani. Al già citato attivismo che vide protagonista la Brigata Ebraica, va aggiunto il clima che circondava la rinascita delle comunità, lo slancio emotivo dato nel 1948 dalla nascita dello Stato d’Israele, il sostegno dato dall’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane e i rapporti interetnici che interessarono le scuole ebraiche. I giovani, il segmento più fragile della comunità travolta e lacerata dalla persecuzione, si trovavano di fronte a una nuova coscienza di sé, un tentativo di risposta  agli interrogativi posti dalla politica razzista che, nel negare i diritti di uguaglianza, riportava all’anno zero la struttura identitaria sulla quale si erano appoggiate le tre o quattro generazioni precedenti.

La nuova generazione di ebrei sembra voler chiudere le porte al passato, non solo a quello tremendo prodotto dalla segregazione voluta dal regime, ma anche alle abitudini dei genitori e dei nonni. Nelle memorie e nelle testimonianze dei protagonisti di questa piccola rivoluzione si intravede la volontà di dare vita a un nuovo sentiero sul quale l’ebraismo italiano avrebbe potuto e dovuto muovere i suoi passi. Per gli adulti era prioritaria la necessità di una ricostruzione materiale: il lavoro, la condizione abitativa, il riannodare i fili di quel che rimaneva della precedente situazione finanziaria e patrimoniale, il ricorso – laddove possibile – agli strumenti giuridici messi a disposizione dalla neonata Repubblica per le vittime delle leggi razziali e infine, il pensiero di costruire un futuro dignitoso per i propri figli. Ma per i giovani, dall’altra parte, non c’era quella sensazione che Giorgio Piperno nel 1972 descrive come una brutta parentesi da chiudere per poter riprendere con la condizione ante fascismo. C’era, invece, la volontà di reagire, di ricercare sé stessi attraverso nuovi mezzi.

Quasi lapidario è il modo con cui Vittorio Dan Segre, arruolato tra il ‘44 e ‘45 al seguito della Brigata Ebraica, descrive questa condizione rievocando l’incontro col padre alla fine della guerra:

«Entrambi eravamo usciti illesi dallo stesso conflitto, in cui lui aveva perduto la sua patria, l’Italia, e io ne avevo trovato una nuova, Israele. Io ero rientrato a casa vincitore in divisa straniera, lui, sopravvissuto a sei anni di ignominia civile e a due di fuga in montagna, aveva assistito alla sconfitta del suo paese. Umiliato dal Re che aveva personalmente servito, perseguitato dal regime fascista che aveva contributo a creare, non aveva altro motivo di orgoglio se non nella mia partecipazione alla causa sionista che lui aveva tenacemente osteggiato come nazionalista italiano».

Per alcuni, quindi, l’adesione alla causa sionista rappresenta il naturale approdo nel processo di reinvenzione, ma non è l’unica strada intrapresa. C’è chi sceglie di rifare l’Italia attraverso l’impegno nei partiti, nei sindacati e negli altri corpi sociali legittimati a prendere in mano le redini del Paese. Le strutture che, uscite dalla clandestinità, avevano ripreso la loro azione di proselitismo e propaganda annoverano tra le loro fila numerosi giovani ebrei, protagonisti della guerra di liberazione. Roma, come ha scritto Anna Foa nella storia familiare e autobiografica, era il luogo naturale in cui doveva riprendere vita l’attività politica nell’Italia liberata.

Questo processo è il risultato della condizione obbligata in cui l’ebraismo italiano si era ritrovato con la promulgazione delle leggi razziali e gli eventi che ne seguirono. È opinione diffusa che l’8 settembre abbia rappresentato per l’Italia un momento di scelta cruciale. Tale scelta, obbligatoria e caratterizzata da un lungo periodo di ansie e incertezze, giustifica lo slancio di adesione agli ideali di libertà e antifascismo che maturarono in tanti giovani e spiega in parte come sia la lotta armata tra le fila dei partigiani, sia il tentativo di rientrare tra le fila della Brigata Ebraica siano state un’opzione tenuta in conto. Allo stesso tempo l’8 settembre rifletteva anche una revisione del rapporto con il fascismo, e con il proprio passato, da parte di quegli adulti, non pochi, che avevano aderito convintamente al regime.

Cimitero Verano - Sezione Cimitero Israelitico (ph. Stefano Bellu)

Cimitero Verano – Sezione Cimitero Israelitico (ph. Stefano Bellu)

1. 4 L’affermazione del sionismo

È evidente, pur tenendo conto di una necessaria cautela con la quale si debba utilizzare la categoria dell’elemento generazionale, come il sionismo abbia costituito, anche all’interno dell’ebraismo romano, un grande e nuovo elemento di identificazione e coesione sociale, soprattutto tra i più giovani. Tuttavia, lo sforzo di elaborare un processo in grado di sancire l’adesione ad un’ideologia fino ad allora minoritaria nell’ebraismo italiano non può essere attribuito esclusivamente all’operato consapevole dei soldati palestinesi o allo slancio volontaristico degli ebrei usciti dalla clandestinità che si sentirono attratti dalle iniziative della Brigata Ebraica. L’affermazione del sionismo era il risultato di una serie di fattori che andavano a confluire in un unico alveo.

Gli ebrei italiani, che fino ad allora non erano mai stati in prevalenza sionisti, iniziavano a guardare al sionismo con interesse diverso. Nei primi anni del secolo si potevano riconoscere nella penisola due differenti correnti: la prima, affermata in particolare in seno all’ebraismo fiorentino, orientata a vivificare e rinnovare l’identità e la religione attraverso il ritorno nella terra di Israele; la seconda, intenta a «collegare l’aliyah (la “salita” in Palestina) in un progetto socialista di una società di uguaglianza e giustizia». Il regime, inclusa la figura di Mussolini, aveva avuto nei confronti del sionismo un atteggiamento ambiguo. In un primo momento sembrava funzionale alle mire espansionistiche nel Mediterraneo, successivamente venne considerato un nemico, al pari dell’antifascismo.

A Roma, la consapevolezza di un nuovo modo di guardare al sionismo trova la sua origine in una di quelle situazioni venutesi a creare in seguito alla promulgazione delle leggi razziali. Ben prima, quindi, dell’arrivo delle truppe alleate. Giorgio J. Piperno, che di quella stagione fu tra i protagonisti, identifica nel 1938, in concomitanza con l’apertura della scuola media ebraica a Roma, il momento chiave. Questo evento rappresentò un’occasione per un gruppo di studenti e docenti di confrontarsi e avviare un’elaborazione critica capace di superare approcci tradizionali. Si cercava infatti di andare oltre «l’Ebraismo sentimentale e viscerale, l’antifascismo della barzelletta e della critica superficiale».

Roma, La scuola ebraica  di Via Celimontana 23, .

Roma, La scuola ebraica di Via Celimontana 23

La scuola di Via Celimontana 23, voluta dalla Comunità Israelitica e da alcune famiglie degli alunni espulsi dalle scuole del Regno in seguito alla promulgazione delle leggi razziste, rappresentò quindi un punto di svolta che avrebbe maturato i suoi frutti un decennio più tardi. Il 20 novembre 1938 iniziarono le lezioni per circa 400 studenti. Vale la pena di sottolineare come, nelle intenzioni di chi si era impegnato a garantire la continuità dell’istruzione per i giovani, non c’era la volontà di creare una scuola ebraica, cioè indirizzata alla trasmissione dei valori tradizionali dell’ebraismo, bensì una scuola per ebrei. Piperno, a titolo esemplificativo, richiama l’attenzione sulla questione dell’osservanza del sabato, che generò un confronto acceso tra diverse fazioni. Da una parte vi erano coloro, animati da una sincera vocazione assimilazionista o da un mero calcolo opportunistico, che sostenevano l’apertura settimanale completa ad eccezione della domenica. Dall’altra, si contrapponeva una minoranza composta da osservanti e sionisti, che riteneva fondamentale chiudere la scuola nel giorno del sabato, in ossequio ai dettami religiosi. Questo dibattito rifletteva le tensioni culturali e ideologiche dell’epoca, evidenziando la complessità dell’identità ebraica nella Roma di quegli anni. Si giunse ad un compromesso, con una doppia chiusura settimanale il sabato e la domenica.

Ma al netto di queste informazioni, riportate come abbiamo detto a titolo esemplificativo della dialettica all’interno della comunità, è interessante sottolineare come la nuova condizione a cui erano sottoposti i giovani ebrei fu lo stimolo per una parte di loro per non allinearsi ad un atteggiamento di indifferenza, o in taluni casi di vera e propria insofferenza per le conseguenze che implicava l’essere ebrei nell’Italia degli anni Trenta. Talvolta il sionismo veniva visto come un’idea assurda, o perfino ritenuta la causa della persecuzione. A queste posizioni si contrapponeva una minoranza impegnata ad offrire un’immagine diversa, descritta dallo stesso Piperno come dinamica e positiva, dell’essere ebrei. Per entrambe le parti in causa si trattava di gruppi provenienti dalle fila di quella borghesia che aveva mantenuto nei confronti dell’ebraismo un attaccamento puramente formale.

Nel romanzo biografico di Clara Sereni, Il gioco dei regni, viene offerta un’immagine emblematica del modo in cui una certa borghesia si rapportava alla propria religione. L’autrice descrive così il rito, non certo secondario, della circoncisione del primogenito del dottor Samuele Sereni, Enrico:

«Ma Samuele […] era venuto al mondo con lo Stato unitario: la genealogia cui intendeva dar corpo era fatta non di ebrei, ma di uomini. Si alzò, ripose la Bibbia in uno scaffale alto, prese un quaderno di fogli bianchi e nuovi e, in grafia oscura di medico, scrisse semplicemente: “Addì 14 aprile 1900 mia moglie Alfonsa ha partorito un figlio, cui sarà dato nome Enrico”.
Nell’ottavo giorno dalla nascita, per motivi igienici Lello circoncise suo figlio: ma senza alcuna cerimonia né pubblicità, e il fatto non fu registrato se non nella carne».

71jmvdnaexlUn ebraismo diluito, che si alternava tra ricordi, nostalgie, talvolta superstizioni. I pochi ebrei romani che avrebbero potuto svolgere il ruolo di guida politica o spirituale per i più giovani avevano lasciato la città, o erano stati costretti al silenzio e all’isolamento a causa delle convinzioni antifasciste. La Comunità era impegnata con gli affari correnti e, laddove non fosse esplicitamente fascista – come ebbe a dire Elio Toaff – perlopiù era connotata per essere assimilazionista. È nell’isolamento che si forma un gruppo che, da prima timidamente poi con maggiore vigore di fronte alle ferme posizioni assimilazioniste di gran parte degli studenti, decide di riappropriarsi del patrimonio culturale e politico ebraico.

«[…] al di sopra di ogni ideologia astratta, esisteva un comune destino ebraico che legava indissolubilmente i figli di tutte le diaspore, di tutti gli strati sociali, di tutte le correnti di pensiero e di azione. Questo destino formava un comune elemento di carattere etnico e, come tale, ci veniva rinfacciato dai nostri nemici. Il nostro antinazionalismo non poteva offuscare in noi la visione dell’esistenza di una nazione ebraica, se non altro per i pensieri e l’azione di coloro che volevano distruggerla e che quindi la soluzione del problema ebraico andava ricercata su scala nazionale. Ci accostammo, così, al Sionismo [il maiuscolo è dell’autore] che fino ad allora avevamo disconosciuto o temuto. Ci accostammo ad esso con  esitazioni e dubbi, proprio per quelle aspirazioni di carattere internazionalistico che ci venivano conquistando».

Con l’avvento, per i superstiti, nel giugno del ‘44 di una nuova stagione politica, i locali annessi alla sinagoga di via Balbo iniziarono a rappresentare il luogo cardine dell’attività giovanile ebraica romana. Dalla prospettiva dei più giovani, formati attraverso uno sforzo autodidatta, il primo impatto con i chajalim (i soldati) non fu semplice. La visione integralista dell’ebraismo, sviluppatasi durante il periodo di isolamento o clandestinità dei giovani romani, appariva piuttosto distante dal sionismo prevalentemente socialista e pratico incarnato dai liberatori. Col trascorrere del tempo, tuttavia, Via Balbo diventa il centro dove trascorrere le giornate, studiare la lingua ebraica, pianificare le iniziative culturali per rianimare la vita della comunità. Rappresenta inoltre, il preludio alla fondazione del movimento Hechalutz Achid che si andò organizzando in Italia contestualmente alla liberazione delle regioni del nord. L’atto fondativo dell’organizzazione è nel 1946. Hechalutz (il pioniere), sorto dalla fusione dei gruppi formati a Roma e nell’Alta Italia poteva godere di una situazione nuova e per certi versi inaspettata date le circostanze iniziali. Non possiamo parlare di movimento di massa, come accadde invece per le organizzazioni giovanili appartenenti ai partiti politici del CLN, ma le proporzioni numeriche erano sconosciute rispetto al precedente periodo. Nucleo del movimento era un gruppo ristretto di giovani votati all’emigrazione e alla realizzazione concreta dell’ideale sionista. Attorno al nucleo ruotava un gruppo di ragazzi e ragazze ancora titubante rispetto alla “salita” in Eretz Israel ma incuriositi dal messaggio sionista. L’esperienza di Hechalutz era destinata a interrompersi in conseguenza della progressiva emigrazione dei suoi membri. Il movimento e il suo omonimo organo ufficiale terminarono l’attività nel 1956. Nello stesso anno, il posto di Hechalutz venne preso dal movimento sionista religioso Bnei Akiva, giunto in Italia per iniziativa personale di Elio Toaff, e da un nuovo movimento d’impronta socialista Hashomer Ha-tsair.

Roma Ghetto ebraico, pietre d'inciampo

Roma Ghetto ebraico, pietre d’inciampo

Naturalmente, Roma non era immune al mutamento in atto nell’opinione pubblica e che investiva non solo l’Italia, ma anche gli Stati Uniti e parte del vecchio continente. La solidarietà nei confronti dei sopravvissuti ai campi e di chi voleva trovare una nuova vita in quello che di lì a poco sarebbe diventato lo Stato di Israele era sincera, basti pensare all’iniziativa dei camalli del porto di Genova al fianco dei profughi bloccati sulle navi Fede e Fenice. I governi italiani, intenti a ricostruire il Paese, da parte loro avevano scelto di non ostacolare in modo concreto l’emigrazione clandestina. L’adesione al sionismo degli ebrei italiani non si tradusse, come avvenne in altre parti d’Europa, con una vasta emigrazione verso la Palestina. A differenza della situazione drammatica vissuta dalle comunità ebraiche, gli ebrei italiani avevano, seppure tra le innumerevoli difficoltà che abbiamo già constatato, un futuro da cui ripartire. In questo futuro ci sarebbe stato anche il nuovo Stato d’Israele.

Ciò che più di ogni altra cosa aveva trasformato in modo radicale l’atteggiamento dell’ebraismo italiano verso il sionismo fu la guerra, i milioni di vittime dell’odio sistematico e brutale della barbarie nazifascista. Una guerra che si concluse con la vittoria, con l’incontro con soldati che portavano al braccio la stella di David, con le relazioni intessute con gli ebrei stranieri internati al Sud, portatori di un nuovo modo di vedere l’organizzazione comunitaria. Da Israele rientravano coloro che in un primo momento avevano trovato rifugio in Palestina: Enzo Sereni morì a Dachau, ma la sua opera proseguì nell’attività della moglie Ada. Rientrò David Prato, al quale venne affidato il compito di reggere la cattedra rabbinica. Rientrò Dante Lattes, rabbino, intellettuale e giornalista, esponente di spicco del sionismo italiano che, dopo aver trovato riparo a Tel Aviv prima e Gerusalemme poi, nella fase di ricostruzione delle Comunità ebraiche italiane, fu chiamato a Roma per istituire e dirigere il Centro di Cultura Ebraica dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane.

Cimitero Verano - Sezione Cimitero Israelitico (ph. Stefano Bellu)

Cimitero Verano – Sezione Cimitero Israelitico (ph. Stefano Bellu)

1. 5 Le politiche sociali

L’Organizzazione Sanitaria Ebraica (OSE) fu fondata nel 1912 a San Pietroburgo, ottenendo l’autorizzazione dal Ministero degli Interni russo. L’ente aveva una visione di protezione sociale, seguiva una corrente di pensiero igienista ed era composta da medici ebrei di vario orientamento politico o culturale: assimilati, sionisti, liberali, rivoluzionari, tutti accomunati dalla speranza di una caduta del regime zarista.

L’OSE aveva la finalità di soccorrere e curare le popolazioni ebraiche, praticando attività di prevenzione sulla salute dei minori e dei giovani, con una attenzione particolare verso eventuali rischi pandemici diffondendo le norme igieniche presso la popolazione. Si trattava di occasioni per entrare in contatto e avviare un percorso con una popolazione segnata dalla persecuzione razziale e dove, in particolare, c’era l’urgente bisogno di aiuto per vedove e orfani. A Roma, aprì il suo primo ambulatorio in via Catalana 3-5 fornendo assistenza medica agli adulti e ai bambini. Tuttavia, l’assistenza sanitaria nei confronti della popolazione non si limitò al solo ambulatorio di via Catalana; in questo frangente venne riorganizzata la Maternità Di Cave, attiva fino al 1968, il luogo dove nacquero gran parte dei bambini della comunità ebraica di Roma (dai dati dell’OSE è emerso come nella Roma del dopoguerra la percentuale delle nascite era elevata e i nuclei delle famiglie assistite dall’ente variavano da un minimo di tre figli a un massimo di dodici); venne fondata una casa-famiglia per gli orfani lungo la via Cassia, che funse da centro preparatorio per l’educazione in modo da permettere il ritorno agli studi scolastici regolari. Infine, date le necessità sanitarie e igieniche, l’organizzazione creò un asilo nido ottenendo il risultato di prevenire le patologie legate alla trascuratezza dell’ambiente famigliare e abitativo. Un altro organismo collaborante, la Deputazione Ebraica di assistenza, aveva il compito di garantire le visite domiciliari delle proprie assistenti sociali impegnate con iniziative di persuasione presso i nuclei famigliari restii a garantire l’assistenza dell’asilo nido dei minori.

Dai dati di archivio delle due istituzioni è emerso un quadro preoccupante relativo alla condizione igienico sanitaria e alla frequenza scolastica da parte dei figli delle famiglie assistite. Il motivo è riconducibile a contesti segnati dal disorientamento familiare e dai bisogni economici connessi. Non erano rari i casi nei quali il minore viveva di espedienti o di accattonaggio. La Comunità dimostrava la propria vicinanza e sostegno con iniziative che andavano dalle lezioni private alla formazione professionale, ottenendo in molti casi gli obiettivi prefissati. Negli anni del dopoguerra, a Roma, risultavano assistite dall’OSE oltre 4.500 persone, una percentuale pari al 70% del totale degli assistiti in tutta la penisola.

Dal 1955 il direttore sanitario fu Mordko Tenenbaum. Tenenbaum, ebreo polacco, medico e partigiano, fu una figura centrale nel periodo di ricostruzione del tessuto sociale della comunità di Roma. Aveva lavorato inizialmente per l’American Joint Distribution Commitee, poi era passato all’OSE. La sua attività consisteva nella programmazione e nella supervisione delle attività ambulatoriali, oltre a fungere da cinghia di collegamento sia con l’Alto Commissariato per l’Igiene e la Sanità di Roma sia con il Joint.

L’operato di Tenenbaum è stato recentemente oggetto di analisi per nuovi studi sullo stato di salute della comunità ebraica di Roma dall’immediato dopoguerra fino agli anni Sessanta. Nello specifico, Alberto Sonnino e Giorgio Caviglia hanno esaminato due importanti ricerche a carattere statistico epidemiologico svolte sulla popolazione della comunità nel dopoguerra. La prima, Risultati di un’indagine socio-psichiatrica nella comunità ebraica di Roma, fu realizzata nel 1963 e venne redatta con l’assistenza dello psichiatra e psicanalista Isidoro Isacco Tolentino e con l’assistenza del servizio medico dell’American Joint Distribution Committee di Ginevra, volto all’individuazione delle problematiche di interesse psicopatologico presenti nella popolazione. La seconda indagine, condotta dal solo Mordko Tenenbaum, Some considerations on mental retardation and emotional disorders among children in the Jewish community of Rome, si concentrava sulla popolazione in età evolutiva.

Roma, Ghetto ebraico, anni 50

Roma, Ghetto ebraico, anni 50

Obiettivo primario degli studi era quello di individuare attraverso la raccolta dei dati la corretta programmazione degli interventi sociosanitari a sostegno della popolazione adulta e in fase di sviluppo. La prima indagine, svolta su una popolazione di 116 pazienti ebrei degenti negli ospedali psichiatrici dell’Italia del centro-sud, si caratterizza per essere stata all’avanguardia per l’epoca in cui è stata realizzata e ancora attuale se paragonata ai moderni trattati di epidemiologia psichiatrica.

Ma ciò che più ha reso meritevole di essere sottolineato, secondo i due autori dello studio sull’elaborazione di Tenenbaum e Tolentino, riguarda le difficoltà incontrate sia dai sopravvissuti alla Shoah nel raccontare il proprio dramma, sia dagli specialisti che avrebbero dovuto rendersi disponibili ad ascoltare. Successivamente, tale difficoltà è stata definita con il concetto di “congiura del silenzio”, ovvero il tacito accordo tra paziente e chi doveva ascoltarlo. Secondo Sonnino e Caviglia dai risultati delle indagini statistiche si evidenzia una sorta di rimozione collettiva da parte di chi era superstite della Shoah:

«Una rimozione che più propriamente potrebbe essere assimilata a un vero e proprio diniego, inteso come ripudio della percezione di parte della realtà, i cui effetti sono stati inconsciamente trasmessi alle generazioni successive, con le ripercussioni psicopatologiche e psicosomatiche dimostrate da un’ampia letteratura».

Nelle pagine dell’OSE il riferimento alla persecuzione nazifascista è assente. Non si fa cenno ai suoi effetti diretti o indiretti sulla psiche di chi era sopravvissuto. Non c’è traccia di sintomi riconducibili a disturbi postraumatici, a reazioni depressive, dissociative o psicotiche derivanti dall’aver vissuto personalmente o nell’ambito famigliare la deportazione. Il silenzio della vittima o la ritrosia ad ascoltare quanto era accaduto non sembrava essere una particolarità riconducibile alla sola sfera del rapporto tra psicoterapeuta e paziente. In un’intervista nel 1997 Piero Terracina, unico superstite di una famiglia che aveva perduto sette componenti, riferiva:

«Gli artefici della mia resurrezione sono stati gli amici […] sapevano che io non amavo parlare della grande tragedia che mi era piombata addosso e non mi hanno mai chiesto niente, hanno fatto sempre il possibile per farmi una persona normale anche se non si può essere «normali» uscendo da Auschwitz».

E ancora:

«Ero considerato uno del gruppo e loro sopportavano certi miei silenzi, certi pensieri […] Era una compagnia molto affiatata e allegra composta quasi esclusivamente da ragazze e ragazzi ebrei. Con loro e con i miei parenti per molti anni non ho parlato di quello che mi era accaduto. Temevo soprattutto che mi chiedessero come mi ero salvato… mi terrorizzava il fatto che qualcuno potesse chiedermi «Perché tu ti sei salvato e mio figlio o mio marito no?» Poi pensavo che se io avessi parlato di certe cose a molta gente avrebbe dato fastidio […] inoltre raccontare del lager avrebbe significato in parte rivivere quelle situazioni ed io volevo sembrare una persona come tutte le altre, non dico «essere» ma almeno «sembrare».

Le parole di Terracina, come confermano anche i dati dello studio di Tenenbaum e Tolentino, non sono un caso isolato. È vero che il disturbo da stress postraumatico è stato diagnosticato formalmente solo nel 1980, ma le sue caratteristiche erano già ben note agli specialistici. Appare pertanto singolare la totale assenza dei suoi tratti peculiari nella popolazione ebraica affetta da patologia psichiatrica. Tenenbaum, nel paragrafo “Dati sulla persecuzione e sulla condizione di profugo” si limita a riportare il numero «relativamente esiguo dei nostri malati [che] hanno dichiaratamente avuto esperienza di campi di concentramento». 

«Anche nello studio successivo, dove Tenenbaum focalizza le sue analisi sui disturbi in età evolutiva, le cause all’origine dei deficit sono riconducibili alle condizioni socioeconomiche, alla giovane età delle madri e alla diffusa dipendenza delle figure maschili da quelle femminili. Nessun cenno alla recente persecuzione antiebraica». 

Le conclusioni a cui giungono Sonnino e Caviglia confermano quanto riportato dai protagonisti dell’epoca, ossia come agli inizi degli anni Sessanta risultasse ancora difficilmente accostabile la Shoah alla patologia psichica. La condizione del singolo restio a parlare della tragedia patita, sia esso paziente o terapeuta, era allo stesso tempo favorita da un ambiente circostante riluttante di fronte all’argomento. Solo tempo dopo, grazie alla funzione dei nuclei associazionistici di varia natura che consentirono alla popolazione sconvolta dal conflitto di trovare consolazione e conforto l’eco della tragedia aveva raggiunto la sua condizione di patrimonio collettivo.

Cimitero Verano - Sezione Cimitero Israelitico (ph. Stefano Bellu)

Cimitero Verano – Sezione Cimitero Israelitico (ph. Stefano Bellu)

Conclusioni

La ricostruzione della comunità ebraica di Roma nel secondo dopoguerra ha rappresentato un percorso complesso e ricco di significati, che intreccia memorie dolorose e straordinari processi di rigenerazione. Un primo elemento fondamentale è rappresentato dalla profondità del trauma generato dalle leggi razziste e dall’occupazione nazista. Questi eventi hanno lasciato ferite materiali e psicologiche che hanno richiesto decenni per essere affrontate. La deportazione e l’impoverimento forzato hanno stravolto la coesione sociale e la struttura economica della comunità, eliminando intere famiglie e distruggendo attività economiche tradizionali.

Michele Sarfatti ha sottolineato come l’iniziativa della Resistenza e degli Alleati abbia restituito agli ebrei il diritto essenziale: quello di vivere. Successivamente, ai nuovi governi e alla nuova società italiana nata sulle ceneri del regime spettava il compito di restituire i diritti, con tempi e modi che in alcuni ambiti furono rapidi, in altri tale restituzione fu lenta e incompiuta. La necessità di riparare i danni causati dalle persecuzioni si è scontrata con difficoltà amministrative, resistenze burocratiche e un contesto politico nazionale che ha spesso lasciato incompiute le promesse di reintegrazione e giustizia.

Nonostante questi ostacoli, la comunità è riuscita a ricostruire il proprio tessuto economico e sociale, sebbene con significative differenze rispetto al periodo prebellico. La prevalenza di piccoli e medi commercianti tra gli iscritti alla Comunità Ebraica di Roma ha riflettuto una continuità con il passato, mentre l’incremento del numero di impiegati e lavoratori dipendenti è la testimonianza di un graduale adattamento a un contesto urbano e produttivo in evoluzione. Questa dinamica, tuttavia, deve essere collocata in un quadro di profonde trasformazioni sociali, che hanno evidenziato le difficoltà della reintegrazione e i tempi diversi richiesti per restituire diritti e opportunità ai membri della comunità. 

La trasformazione delle dinamiche abitative è stata un altro aspetto rilevante. L’abbandono del ghetto per nuove aree residenziali ha rappresentato non solo un miglioramento delle condizioni economiche, ma anche una ridefinizione simbolica e identitaria della presenza ebraica nella città di Roma. Questo spostamento, come emerge da differenti studi in materia, si colloca prima dell’arrivo delle comunità provenienti dalla Libia a seguito dell’avvento al potere di Gheddafi e al conseguente insediamento nei quartieri a nord-est di Roma, è stato accompagnato da una redistribuzione delle attività commerciali, che si sono adattate alle mutate esigenze di una città in espansione.

La rinascita della comunità è stata sostenuta anche da iniziative esterne, come il contributo della Brigata Ebraica e delle organizzazioni internazionali, che hanno offerto assistenza materiale e morale. Questi interventi hanno facilitato il reinserimento dei sopravvissuti e il rafforzamento della rete sociale della comunità, contribuendo al recupero di una identità collettiva gravemente minacciata. La Brigata Ebraica, in particolare, ha svolto un ruolo cruciale non solo dal punto di vista materiale, ma anche simbolico, portando un messaggio di solidarietà e di speranza. Le loro attività hanno promosso l’adesione agli ideali sionisti, rafforzando il legame tra gli ebrei romani e la nascente prospettiva di uno Stato ebraico in Palestina. Questo ha innescato nuove dinamiche identitarie, contribuendo a ridefinire il rapporto con le radici storiche e culturali.

Il sionismo è stato, infatti, uno degli elementi centrali del processo di ricostruzione politica e intellettuale. Tuttavia, non è sempre stato così. Dagli inizi del Novecento, e almeno fino ad una prima fase di assestamento post conflitto, non aveva riscosso consenso unanime ed era contestato all’interno del mondo ebraico stesso. Successivamente, quando la stragrande maggioranza degli ebrei viveva nella diaspora, raggiungere la “Terra santa” fu, per molti, una scelta obbligata, dettata dalla persecuzione. Solo una minima parte degli ebrei italiani credette nella forma di “pre-Stato e quasi nazione” venutasi a creare prima del 1940. La maggioranza ne sposò con convinzione le tesi dopo aver visto il baratro. Per molti ebrei romani, l’adesione agli ideali sionisti ha rappresentato una risposta alla distruzione della Shoah, offrendo un nuovo orizzonte politico e culturale. Non si è tramutata obbligatoriamente con la salita in Eretz Israel, ma l’interazione con i rappresentanti del movimento sionista e con i soldati della Brigata ha creato un terreno fertile per iniziative educative, politiche e sociali che hanno influenzato profondamente la comunità. Questo ha portato a una rinnovata consapevolezza del proprio ruolo nella diaspora e alla partecipazione attiva nel sostegno alla costruzione e alla difesa dello Stato di Israele. 

In conclusione, l’esperienza della comunità ebraica di Roma nel secondo dopoguerra è un esempio emblematico di rigenerazione e adattamento. La capacità di ricostruire legami sociali, economici e identitari, pur in un contesto segnato da lutti e distruzioni, evidenzia la forza delle tradizioni, delle relazioni sociali e della memoria collettiva. Allo stesso tempo, la storia della comunità pone interrogativi sul ruolo delle istituzioni e della società civile nel promuovere l’uguaglianza, la giustizia e la riconciliazione, offrendo spunti di riflessione per il presente e per il futuro. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Riferimenti bibliografici
Aa, Vv. (1997). Storia d’Italia. Annali. Vol. 11/2 - Gli ebrei in Italia: dall’emancipazione a oggi. (C. Vivanti, A cura di) Torino: Einaudi.
Abulafia, D. (1997). Gli ebrei in Sardegna in Storia d’Italia. (Vol. Gli ebrei in Italia: dall’emancipazione a oggi.). (C. Vivanti, A cura di) Torino: Einaudi.
Barozzi, F. (Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la Seconda guerra mondiale). L’uscita degli ebrei di Roma dalla clandestinità. (M. Sarfatti, A cura di) Firenze: Giuntina.
Bensoussan, G. (2007). Il sionismo: una storia politica e intellettuale, 1860-1940 (Vol. II). Torino: Einaudi.
Carpi, D. (1997). Il movimento sionistico in Storia d’Italia. (Vol. Annali – Gli ebrei in Italia: dall’emancipazione a oggi). (C. Vivanti, A cura di) Torino: Einaudi.
Colzi, F., & Procaccia, C. (2004). 2. L’economia di Roma e la Comunità ebraica dall’emancipazione alle leggi razziali (Vol. Gli effetti delle leggi razziali sulle attività economiche degli ebrei nella città di Roma (1938-1943)). (C. R. Roma, A cura di) Roma: Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Roma.
Colzi, F., & Procaccia, C. (2007). 3. Aspetti socioeconomici della comunità ebraica romana dalle leggi razziali al miracolo economico (1938-1965) in La comunità ebraica di Roma nel secondo dopoguerra – Economia e società (1945-1965) . (A. s. Roma, A cura di) Roma: Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Roma.
D’Amico, G. (2006). Quando l’eccezione diventa norma: la reintegrazione degli ebrei nell’Italia postfascista. Torino: Bollati Beringhieri.
D’Amico, G. (2023). Riparare i danni: I perseguitati dai fascismi in Austria, Francia, Germania, Italia – Sottrazioni, Restituzioni, Indennizzi. Milano: Le Monnier.
Debendetti, G. (2015). 16 ottobre 1943 . Torino: Einaudi.
Del Regno, F. (2001). Tendenze politiche, religiose e culturali nella comunità ebraica di Roma tra il 1936 e il 1941 (Vol. Ebrei: identità e confronti.). Firenze: Giuntina.
Della Pergola, S. (1981). Appunti sulla demografia della persecuzione antiebraica in Italia. La rassegna mensile di Israel: 120-137.
Della Pergola, S. (2023). Essere ebrei oggi: continuità e trasformazioni di un’identità. Bologna: Il Mulino.
Fantini G. (2022). Storia della Brigata ebraica: gli ebrei della Palestina che combatterono in Italia nella Seconda guerra mondiale. Torino: Einaudi.
Foa, A. (2009). Diaspora: storia degli ebrei nel Novecento. Roma; Bari: GLF Editori Laterza.
Foa, A. (2018). La famiglia F. Roma; Bari: Laterza.
Foa, A. (2021). Portico d’Ottavia 13: Una casa del ghetto nel lungo inverno del ‘43. Roma; Bari: Laterza.
Foa, A. (2022). Gli ebrei in Italia: i primi 2000 anni. Roma; Bari: Laterza.
Fubini, G. (1978). La condizione giuridica dell’ebraismo italiano: dal periodo napoleonico alla Repubblica. Firenze: La nuova Italia.
Gagliani, D. (2004). Il difficile rientro. Il ritorno dei docenti ebrei nell’università del dopoguerra. Bologna: CLUEB.
Guerrieri, V. (2016). La comunità ebraica di Roma dopo la seconda guerra mondiale (1944-1950): Problematiche economiche, giuridiche e sociali. «La Rassegna mensile di Israel», 82: 101-124.
Insolera, I. (2011). Roma moderna: da Napoleone 1. al 21. secolo. Torino: Einaudi.
Levi, P. (2016). Opere Complete. (M. Belpoliti, A cura di) Torino: Einaudi.
Loparco, G. (2004). Gli ebrei negli istituti religiosi a Roma (1943-1944). Dall’arrivo alla partenza. “Rivista di storia della Chiesa in Italia”, 58: 107-210.
Luzzato, A. (1997). Autocoscienza e identità ebraica (Vol. Storia d’Italia. Annali). (C. Vivanti, A cura di) Torino: Einaudi.
Pavan, I. (2015). Le Holocaust Litigation in Italia: storia, burocrazia e giustizia (1955-2015) (Vol. Nei tribunali: pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana ). (G. Focardi, & C. Nubola, A cura di) Bologna: Il Mulino.
Pavan, I. (2022). Le conseguenze economiche delle leggi razziali. Bologna: Il Mulino.
Pavan, I., & Schwarz, G. (2001). Gli ebrei in Italia tra persecuzione fascista e reintegrazione post-bellica. Firenze: Giuntina.
Picciotto Fargion, L. (1979). L’occupazione tedesca e gli ebrei di Roma. Roma: Carucci Editore.
Piperno, G. J. (1970). Fermenti di vita giovanile ebraica a Roma. Durante il periodo delle leggi razziali e dopo la liberazione della città. (Vol. Scritti in memoria di Enzo Sereni: saggi sull’ebraismo romano). (D. Carpi, A. Milano, & U. Nahon, A cura di) Gerusalemme: Fondazione Sally Mayer.
Polacco, V. (2016, 02 05). 4 giugno 1944: La foto inedita. Una nuova testimonianza. Tratto il giorno 12 07, 2024 da Moked: https://moked.it/blog/2016/02/05/4-giugno-1944-%C2%AD-la-foto-inedita-una-nuova-testimonianza
Roma, A. S. (A cura di). (2007). Aspetti socioeconomici della comunità ebraica romana dalle leggi razziali al miracolo economico (1938-1965) (Vol. La comunità ebraica di Roma nel secondo dopoguerra : economia e società (1945-1965)). Roma: CCIAA Roma.
Sabatello, E. F. (1970). Aspetti economici ed ecologici dell’ebraismo romano: prima, durante e dopo le leggi razziali 1928-65 (Vol. Scritti in memoria di Enzo Sereni: saggi sull’ebraismo romano). (D. Carpi, A. Milano, & U. Nahon, A cura di) Gerusalemme: Fondazione Sally Mayer.
Sarfatti, M. (1998). (1998). Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli ebrei in Italia dopo la Seconda guerra mondiale. Firenze: Giuntina.
Schwarz, G. (2004). Ritrovare sé stessi: gli ebrei nell’Italia postfascista. Roma; Bari: Laterza.
Segre, V. (1985). Storia di un ebreo fortunato. Milano: Garzanti.
Sereni, C. (1993). Il gioco dei regni. Firenze: Giunti.
Sestrieri, G. (2023). Breve storia dell’Organizzazione Sanitaria Ebraica (OSE) (Vol. Fra trauma e memoria : le ricerche di Mordko Tenenbaum nella comunità ebraica di Roma.). (E. Campelli, A cura di) Roma: Cangemi.
Shazar, Z. (1970). Enzo Sereni (Vol. Scritti in memoria di Enzo Sereni: saggi sull’ebraismo romano). (D. Carpi, A. Milano, & U. Nahon, A cura di) Gerusalemme: Fondazione Sally Mayer.
Singer, I. J. (2013). La famiglia Karnowski. Milanno: Adelphi.
Sonnino, A. C. (2023). La comunità ebraica di Roma nel secondo dopoguerra. Una difficile elaborazione dei traumi. (Vol. Fra trauma e memoria : le ricerche di Mordko Tenenbaum nella comunità ebraica di Roma). (E. Campelli, A cura di) Roma: Cangemi.
Sonnino, A. C. (2023). La comunità ebraica di Roma nel secondo dopoguerra. Una difficile elaborazione dei traumi. (Vol. Fra trauma e memoria : le ricerche di Mordko Tenenbaum nella comunità ebraica di Roma). (E. Campelli, A cura di) Roma: Cangemi.
Spizzichino, D. (2007). Le trasformazioni demografiche della comunità ebraica di Roma (1945-1965) (Vol. La comunità ebraica di Roma nel secondo dopoguerra : economia e società (1945-1965)). (A. S. Roma, A cura di) Roma: CCIAA Roma.
Tagliacozzo, M. (2003). Attività dei soldati di Eretz Israel in Italia (1943-1946). Il corpo ausiliario dei soldati palestinesi nell’armata di liberazione inglese. «La Rassegna mensile di Israel», 69.
Toaff, E., & Elkann, A. (2001). Essere ebreo. Milano: Tascabili Bompiani.
Toscano, M. (2004). Ebraismo e antisemitismo in Italia: dal 1848 alla guerra dei sei giorni. Milano: Franco Angeli.
Toscano, M. (2018). L’abrogazione delle leggi razziali in Italia, 1943-1987: reintegrazione dei diritti dei cittadini e ritorno ai valori del Risorgimento. L’abrogazione delle leggi razziali in Italia. Roma: Senato della Repubblica. 

_____________________________________________________________ 

Stefano Bellu, laureato in Scienze della Comunicazione presso l’Università Roma Tre con una tesi in Storia Contemporanea sullo strappo del Partito Comunista Italiano da Mosca, ha conseguito successivamente una laurea in Storia presso l’Università di Bologna, con una tesi in Storia dell’ebraismo dedicata alla ricostruzione del tessuto socioeconomico della Comunità ebraica di Roma dopo la Seconda Guerra Mondiale. Da oltre quindici anni è attivamente impegnato nella promozione del diritto allo sport per migranti forzati attraverso l’associazione Liberi Nantes. In precedenza, ha collaborato con l’UISP di Roma nell’ambito dello sport e delle politiche sociali. Dal 2016 lavora all’interno del sistema camerale, dove si è occupato di progetti per la digitalizzazione delle piccole e medie imprese e di assistenza tecnica alla pubblica amministrazione in materia di proprietà industriale.

______________________________________________________________

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Politica. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>