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Mario Scalesi, poeta meticcio

 copertinadi Antonino Cangemi

In letteratura la notorietà (che spesso comunque non sconfina oltre ambiti ristretti) è effimera. L’industria editoriale insegue il profitto con sempre più accentuata indifferenza nei confronti della qualità dei “prodotti” su cui punta, e questi, se conquistano il mercato, detengono la ribalta per un limitato arco temporale. Alcuni generi inoltre godono di modestissimo credito a dispetto del loro rilievo. È il caso della poesia – l’espressione più raffinata della creatività letteraria – quasi assente nelle grandi catene librarie. “Carmina non dant panem” recita un antico brocardo, né regalano a chi le scrive, salve rare eccezioni, risonanza pubblica nel breve e nel lungo termine. La damnatio memoriae è perciò destino quasi comune dei poeti, anche di quelli baciati dal talento.

Ciò detto, non meraviglia che un poeta ispirato come Mario Scalesi –  vissuto in Tunisia, ma di origini siciliane per conto del padre, a cavallo tra il XIX e XX secolo – sia almeno in Italia, quasi del tutto ignorato, considerata anche la brevità della sua tormentata vita. Stupisce, al contrario, come la tenacia di Salvatore Mugno, encomiabile e irriducibile guardiano dei valori letterari (e non solo) espressi in Sicilia e soprattutto nel Trapanese, stia riuscendo a disseppellirlo dall’oblio e a riproporlo all’attenzione della critica nazionale.

Da poco è infatti negli scaffali delle librerie il libro da lui curato Mario Scalesi. Le poesie di un maledetto edito da Transeuropa che pare stia risvegliando da un colpevole letargo più di un cultore di letteratura. Un libro, quello di Mugno, che, oltre a offrirci la traduzione dei versi di Scalesi, fa luce, con accurata organicità, sulla sua figura e sul contesto entro cui si mosse, compreso quello di un territorio, il Nordafrica, assai più vicino rispetto a quanto comunemente si pensa – e ciò non solo geograficamente – a quello della Penisola e, ancor più, dell’Isola in cui viviamo.

Mugno, la cui militanza letteraria si contraddistingue per la passione con cui scopre o riscopre autori dimenticati, sollecitato dalle nostre domande, ci ha parlato del suo libro non tanto per promuovere se stesso (non ne ha bisogno, né gli interessa) ma Mario Scalesi, verso il quale, per il nutrimento spirituale che dona la poesia, nutre riconoscenza.

Il tuo libro si fa apprezzare anche per le diverse note che precedono i versi de “Les poèmes d’un Maudit” da te tradotti introducendoci alla lettura delle poesie di Mario Scalesi. In una di esse ti soffermi sul flusso migratorio tra l’Italia e la Tunisia nell’Ottocento e nei primi del Novecento, così diverso da quello dei nostri giorni.

«Questa edizione dei Poèmes, la terza nella nostra lingua, tutte e tre a mia cura – stavolta in una versione ampiamente riveduta e ampliata, soprattutto sul versante della biografia del poeta, della critica che si è interessata alla sua opera e dell’inquadramento storico della medesima – è la sola monografia a essersi occupata, nel nostro Paese, in una prospettiva generale, degli scritti e della vita di Mario Scalesi; ma, soprattutto, a offrire ai lettori e agli studiosi un ampio florilegio dell’unica silloge poetica dello scrittore siculo-tunisino.

Le numerose notizie inedite contenute nel volume ampliano molto la conoscenza di questo autore. Nel testo stavolta ho anche incluso una breve ma puntuale sezione intorno ai dati storici e demografici sulla presenza italiana in Tunisia tra Otto e Novecento.

Certo il contesto geo-politico, storico, sociale di quelle migrazioni dei nostri avi verso l’Africa del Nord era, per molti aspetti, assai differente rispetto a quello odierno. Il mondo, peraltro, allora forse sembrava meno piccolo, più ospitale e più disponibile a far sognare una “nuova vita” a chi aveva bisogno di lasciare il proprio paese. Inoltre, i siciliani che puntavano, ad esempio, verso la Tunisia, spesso anche clandestinamente, non annegavano, per fortuna, in massa nel Mediterraneo. È stato scritto parecchio su questi temi, ma si tratta di un ambito ancora per tanti aspetti abbastanza sconosciuto».

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Verlaine, di Courbet

L’espressione “poeta maledetto” nasce da un’antologia pubblicata da Verlaine nel 1884 intitolata “Les poètes maudits” ricomprendente versi di alcuni poeti, tra i quali lui stesso, accomunati dallo spirito ribelle e da una visione iconoclasta e innovativa della società, oltre che dall’essere destinati a non essere compresi dai loro contemporanei. Scalesi, dando quel titolo alla sua unica raccolta, si autodefinisce un “poeta maledetto”. In che misura e in che termini lo è?

«Sì, in effetti, il titolo dell’unica silloge poetica scalesiana (Les poèmes d’un maudit), apparsa postuma a Parigi, nel 1923, a cura della Société des Écrivains de l’Afrique du Nord, fu stabilito dallo stesso Scalesi, il quale, poco tempo prima di morire, ordinò le sue poesie per farne un libro.

A proposito della sua scelta di annoverarsi nella famiglia dei maudits, certamente con riferimento alla celebre antologia di Paul Verlaine e ai poeti inclusi nella medesima, da lui molto amati, può dirsi che, nell’assimilarsi a quella “corrente” di autori, egli non intendeva condividerne gli eccessi e i “vizi”, ma l’emarginazione, la ribellione e il rifiuto del successo volgare e superficiale. Possiamo affermare che adottando per sé il termine “maledetto”, Scalesi si riferisse, soprattutto, al fatto che «Les maléditions des hommes / secondent celles du Destin» (come egli spiega nella poesia di ouverture della sua silloge, Lapidation) e, perciò, alla sua drammatica condizione esistenziale e sociale, oltre che al suo disinteresse per le luci della ribalta».

Leggendo il tuo libro, appare controverso il rapporto di Scalesi con Baudelaire – giustamente oggi celebrato per l’anniversario dei due secoli della sua nascita: da un canto ne riconosce l’ascendenza della sua poesia, dall’altro sembra prenderne le distanze.

«In un suo articolo del 1919 Scalesi, con riferimento alla poesia dell’autore di Les fleurs du mal, scrive di “stupida isteria di Baudelaire”. Questa, apparentemente stizzosa e sbrigativa espressione va interpretata alla luce dell’intera opera dell’autore nordafricano, a partire dalla lirica d’ouverture (Lapidation) della sua silloge, dove egli cita espressamente il capolavoro baudelairiano per sottolineare le distanze tra il proprio approccio all’arte poetica e quello del grande scrittore francese. Che Scalesi abbia, tuttavia, frequentato e assimilato i versi di questo autore non v’è dubbio. Lo rilevano molti critici, ad esempio, anche Giuliana Toso Rodinis che, comunque, coglie anche la presenza, nella raccolta scalesiana, di suggestioni derivanti, ad esempio, da Ronsard, Vigny, Valéry, Nerval, ma rimarcando, tuttavia, l’originalità di Scalesi.

Ciò che il poeta siculo-tunisino rigetta con forza del maestro transalpino sarebbero la presunta pianificata ricerca del compiacimento, dello stupefacente, dell’orrido, il dandismo, la rassegnazione patologica, ipocondriaca, decadente. Non va, infatti, dimenticato che Scalesi spesso, sotto il guscio del simbolismo, è un autore fortemente “realista”, pragmatico direi, concreto, tanto che i suoi versi potrebbero snocciolarsi come un “prontuario” di istruzioni pratiche per decifrare e attraversare la vita e i suoi inganni. Egli è anche autore di maestosi, efficacissimi canti di taglio spiccatamente engagé, calati nella storia e nella quotidianità delle vite “banali”, comuni, di tutti noi. Si pensi a L’epopea del povero e a Ode al denaro.

Lo scrittore tunisino, d’altra parte, da ragazzo era solito tenere in tasca i baudelairiani Les fleurs du mal. Commette, perciò, un grave errore chi crede di poter relegare Scalesi a un ruolo di epigono del poeta parigino. Egli ha, infatti, una personalità di scrittore originale e spiccatissima. Certo, assistere oggi, a duecento anni dalla nascita, agli unanimi e pelosi osanna del mondo fariseo per uno scrittore grandioso come Baudelaire, quando in vita, anch’egli, al pari di Scalesi, fu dai più ritenuto un povero matto da interdire, processare e condannare, mi fa arrabbiare e quasi piangere».

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Charles Baudelaire

Mario Scalesi è un poeta in Italia quasi del tutto sconosciuto. Solo tu e pochi altri hanno scritto su di lui. Maggiore la sua fortuna in Tunisia e in genere fuori dalla nostra penisola. Perché?

«Il nostro è un Paese spesso pigro, lento e “provinciale”, anche e soprattutto a livello accademico. Basti pensare a quanti autori assai importanti del Nord Africa in Italia sono pressoché sconosciuti perché non tradotti in italiano. Lo stesso Scalesi fu praticamente indotto ad abbracciare la lingua e la cultura francese, piuttosto che quella italiana, quando era un ragazzino. Scalesi è, poi, un autore urticante, troppo vero e senza veli per poter piacere a un pubblico e a una critica spesso “addomesticati”, se non narcotizzati con prodotti seriali. Nella citata Lapidation il nostro poeta prende le distanze anche da L’Abîme, un romanzo di cui sono coautori Charles Dickens e Wilkie Collins e che imbastisce una “storia misteriosa”. Collins è ritenuto il “padre del poliziesco” e dei romanzi “gialli”. Scalesi non è per una letteratura sensazionalista, enigmatica e di “intrattenimento-divertimento”. Ma i suoi “vagabondaggi” nella bibliografia della critica sono anche dovuti alla sua condizione di “meticcio”, alla sua contestuale appartenenza e non-appartenenza a tre nazioni: quella italiana, quella francese e quella tunisina».

Nella tua instancabile e preziosa attività di ricerca letteraria (che si accompagna a quella di scrittore e saggista di versatile ispirazione), ti sei occupato anche della poesia tunisina. Che posto occupa Scalesi, poeta dall’esistenza assai breve che ha influito sulla sua limitata produzione, in quel contesto?

«L’autore dei Poèmes fu tra i principali sostenitori della Société des Écrivains d’Afrique du Nord e strenuo difensore della specificità della produzione artistica nordafricana. Quel suo ruolo, assieme alla sua opera poetica e saggistica, oggi gli conferiscono un seggio tra i “padri” della patria letteraria tunisina. Già a partire dal 1918 egli scrisse diversi saggi per sostenere l’idea di una letteratura maghrebina di espressione francese. Oggi Scalesi è un’importante figura della letteratura nordafricana e del Mediterraneo, a cui si riconosce, unanimemente, il ruolo di iniziatore della letteratura maghrebina di espressione francese e la posizione di principale poeta tunisino del Novecento di lingua francese.

Questi riconoscimenti sono stati sanciti o avvalorati da attestazioni di scrittori e studiosi tunisini, italiani e francesi: da Ali Douagi ad Albert Memmi, da Yves-Gérard Le Dantec a Philippe Soupault, da Vincenzo Consolo a Renzo Paris».

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Tunisi, Porta di Francia, acquarello di Walter Crane

Tradurre un poeta è opera improba. Ne era consapevole Bufalino che, come tu citi in una delle note introduttive, invocava “una parola di pietà per chi … si ostina a ripetere questo povero gesto di procreazione” e per il quale “il vizio del tradurre” assomiglia a quello del gioco: di un gioco vocato alla perdita. Da quali criteri ti sei lasciato guidare nella traduzione?

«Ho lavorato a queste versioni animato dalla passione, più che dal “mestiere”. Scalesi sosteneva l’intraducibilità della poesia. Io concordo con lui. Tradurre i versi è, tuttavia, un’operazione necessaria per diffonderli da un Paese all’altro. Ho cercato, di regola, di attenermi fedelmente al dettato e allo “spirito”, possibilmente, dell’autore. È, comunque, inevitabile allontanarsi dagli originali. Ho perseguito la chiarezza espositiva, accompagnata, ove a mio avviso opportuno o necessario, da una personale ricerca linguistica e musicale. Ho quasi sempre scelto di riprodurre in versi liberi le poesie, piuttosto che ricreare le architetture scelte dal poeta. Tuttavia, in qualche caso ho trasformato gli alessandrini in endecasillabi oppure ho riformulato degli ottonari e dei quinari. Naturalmente, le mie traduzioni sono corredate del testo francese a fronte».

Il tuo libro sembra avere acceso in Italia l’attenzione per Scalesi: ne hanno scritto qualificati critici di autorevoli testate, anche nell’inserto letterario del “Corriere della Sera”, “La lettura”. Pensi che, decorso il tempo ordinario di “vita” di un libro, l’interesse per Scalesi perdurerà o sarai costretto tra qualche anno a scrivere un altro libro per mantenere viva la sua memoria?

«Le opere che valgono davvero e che hanno avuto la buona ventura di resistere alla scomparsa dei loro autori e dei loro eventuali “traffici di influenze” nel contesto culturale, hanno buone chances di sopravvivere e, magari periodicamente, “rinascere”. Scalesi è morto quasi cento anni fa. Si è difeso e si difende molto bene. La sua poesia e i suoi interventi critici meritano di durare perché dicono, fino a oggi e credo per molto tempo ancora, quasi tutto ciò che di essenziale si può dire sulla natura e sul destino degli esseri umani. E Scalesi veicola tutto ciò con un suo linguaggio, dalla sua ottica, attraverso la sua sensibilità e con spietata lucidità e verità. Per chi ha ancora desiderio e bisogno di entrare in profondità – e di farlo fuori dalle ipocrite convenzionalità e convenienze – nei temi dell’amore, della donna, della natura, della religione, delle dinamiche sociali e del potere, della storia, della psicologia e del “sottosuolo” dell’animo umano, i Poèmes sono una miniera.

Per quanto mi riguarda, amo troppo quest’autore per smettere di occuparmene. Per me sarebbe un onore anche semplicemente potergli lustrare le scarpe».

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021

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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, attualmente è preposto all’ufficio che si occupa della formazione del personale. Ha pubblicato, per l’ente presso cui opera, alcune monografie, tra le quali Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi e Mobbing: conoscerlo per contrastarlo; a quattro mani con Antonio La Spina, ordinario di Sociologia alla Luiss di Roma, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, 2009). Ha scritto le sillogi di poesie I soliloqui del passista (Zona, 2009), dedicata alla storia del ciclismo dai pionieri ai nostri giorni, e Il bacio delle formiche (LietoColle, 2015), e i pamphlet umoristici Siculospremuta (D. Flaccovio, 2011) e Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, 2013). Più recentemente D’amore in Sicilia (D. Flaccovio, 2015), una raccolta di storie d’amore di siciliani noti e, da ultimo, Miseria e nobiltà in Sicilia (Navarra, 2019). Collabora col Giornale di Sicilia, col quotidiano on-line BlogSicilia e con vari periodici culturali.

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