di Roberto Settembre
Il tema proposto dovrebbe, a parere di chi scrive, essere affrontato partendo da un esperimento mentale, per ricavarne i necessari e logici corollari concettuali quali strumenti ermeneutici dei fatti che ci (pre)occupano. Il che, tra l’altro, attiene in modo intimo alla relazione tra i fatti e le idee, dove per fatti se ne intende la rappresentazione nella percezione collettiva e individuale, non identiche, e per idee il terreno concettuale su cui coltivare l’interpretazione. E viene usato il verbo coltivare essendo l’interpretazione un’operazione che dà frutti, trasformando la percezione fenomenologica in qualcos’altro, cioè in uno spazio della mente dove operano in sinergia la conoscenza e la coscienza, e cosi contribuendo alla nascita del giudizio.
Dunque, tornando all’esperienza mentale si pensi a una famiglia felice, che, come diceva Tolstoj, è uguale a tutte le altre famiglie felici, dove vive l’armonia tra i coniugi, la fiducia reciproca, l’appagamento dei sensi, la ricchezza degli scambi intellettuali, il soddisfacimento dei bisogni materiali, la serenità e la gioia tra i figli e coi figli, dove l’amore e il rispetto reciproci consentono una luminosa e stimolante quotidianità e, insieme con un apprezzabile benessere economico, nella ricchezza delle relazioni amicali e parentali anche sul piano culturale, dove ciascun componente da solo e con il contributo di tutti progetta il futuro. Il che permette stabilità emotiva, forza nell’affrontare le inevitabili difficoltà e l’idea che questo tessuto esistenziale sia l’unica modalità condivisibile per affrontare la vita. E si pensi che tutto ciò sia stato il frutto di immani fatiche, dolori e sacrifici.
Ma, a un tratto, tutto questo tracolla nel disastro e tutto scompare senza possibilità o speranza di alcun ritorno al prima. Allora il lutto che cala sulla coscienza dei superstiti si colora di una tremenda nostalgia del tempo perduto e il domani permea il presente con un senso di orrore e di sconfitta, per cui diventa necessario progettare un presente e un futuro completamente diversi. Ma diversi come? E perché?
Ecco allora che il nostro esperimento mentale viene traslato sull’attuale situazione geopolitica che vede il diritto e la realtà, su cui il diritto deve operare, soggetti a una divaricazione inconciliabile, che tuttavia discende dall’apparente aporia tra il diritto e la giustizia. Tuttavia questa difficoltà logica, derivante da un’apparente uguale validità di due ragionamenti che portano a conclusioni contrarie e insolubili, tali per cui l’esigenza di un diritto che sia legge, cioè strumento a cui ricorrere “ne cives ad arma ruant” come dicevano i giuristi romani, (e sul piano internazionale, “ne patriae aut imperia ad arma ruant”) si scontra con l’anelito alla giustizia, che attiene agli spazi della coscienza quando proietta nel mondo il bisogno morale di combattere il dolore e la sofferenza degli innocenti, restaurando il diritto violato o restituendo alle vittime la dignità attraverso il riconoscimento del loro stato, ma mostrando i limiti spesso invalicabili della portata di questo e la sua contraddizione con la forza di quella, facendo dire a chi è mosso da una lettura manichea della realtà, che il diritto internazionale, ad esempio, o la giustizia stessa, non esistono. Salvo affermare che, a causa della loro inesistenza, la loro violazione ne costituisce un crimine. E ciò senza darsi pena di spiegare sulla scorta di quale principio una condotta priva di alcun ancoraggio concreto al diritto che la renda lecita o illecita, possa definirsi illecita quando viola qualcosa che non esiste.
Detto questo, non ci si può esimere dalla consapevolezza che sia il concetto del diritto=legge, sia quello di giustizia=morale discendano, ciascuno, dalla loro matrice ideale, per l’uno quella della società dei consociati soggetti alle regole, per l’altra, quella dell’istinto di sopravvivenza nella terra dell’homo homini lupus, che cerca la sua spiegazione in un mito.
E ancora, non si può omettere di prendere in considerazione chi e per quali fini abbia dettato le regole, dove i fini sono plurimi e in buona parte occulti, mentre il mito ha un fondamento razionale e uno irrazionale, così interconnessi da perdere i loro connotati identificativi, tanto quanto la stessa famiglia felice, come ben spiegato dalla psicanalisi, copre con il manto della felicità aspetti relazionali ben lontani dal significato ampio e profondo della felicità.
Ne consegue che la nostra famiglia felice, quella dell’Occidente liberal solidaristico o socialdemocratico eretta nel contemperamento dei diritti e dei doveri, ora sembra correre il pericolo del suo dissolvimento verso un futuro estraneo alle sue premesse. Ciò sebbene questa famiglia felice, o che auspicava di esserlo, avesse nel suo sottoscala gli scheletri di chi era dovuto soccombere sotto la violenta azione con la quale la detta famiglia andava costruendo il suo universo, reso tale dal fluido dei diritti universali che le scorreva nelle vene. E certamente per molti attenti esegeti e aspri critici questo fluido non era reale bensì magico, alimentato da un mito irrazionale travestito da razionalità, talché, oggi, il dissolvimento dell’Occidente felice non sarebbe altro che la caduta del velo della sua ipocrisia.
A questo punto non si ritiene sia il caso di avventurarsi in una polemica tra verità e contro verità, o nel terreno trionfante della post verità, con le quali mostrare l’autentica rappresentazione dei fatti a colpi di interpretazioni. Anzi, è necessario avvertire il lettore che per uccisione della verità non s’intende partire dalla premessa che la verità, vittima di chi la vuole distruggere, sia la verità ultima come quella delle fedi monoteiste, conosciuta dal censore dei delitti altrui, ma sostenere che la verità di cui di discute sia il principio condiviso che ha consentito a centinaia di milioni di esseri umani di vivere per quasi ottant’anni senza scannarsi reciprocamente, come accadde regolarmente per secoli in Europa a ogni volgere di ogni generazione, e senza che ciò accadesse attraverso un processo socio politico analogo a quello della pax augustea. E questo assunto, tuttavia, non si nasconde all’obiezione sollevata da molti, che questa pace non lo sia né di fatto né di diritto, ma sia invece la narrazione (cioè l’interpretazione) voluta dai suoi mistificatori per perseguire i loro biechi interessi attraverso un continuum di pratiche di violenza e sopraffazione sui diritti dei deboli.
Viceversa l’argomentazione qui svolta prende le mosse dall’assunto per cui ci sono fatti che, incontrovertibilmente, sono fatti e sfuggono alle interpretazioni. Su questo punto si impone una premessa ineludibile, cioè tra la successione temporale dei fatti e il loro rapporto in termini di causa ed effetto.
Si tratta dei fatti che mettono in relazione la vita con la morte violenta, e i fatti che mettono in relazione la morte violenta con la vita. Confondere i due piani è operazione non solo pericolosa, ma fonte di grave mistificazione della realtà, poiché, se la vita è spesso causa della morte violenta, questa morte non è di per sé causa della vita, sebbene la preceda in termini temporali.
Allora, se le azioni dei vivi sono spesso causa di morte, e tali azioni sono suscettibili di interpretazioni, così come il negazionismo, il revisionismo storico, i processi per i crimini di guerra hanno ampiamente dimostrato, dove gli orrori perpetrati attraverso le azioni umane sono stati ricostruiti, rievocati, discussi, messi in forse, negando o affermandone i nessi causali, nessuna di queste operazioni ha potuto mettere in forse il fatto della morte violenta di milioni di esseri umani. Ne consegue che questo fatto, di per sé, non è suscettibile di interpretazione, poiché i morti sono morti ammazzati, punto e basta. E i cento milioni di morti che si sono succeduti nel corso del quarantennio che va dal 1914 al 1945 sono un fatto immane che esige spiegazioni e interpretazioni nella sua eziologia, ma permane comunque come qualcosa che non può essere negato, così come non può essere negata la successione temporale tra il tempo dei conflitti intra ed extraeuropei, la morte violenta di milioni di esseri umani, e il tempo successivo alla fine dei conflitti.
Ed è in questo tempo successivo che nasce la nostra famiglia felice, ma prima di prenderla in esame è necessario mettere in relazione due circostanze, e cioè la struttura ideale o molto più spesso ideologica del mondo nel quale si sono verificate le decine di milioni di morti violente, e il fatto che, al termine della mattanza, le persone si sono interrogate, al di là della ricerca delle responsabilità individuali o collettive delle tragedie, su un fatto non suscettibile di interpretazioni: le immani distese di cadaveri erano un fatto che non sarebbe dovuto ripetersi, e ciò al di là di ogni interpretazione causale. Ma non solo, se le cause andavano ricercate nel nesso causale tra le idee e i fatti, evidentemente quel nesso causale andava interrotto per scongiurare che si ripetesse, per cui era necessario elaborare nuove idee. E queste nuove idee non sarebbero state elaborate in termini di nesso causale con i cento milioni di morti accatastati nella memoria collettiva, ma come ineludibile successione temporale, per cui il mantra del “mai più” doveva diventare un punto fermo del pensiero umano.
Per farlo, tuttavia, era necessario partire dalla constatazione che non ci fosse (sia) un modo di arginare Polemos (la guerra) attraverso le regole, così come si era illusa la Società delle Nazioni istituita il 10 gennaio 1920 (26 mesi dopo la strage della I guerra mondiale) attraverso i suoi principi, il Protocollo di Ginevra del 1925 sul divieto dei gas e delle armi batteriologiche, il patto Briand Kellogg del 1928 contro ogni guerra di aggressione, e la Convenzione di Ginevra del 1929 sulle regole del combattimento e del trattamento dei prigionieri di guerra.
Infatti la Prima guerra mondiale, e soprattutto la Seconda, avevano dimostrato in che cosa consistesse la guerra moderna, cioè guerra di annientamento senza tregua e senza condizioni. E si noti come i rapporti tra i belligeranti fossero caratterizzati dalla assoluta richiesta di resa senza condizioni. Era così necessario inventare ed edificare qualcosa che potesse sia inibire sia fermare la forza distruttiva scatenata dalla guerra, invece di regolarne il funzionamento, poiché sia la costruzione dello “ius ad bellum” (cioè il diritto di fare o non fare la guerra), sia dello “ius in bello” (cioè il diritto che disciplina il modo di fare la guerra), avevano dimostrato di non funzionare.
In verità si trattava di rovesciare una tesi presente nella cultura illuministica sull’umanità naturalmente buona, sul mito del buon selvaggio, sull’idea che l’uomo primitivo fosse istintivamente pacifico, sull’idea che la civiltà umana si evolvesse da una mitica età dell’oro attraverso stadi successivi rigorosamente deterministici, così come sostenuto da numerosi autori ottocenteschi, tali da influenzare lo stesso Karl Marx, concetto ideologizzato da Rousseau e rielaborato successivamente ancora nei tempi successivi fino alla Seconda guerra mondiale, come scrisse l’antropologa statunitense Margaret Mead nel 1940 affermando che la guerra fosse un’invenzione, mentre la pace era una manifestazione di un istinto naturale corrotto dalle ideologie e dall’interesse (G. Sadum Bordoni, Guerra e natura umana, il Mulino 2025:187).
Allora quell’assunto va capovolto, così come le ultime ricerche sulla filogenesi della guerra di tutti i primati, umani compresi, hanno dimostrato (ivi: 210) poiché né esiste un unico istinto della pace, né esiste un unico istinto della guerra. Infatti tutta la Storia umana, fin dalle recenti scoperte archeologiche del paleolitico, per giungere all’esame delle 16 grandi crisi nelle relazioni internazionali a partire dal XV secolo fino ad oggi, sfociate in 4 accordi e 12 guerre (Graham Allison, Destinati alla guerra, Fazi, 2018), sono state caratterizzate da cicli alternati, e determinati da un misto di istinti naturali di cooperazione, altruismo, eliminazione e/o riduzione delle forze distruttive all’interno e all’esterno delle comunità, e istinti di aggressività, paura, rapacità determinati dalle modalità di presenza degli esseri umani sul territorio, una volta trasformati in cacciatori raccoglitori, e successivamente evoluti in civiltà via via più sofisticate, che hanno fronteggiato in modi diversi, ma approdando molto più spesso alla guerra, le più articolate problematiche relazionali, dalla trappola di Tucidide (muovo guerra perché convinto che la potenza del mio avversario lo indurrà a scatenarla contro di me) al mero desiderio di rapina (le nostre ingloriose e criminali guerre ed entrate in guerra del fascismo, alla faccia delle memorie sull’onore e la gloria celebrate dai riti di memoria delle nostre “bandiere di guerra”) o di sopraffazione strategica.
Ebbene, è alla luce di questa complessità che possono venir comprese le istituzioni del secondo dopoguerra, erette proprio per impedire che gli istinti distruttivi prevalessero, coltivando l’idea che, attraverso le istituzioni, fosse possibile trasformare le parti, che si fronteggiano o combattendo o trattando, ma mantenendo ferme le distinzioni identitarie tipiche del rapporto bellico, in membri di un’unica comunità. Talché, così facendo, si sarebbero costituite società intere, il cui funzionamento sarebbe stato determinato dalle regole condivise di tali istituzioni, dove l’evoluzione naturale avrebbe spinto i loro membri verso l’elaborazione di una morale in contrasto con l’istinto belluino. Un’idea filosofica della democrazia condivisa, intesa come «il regime politico più naturale, poiché le guerre sono antidemocratiche, in quanto ostacolano la composizione armoniosa delle potenze…. (contro) una cultura dell’odio e della vendetta, della paura e dell’arroganza che si erge tra noi e la pace, che è invece il trionfo della gioia contro le passioni tristi» (Frederic Gros, Perché la guerra? ed. Nottetempo, 2023: 134-135).
Ma le decine di milioni di morti ammazzati sono un oggetto materiale e mentale assai ingombrante e tremendamente traumatico, per cui, quando i fatti più traumatici occupano la mente degli individui e delle collettività che vi sono stati coinvolti a vari titoli, deve intervenire la parte razionale a decodificarne il significato per evitare che la parte irrazionale della mente prenda il sopravvento sulla coscienza. Ebbene, per fare ciò è necessario separare il fatto dalle sue cause, poiché alcuni fatti si sottraggono di per sé al giudizio, cioè alla ricerca del significato, che attiene alle ragioni del detto coinvolgimento.
Anzi, accade che il fatto sia tale da travolgere la coscienza. Si pensi a quante decine o centinaia di milioni di persone furono coinvolte in modo passivo, attivo o in veste di meri inerti spettatori nelle mostruosità degli stermini perpetrati a vario titolo nei sei anni di guerra, partendo dagli orrori dell’invasione giapponese in Cina, passando per la Shoà, i bombardamenti sulle città tedesche che sconvolsero Edgar Morin testimone attivo (Ancora un momento, Feltrinelli, 2024) per giungere a Hiroshima e Nagasaki.
Allora si spiegano le parole di Adorno nel 1949, per cui “dopo Auschwitz scrivere una poesia è un atto di barbarie”. In verità questo aforisma ha una valenza ambigua, poiché la poesia, nella sua opera di trasfigurazione del reale dalla sua apparenza materiale in significato, ne sublima la cogenza trasformandola in una categoria universale, la bellezza, per dirla con Kant, e consentire alla coscienza di dominare l’orrore. Quando ci riesce, cioè quando il significato è gestibile, poiché il significato è il frutto dell’elaborazione concettuale dell’osservazione, e prescinde dal giudizio sommario, promosso dalla mera ricezione dell’informazione. Questo infatti nasce dall’impulso all’azione mosso dalla percezione, per cui non è nemmeno un vero giudizio, ma è un’estensione del pensiero finalizzata a programmare l’azione, o a giustificarla o a collocarla all’interno di uno schema comportamentale.
Viceversa il significato prescinde dall’azione, perché attiene al giudizio, che viene formato dall’esame dell’oggetto della percezione, dopo di che entra nello spazio della coscienza.
Allora il rischio che corre il giudizio è quello di utilizzare, per effettuare l’esame, i pregiudizi che sono il frutto di idee nate al di fuori del giudizio. Ne consegue che l’esame dei fatti, cioè del mondo fenomenologico, deve avvenire utilizzando i risultati dell’osservazione empirica e il giudizio che la scienza, intesa nel suo senso più ampio, comprensiva dell’indagine storiografica, dell’antropologia, della sociologia, della psicologia, della politica, dell’economia e di tutti i sistemi epistemici di conoscenza della realtà, pur non nascondendosi il pericolo che anche la scienza sia affetta da pregiudizi, riesca a formulare.
Ne consegue la necessità di esaminare la questione su due differenti piani concettuali: l’uno su quale sia stata la percezione collettiva degli eventi post- guerra mondiale, e su quale strato della memoria tale percezione abbia operato, e l’altro sul duplice effetto di tali percezioni, poiché la stratificazione della memoria agisce su diversi piani cognitivi alimentati dal fenomeno dell’edificazione dell’impalcata che permette sia l’elaborazione della memoria, sia del terreno cognitivo concimato da questa, dal quale germoglieranno nuove idee.
E sono queste nuove idee a indurre i soggetti, a seconda dello spessore delle rispettive capacità cognitive e della quantità di informazioni raccolte, a elaborare le risposte. I due aspetti tuttavia non sempre coincidono, come si può ricavare dal tenore dell’esposizione verbale o scritta dei diversi soggetti chiamati a esprimere la loro opinione sui fatti in esame.
Ebbene, queste risposte si sono concretizzate nelle diverse aggregazioni politiche successive al totalitarismo e nel progetto di costruire nuovi tessuti ideali e strumenti idonei a contrastare gli ideali/ideologie che permisero i totalitarismi e spinsero alla guerra e alle carneficine. Infatti l’Onu nacque proprio come mezzo per liberare il mondo dal flagello della guerra, così come affermato nel preambolo della sua Carta.
Ma c’è un fatto curioso da prendere in esame, cioè il rapporto tra la pace e la guerra nella percezione collettiva e individuale, strettamente connesso con il fenomeno in esame, e cioè con la rimozione del significato dell’immane fatto traumatico costituito dai 100 milioni di esseri umani uccisi, 60 milioni dei quali durante i sei anni della Seconda guerra mondiale, e la circostanza che questa rimozione è alla base della nascita della c.d. famiglia felice, con cui si è aperto questo breve lavoro.
Pertanto, essendo la pace equiparata alla stabilità e alla certezza, mentre la guerra è l’equivalente dell’instabilità e dell’incertezza, sebbene in tutta la storia dell’umanità la pace sia sempre stata caratterizzata o dagli equilibri di potenza, attraverso la mutua deterrenza, o dallo strapotere di una potenza egemone (la pax augustea, o quella britannica o quella recente americana, ad esempio), e poiché la pace, nel sentire comune successivo alle due guerre mondiali, è vissuta come un bene e la guerra come un male, ne consegue che conti poco chi è e come ha vinto la partita, perché la partita viene sempre rinviata al termine di un periodo di pace, mentre la pace è il terreno sul quale prospera la nostra famiglia felice.
Tutto ciò è intimamente connesso col mondo delle idee, cioè con la stratificazione ideale in cui viene ridotta la realtà fenomenologica, affinché, partendo da lì, cioè dalle idee, ci si muova per edificare un progetto che sia coerente con le idee frutto di questa stratificazione ideologica, che, nel caso in esame, consiste nella rimozione dell’immane trauma collettivo di cui si è parlato. Quindi si cercherà di dimostrare che è stata la rimozione di quel fatto, cioè un evento di natura ideale, ad aver permesso a quel progetto di attecchire nella coscienza collettiva e consentire la crescita della detta famiglia felice, e non il fatto rimosso.
Il che significa che rimozione e fatto sono due fattori diversi, che operano diversamente nella percezione e nell’attribuzione di significato, poiché la rimozione toglie significato al fatto e lascia spazio per nuovi significati. Allora si cercherà di dimostrare, pur nei limiti fisiologici di questo lavoro, che questa è la ragione per cui quel fatto rimosso non è intervenuto, nella recente coscienza collettiva, a impedire che riemergessero i semi delle mostruosità che causarono quel trauma, mentre altre idee, oggi, frutto di quei semi mai del tutto scomparsi, stanno aggredendo quelle costitutive della detta famiglia felice, incapace di attivare gli antidoti della coscienza contro l’infezione di un virus analogo a quello causa del morbo che uccise la verità e 100 milioni di morti ammazzati.
Questo poiché non è la materialità dei fatti a determinare il mondo delle idee, come gli epigoni delle visioni ideologiche del mondo affermano, assumendo che «bisogna studiare la storia mentre succede invece della storia nel succedersi delle idee, o, per essere precisi della propaganda» (Ingar Solty, Le illusioni liberali non salveranno l’Ucraina, su Jacobin, citato in “Internazionale, 21/27 marzo 2025). Al contrario tale assunto significa affermare che è la propaganda delle proprie idee a sconfessare la propaganda altrui, così come proclamare la verità della propria fede contro la falsità delle fedi avversarie, sul presupposto che la propria verità promana da Dio o dal guru di riferimento. Si pensi al dilemma se siano state le proprietà tribali a essere causa delle guerre, o siano state le guerre a determinare l’origine della proprietà attraverso la rapina e la violenza. Cioè alle idee proclamate nell’ “Antiduring” di Engels, dove viene affermato che la violenza «è il punto di partenza e il fatto fondamentale di tutta la storia svoltasi sin’ora e le inocula la colpa ereditaria dell’ingiustizia…poiché su questo asservimento primitivo poggia del pari tutta la proprietà privata fondata sulla forza (essendo) chiaro che tutti i fenomeni politici si devono spiegare partendo da cause politiche, cioè dalla forza» (F. Engels, Antiduring, ed. Rinascita, 1950: 175 -176), mentre K. Marx, nei quaderni antropologici, afferma il contrario, e cioè che fu la guerra a consentire alle comunità tribali di esistere come proprietarie (Bordoni, cit.: 233). In definitiva dev’essere esaminato il rapporto tra le idee e la storia fautrici della storia, e non il contrario. E proprio da quel fatto materialmente mostruoso costituito dall’immane numero di esseri umani macellati dalla guerra, è necessario passare a esaminare un fatto ideale, motore del tempo successivo a quello.
Invero inquieta e sembra incomprensibile che le moltitudini avessero rimosso tanto orrore, dopo aver assistito indifferenti o compiaciute a eventi come quelli delle donne cinesi violentate e sventrate dalle baionette dei soldati giapponesi, alle migliaia di donne uomini, vecchi e bambini fucilati e gettati nelle fosse comuni dai volontari delle einsatzgruppen naziste, alle torce umane sotto i bombardamenti alleati sulle città tedesche e giapponesi, alle impiccagioni degli ostaggi nelle regioni occupate dai nazifascisti, ai milioni di creature di ogni età e sesso assassinate nella camere a gas dei lager di sterminio, alle decine di migliaia di esseri umani, bambini compresi, inceneriti dal fuoco atomico o morti atrocemente di cancro nei tempi successivi, il tutto preceduto dalle sopraffazioni, dalle uccisioni di innocenti, dai crimini contro l’umanità e il diritto commessi dai totalitarismi, dall’uso dei gas italiani in Etiopia, alle feroci rappresaglie contro i civili, alle leggi razziali nostrane, alle complicità delle nostre truppe inviate a perpetrare massacri contro popoli e Paesi che non ci erano ostili. E ci si domanda come fosse possibile che tale rimozione avvenisse anche nelle menti e nei comportamenti culturali e politici di persone che, in posizioni non marginali, avevano introiettato come valori da difendere e perseguire un’ideologia fatta di superbia intellettuale, di orgoglio razziale, identitario e di classe sociale, tale da lasciare in costoro e nei loro discendenti un forte senso di orgoglio dinastico.
La questione in realtà prende le mosse dal progetto del mondo totalitario, del quale le conquiste territoriali, le stragi e gli omicidi dei singoli erano solo un mezzo, ancorché feroce, crudele e spietato, che la propaganda (si pensi che Goebbels aveva intitolato il Ministero della Propaganda come il Ministero dell’illuminazione) era riuscita a instillare nelle menti e nelle coscienze colonizzate dalla menzogna identitaria, finalizzata a costituire una società ridotta a un unum di dominanti e a una massa di dominati. Questo punto, centrale e focale nella presente riflessione, indica come il concetto di identità sia il principale artefice dell’assassinio della verità.
Si tratta della negazione di una verità logica e razionale, e cioè del fatto che gli esseri umani, sia individualmente, sia nei gruppi che compongono l’umanità intera, sono plurimi e non riconducibili a un unum, per cui, e proprio a partire da questo pluralismo, le idee formano il tessuto del pensiero che spinge all’azione. Si tratta pertanto dell’azione con cui è stata edificata l’impalcatura su cui la società occidentale come la intendiamo oggi avrebbe cercato di costruire sé stessa.
Tuttavia, come si vedrà in appresso, tra i materiali di costruzione si celavano due virus, necessari alla costruzione, ma pericolosi nella loro crescita autonoma, quando la crescita armonica di un organismo composito è viziata da una perdita di omogeneità causata dal prevalere progressivo di un fattore sugli altri. E questo fattore è appunto l’identità, che si trasforma, come si vedrà, in una trappola, sebbene sia stato proprio il riconoscimento della funzione valoriale delle identità, ad apportare significato alla funzione creatrice dell’Occidente democratico, attraverso il rapporto fra l’equità e l’uguaglianza.
Tanto premesso, devono prendersi in considerazione due fattori complementari che debbono venir enucleati da quell’importantissimo frammento della storia del Novecento europeo che va dal 1939 al 1945, e, per l’Italia, soprattutto dal 25 luglio 43 al 25 aprile 45, che vide la società totalitaria, artefice della guerra e delle sue nefaste conseguenze sul terreno della civiltà occidentale.
Il primo è la reazione collettiva a tutto ciò, cioè la resistenza morale e armata alla barbarie bellica dei totalitarismi, che, solo in Italia, costò la vita a quasi 47 mila persone, tra uomini e donne, soprattutto giovani, immolatisi combattendo contro i nazifascisti autori di infinite atrocità anche contro i civili, fra i 25 mila resistenti dell’aprile 1944, saliti a 100 mila in quell’estate, ridotti nell’inverno 44/45, ancorché sostenuti da un consistente nucleo di civili, e saliti a 250 o 340 mila negli ultimissimi giorni di guerra. Persone che costituirono il tessuto fisico e morale dal quale germogliò la Costituzione repubblicana; ma il fatto che la Resistenza non coinvolse la maggioranza dei quasi 50 milioni di italiani cresciuti e vissuti sotto il regime fascista, rende del tutto opinabile che sia stato quel tessuto a determinare il completo capovolgimento ideale dei milioni di italiani chiamati a eleggere l’Assemblea Costituente il 2 giugno 1946. Capovolgimento indotto dalla rimozione del passato nella coscienza dei milioni di persone che in quel passato avevano alimentato la loro identità.
Eppure quella rimozione fu non solo possibile, ma di tale portata da causare un vero e proprio balzo su un diverso e antitetico terreno ideale, sebbene in molti la superbia, l’indifferenza e l’egoismo, o la pulsione alla trasformazione dei rapporti di potere in modo irreversibile e contrario al mondo liberal democratico non fossero scomparsi mai del tutto, pronti a riemergere in forme varie e subdole, e in molti, moltissimi altri, fino a diventare maggioranze elettorali in Stati europei come l’Ungheria e l’Italia, e oggi in USA.
Sul punto deve rilevarsi che la rimozione opera su due piani. Uno scollegando il coinvolgimento individuale dalle colpe, per cui la rimozione del fatto lava la coscienza lasciando intatte le strutture cognitive identitarie che avevano permesso quel coinvolgimento. Il secondo piano è collettivo, dove le colpe della maggioranza plaudente ai regimi non furono giuridicamente rilevanti, bensì solo subdole nella struttura morale. Eppure politicamente rilevarono moltissimo, in modo tale che l’esserne lavate permise una sorta di riacquisto dell’innocenza che avrebbe permesso di accogliere i nuovi valori, o più probabilmente le conseguenze politiche del trionfo nominale dei nuovi valori.
Rileva, a questo punto, un fattore determinante che avrebbe permesso il lavaggio delle coscienze, possibile su un presupposto ulteriore, e cioè che la morte di 100 o 60 milioni di esseri umani fosse percepito come un fatto “impolitico”, colto come 100 o 60 milioni di morti individuali. Ciò significa che, se ogni morte violenta sfugge all’interpretazione, e se non coglie la sua natura annichilente della razionalità, così come oggi appare evidente a chi studia la storia di quel tempo, allora la sua negazione, cioè la negazione della violenza connessa con queste morti, conduce alla rimozione delle sue cause (Così Hanna Arendt, Sulla violenza, ed. Guanda 1996). Ma ancora non si è detto attraverso quale meccanismo opera la rimozione.
Comunque questo testimonia una seconda manifestazione dell’uccisione della verità, ottenebrata da quella rimozione. Il che, altresì, ebbe, come si dirà, un’ulteriore conseguenza. Infatti, a un certo momento nel corso successivo della Storia, quando gli eventi degli ultimi decenni hanno reso incerti i valori capaci di fondare non la loro proclamazione, già avvenuta a suo tempo, ma il loro effetto materiale, essendo ancora una volta le idee a determinare i fatti e non il contrario, le moltitudini hanno abbracciato nuove idee, antitetiche a quei valori adesso ritenuti un ostacolo al progetto dei nuovi alfieri del mondo, i vari Orban, Trump, Erdogan e i ducetti di casa nostra, indifferenti e ostili ai valori sorti alla fine della guerra mondiale in antitesi all’orrore rimosso.
Sul perché si è detto. Sul come una simile rimozione capitale dopo gli orrori fosse possibile nelle coscienze collettive, si ritiene trovi una spiegazione plausibile nella seguente riflessione, essendo altrimenti non solo quasi inspiegabile, ma contrario a ogni logica pensare che la presenza di immani distese di cadaveri trucidati non inducesse la memoria delle moltitudini non solo a interrogarsi sulle proprie responsabilità, ma lasciasse tracce così ingombranti nelle coscienze e nel pensiero delle generazioni immediatamente successive, tali da impedire ai semi di quelle scelleratezze di germogliare nuovamente.
Si ritiene pertanto che «il mondo moderno, demitizzato e secolarizzato, (abbia) apparentemente smesso di credere nell’età dell’oro, ma (abbia) preso a credere nel mito del buon selvaggio, (abbia) smesso di credere nella fine del mondo, ma (abbia) preso a credere nella fine della storia, nella società senza classi, nell’armonia degli interessi regolati dalla semplice legge dell’economia (Cfr. A. Roncaglia, Il mito della mano invisibile, Laterza 2005), nella diffusione di pacifiche democrazie» (Bordoni, cit.: 154) Ne consegue che in tutte le culture umane vi sono tracce sia dei miti sia dei riti che vi si sono accompagnati, atteso che «ogni tradizione che vive nei volghi dei popoli civili (può venir) ricondotta a un rito, il rito a una credenza, la credenza a un sistema di idee. E il folclore par quasi che assuma il corso di un fiume che nessuna civiltà può arginare, perché in fondo anch’esso è un aspetto di quella civiltà» (G. Cocchiara, Prefazione a Il Ramo d’oro di G. Frazer, Boringhieri, 1981: XXIII,).
Si tratta cioè dei riti come azioni simboliche, la cui «percezione, intesa come riconoscimento, percepisce ciò che dura [poiché] i riti si lasciano definire nei termini di tecniche simboliche di accasamento: essi trasformano “l’essere-nel mondo” (nell’accezione heideggeriana) “in un essere-a casa”. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il tempo, lo aggiustano… per cui gli uomini, malgrado la loro natura mutevole, possono ritrovare il loro sé… cioè la loro identità» (Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti, ed. Nottetempo 2021: 12-13). Ma non solo, poiché «nelle azioni rituali rientrano anche i sentimenti» non tanto per l’individuo isolato, ma come «sentimento oggettivo, collettivo, impersonale» (ivi: 23). Allora «una svolta rituale contrassegnata dalla preminenza delle forme… ribalterebbe il rapporto tra Interno ed Esterno, tra spirito e corpo… per cui il medium produce il messaggio…. E le forme esteriori sortiscono effetti mentali» (ivi: 35).
Tanto premesso, rilevato «che la morte presuppone che la vita stessa abbia una conclusione» senza la quale «si giunge a un’addizione e a un accumulo di infiniti dell’Eguale» per cui la vita stessa finirebbe nel momento inaspettato e meno opportuno, «i riti di chiusura stabilizzano il luogo, producono una mappatura cognitiva» ( ivi: 43- 44). Si tratta cioè dei «riti di iniziazione e (dei) sacrifici rituali (che) sono atti simbolici che regolano numerose transizioni tra la vita e la morte, (dove) l’iniziazione è una seconda nascita che segue alla morte» (ivi: 72).
Detto questo, un elemento ineludibile della storia umana è costituito dalla necessità «di far piazza pulita di tutti i mali che hanno infestato un popolo» (G. Frazer, cit. I capri espiatori pubblici: 886). Ma non si sorrida di questa citazione, poiché “«il 95 % dei Sapiens sulla Terra è segnata da un’endemica violenza inter e intraspecifica … i sacrifici rituali, animali e non umani, in tutte le culture sembrano formare il centro nevralgico della vita collettiva» (Bordoni, cit.: 273).
Allora, nel tentativo di comprendere non solo come sia stato possibile, nell’arco di un tempo circoscritto in pochissimi anni (le Costituzioni liberali europee italiane e tedesche sono del 1948 e 1949) passare da un mondo ideologico che aveva condotto le moltitudini dall’ inneggiare alla guerra (non si contano le lettere manoscritte in tutte le classi sociali dove si esprime il plauso verso l’ideologia di conquista) al suo totale ripudio, ma anche all’interiorizzazione di tale ripudio come valore condiviso, si ritiene che non poté essere sufficiente l’orrore innescato dall’orrore, perché quel primo orrore venne consentito dai milioni di persone che non lo considerarono affatto un orrore, bensì un valore da perseguire.
Era così necessario che intervenisse un fatto diverso, tale da penetrare nella coscienza collettiva e lavarla, e permetterle così di diventare permeabile a nuove idee, sgorgate come rito di iniziazione, mentre le migliaia di vittime che avevano combattuto ed erano cadute contro quel “rimosso” e i combattenti sopravvissuti subivano una sorta di progressivo isolamento sociale rischiarato dalle celebrazioni rituali, assenti nei libri scolastici del tutto omissivi e sempre più spesso contestate anche sul terreno della cultura.
Ebbene, tanto premesso, è opinione di chi scrive che furono i processi di Norimberga e di Tokio, le pubbliche esecuzioni capitali dei responsabili principali di quegli orrori, veri e propri capri espiatori, ancorché colpevoli, e fatti come l’esibizione dei corpi a piazzale Loreto, le epurazioni dei personaggi più pubblicamente coinvolti nei grandi crimini e nel sistema politico che li aveva permessi, come riti di chiusura dove le forme che li accompagnavano determinarono una trasformazione degli spazi cognitivi, costruendo un mondo nuovo, dove conta poco chi è e come ha vinto la partita.
Alla fine, lavate le coscienze collettive (nuova nascita), si procedette ad accogliere idee opposte e diverse, queste sì, elaborate da menti illuminate e visionarie, che non avevano affatto operato tale rimozione, ma che all’opposto, fin dai primordi del sistema totalitario trionfante, avevano sviluppato gli anticorpi cognitivi per gettare il seme del mondo nuovo. Alcuni di loro non erano sopravvissuti all’orrore, ma avevano lasciato il loro pensiero, come Hetty Hillesum, scrittrice olandese uccisa dai nazisti nel 1943, Simone Weil, morta nel 1943, la filosofa Edith Stein, uccisa dai nazisti nel 1942, lo storico Marc Bloch, fucilato dai nazisti nel 1942, o Carlo Rosselli, assassinato nel 1937 dai sicari di Mussolini, Rosselli che nel 1935 aveva prospettato una Costituente europea «composta da delegati eletti dai popoli che in assoluta parità di diritti e doveri elabor(asse) la prima Costituzione Federale Europea, nomin(asse) il primo Governo Europeo, fiss(asse) i principi fondamentali della convivenza europea, organizzasse una forza al servizio del nuovo diritto europeo e d(esse) vita agli Stati Uniti d’Europa» ( Cfr. Lucio Levi, Il Manifesto di Ventotene, Mondadori 2025: 178). Ma furono molti, i pensatori antesignani della rinascita della civiltà europea come gli economisti Joseph Schumpeter e Karl Polany, i filosofi Jaques Maritain e Karl Popper, solo per citarne alcuni.
Ma queste idee nuove hanno molte radici nel pensiero attraversato dalle categorie del giudizio, su cui è utile spendere alcune parole, con le quali si spera di contrastare un altro attentato alla verità perseguito da chi propugna il pensiero unico, strumento principe di chi contesta e combatte la democrazia, e che oggi sembra sulla strada di vincere la partita.
Si vuol dire che così come la vita di relazione degli umani non è dominata da un caos bellicoso nel quale ogni soggetto impugna la sua visione del mondo come frutto degli impulsi contingenti trasformandola in una categoria del giudizio finalizzato a espugnare quello altrui, ma, almeno in parte, utilizza categorie coniate dalle persone che l’hanno preceduto, allo stesso modo le categorie del giudizio necessarie, in primis alla conoscenza del mondo e, in secondo luogo a costituire le basi cognitive dell’azione, discendono da una successione intergenerazionale di categorie che hanno operato negli spazi cognitivi delle generazioni che si sono succedute.
Tuttavia le modificazioni della realtà oggettiva in cui si sono evolute le famiglie umane nel loro concreto divenire sociale, culturale, economico, politico, hanno agito da catalizzatori del cambiamento dal quale sono sgorgate le categorie di giudizio, diverse e talvolta incompatibili con le precedenti, ma non per questo capaci di trasformare le relazioni umane in un caos belligerante. Caos immaginario, spesso usato come pretesto dagli alfieri del c.d pensiero unico.
Per queste ragioni è significativo evidenziare come il mondo progettato dal Manifesto di Ventotene, composto da Altiero Spinelli, con il contributo di Ernesto Rossi e l’apporto concettuale di Eugenio Colorni nell’esilio del confino nell’isola di Ventotene nel 1941, durante la guerra di conquista dei Paesi nazifascisti Germania e Italia, è, insieme con il Costituzionalismo, un mondo edificabile sul presupposto di alcune verità di base, come i diritti fondamentali richiamati nell’art. 2 della nostra Costituzione, che trovano la loro giustificazione nel lungo percorso ideale che prende le mosse, quanto meno, dall’Illuminismo. E si tratta di un percorso ideale e non ideologico, poiché è attraversato da un ampio e articolato dibattito, spesso conflittuale, sia di tipo giuridico (si pensi alla Costituzione americana e agli 85 testi che compongono i Federalist Papers, l’amplissimo primo commento di quella Costituzione del 1787), sia filosofico, sia letterario. Si pensi solo al XVIII secolo col Candide di Voltaire o al Tristram Shandy di Stern, o nel ‘900 a libri straordinari come Vita e Destino di Vassily Grossman, e, per quanto ci riguarda, ma solo a titolo di esempio del tutto insufficiente, al Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino o a La cognizione del dolore di Gadda, o Il giardino dei Finzi Contini di Bassani o Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio.
Non si stupisca il lettore di questo accostamento, poiché la funzione della letteratura, lungi dall’essere mero veicolo di bellezza estetica fine a sé stessa, quando non mistifica il pensiero, pur non svolgendo la funzione informativa sulla realtà, compito della saggistica che la interpreta, svolge un’altra operazione. La letteratura infatti crea una realtà analoga a quella concreta, e lo fa raccontando fatti veri o inventati, e lo fa attraverso la mente dei suoi personaggi o dell’io narrante, affidandosi al lettore affinché usi della sua buona fede per decodificarla. Ma certo non si occupa di decodificare i fatti, né trasmette un’interpretazione. Viceversa mette il lettore non nella posizione di testimone del pensiero, ma in quella di creatore del pensiero, e gli chiede di attraversare, usando il proprio pensiero indotto dalla rappresentazione di un pensiero altrui, quello dei personaggi appunto, quella realtà creata per mezzo del pensiero raccontato nel testo. E quando questo accade, nel lettore avviene un’epifania, che trasforma la conoscenza in comprensione.
Dunque il percorso ideale che condusse alla sorgente del mondo nuovo sgorgata sulle macerie rimosse della grande tragedia collettiva, aveva il compito di indagare la realtà in modo onnicomprensivo, offrendo all’intelligenza umana una risposta condivisibile sul piano della logica razionale e della morale.
Si vedrà poi come tutto ciò, oggi, si stia avviando allo sgretolamento, ma per ora, e siamo agli albori della nuova civiltà, nasce il Costituzionalismo che fonda i suoi valori. Argomento sul quale è opportuno spendere alcune parole, poiché il Costituzionalismo, come movimento culturale sull’elaborazione del diritto è alternativo alla riflessione dottrinaria e istituzionale della codificazione del diritto civile, privatistico, fin dall’epoca dei giureconsulti romani, così sviluppando i concetti dei diritti soggettivi di tipo privatistico, dalla proprietà al commercio, dalle successioni alle obbligazioni, dalla famiglia alla tutela dei diritti “intra cives”.
Ebbene, il Costituzionalismo è molto più recente e procede sul terreno del rapporto tra la persona e/o il cittadino e lo Stato, trasferendo nei concetti privatistici come sopra intesi, concetti di natura filosofica come la libertà e l’uguaglianza, ma in una visione dello Stato intessuto della necessità di rigenerare la relazione tra diritti e doveri nei rapporti reciproci delle persone, e tra i diritti e i doveri del soggetto pubblico con la persona/cittadino. E ciò in modo nuovo sia rispetto al mondo liberale ottocentesco, sia diametralmente opposto a quello totalitario.
Si intende perciò il mondo nuovo, ante visto da persone come Altiero Spinelli o Carlo Rosselli, che all’improvviso si affaccia offrendo all’attenzione dei popoli un’autentica invenzione ideale, mentre afferma l’esistenza di una cosa che aveva avuto il suo antesignano nelle Costituzioni liberali Americana del 1787 e Francese del 1793, cioè il mosaico giuridico dei diritti fondamentali, non coincidenti sul piano ontologico coi diritti naturali, differenza sostanziale di cui verrà intimamente pervaso il Costituzionalismo novecentesco, così come vennero proclamati il 10 dicembre 1948 a Parigi dall’Assemblea Generale delle N.U. accompagnati da due scritti di Simone Weil.
Si tratta dunque di un binario, cioè del sentiero sul quale si avvierà il pensiero occidentale, dove i principi della libertà e dell’uguaglianza, calpestati dallo stivale chiodato dei totalitarismi insieme con la vita fisica e spirituale degli esseri umani discriminati, vessati e spesso sterminati per la loro estraneità, asserita come irriducibile e pericolosa ostilità al popolo massificato e inquadrato sotto i vessilli del potere costituito, acquisteranno nuova vita.
Ma questa operazione, che squarciò le tenebre e venne accolta con entusiasmo, in quanto veicolo di liberazione dalle catene materiali e spirituali, e diffidenza per le problematiche che comportava, non fu affatto semplice, e richiese l’intervento e lo sforzo delle menti più illuminate del tempo.
Ora, quando si parla di menti illuminate, si intendono le persone che avevano attraversato la tempesta e le tenebre senza cedere alle sirene del potere. E, se si vuol porre l’attenzione all’Assemblea Costituente nominata con le elezioni del 1946 in Italia (le prime a suffragio universale nella parità fra uomini e donne), si vede che si tratta di persone quasi tutte nate o nel XIX secolo o nei primi anni del XX, che stavano raggiungendo o avevano oltrepassato la mezza età (una media tra i 40 e i 76 anni) e di alcuni, pochi, giovani, che dal pensiero di queste e dalle esperienze traumatizzanti della guerra e della Resistenza, dove viceversa, sì, quei 100 mila giovani avevano lottato infiammati dall’indignazione per la ferocia del nemico e ansiosi di aprire la via di un mondo nuovo, avevano ricavato l’impulso a proseguire il cammino su quel sentiero. Certo non frutto dei miti giovanilistici del futurismo. Il che però non è affatto un’osservazione banale, perché in quel momento storico, per questo motivo, si costruisce un legame intergenerazionale che mostrerà i suoi frutti nel lungo periodo, quando le Costituzioni (in specie la nostra) dovranno affrontare la loro crescita come quella di un albero, ma con la differenza sostanziale che, mentre quella dell’albero è endogena, quella della Costituzione è esogena.
Si tratta cioè dei loro necessari emendamenti, che nella nostra Costituzione si chiama “revisione”, e che non va confusa con l’abbattimento dell’albero e la successiva piantumazione, cioè con la radicalità propria del pensiero giovanile o di quello eversivo (parola che non piace agli eversori di casa nostra, ferocemente ancorati ai loro progetti camuffati attraverso l’assassinio della verità) volto alla cancellazione dell’ordine costituzionale esistente, tipico del “voltar pagina”, nel quale consiste, oggi, il crollo della nostra famiglia felice.
E si tratta soprattutto dell’interpretazione del contenuto costituzionale, aperta alla ricerca di nuovi significati, operazione che per comodità viene indicata in questa sede come “processo larvatamente emendativo”.
Tuttavia questo discorso non è affrontabile in questa sede per ragioni di spazio e perché condurrebbe a indagare non solo in cosa consistette l’edificazione delle nuove istituzioni nazionali (dal SSN al CSM alle figure del decentramento amministrativo solo per fare alcuni esempi) e internazionali (dall’ONU alla UE, dalle varie Corti, come la CGI, la CGUE, la CEDU, la CPI, la FAO…) ma il loro funzionamento e la loro ragion d’essere. Si pensi, a mero titolo di esempio, al perché del sistema bicamerale, e della sua composizione e ai criteri per l’elezione dei suoi membri, alla ragioni per cui la Costituzione ne prevede precise modalità anche quanto al rapporto tra elettori ed eletti, predisposto contro errori e orrori, e alle ragioni superficiali o callide che spingevano al suo smantellamento o al suo svuotamento operativo, al progetto di premierato che, in nome di maggior stabilità, distruggerebbe i check and balances . E tutto ciò attraverso il tradimento del patto intergenerazionale intrinseco all’edificazione del sistema liberale dell’Occidente.
Detto questo, è opportuno vedere meglio in cosa consistano le Costituzioni inventate dal Liberalismo intese come patti intergenerazionali. Si tratta di un progetto del Futuro, per cui si parte dall’istituzione di binari concettuali e normativi per delineare un percorso che, nel prosieguo, affronterà il territorio sconosciuto dell’avvenire attraverso un processo emendativo non arbitrario, e diverso da quello Costituente, perché «la singola parte non può essere alla pari con il tutto» (Alessandro Ferrara, Sovranità intergenerazionale, ed. Società aperta 2024: 30-31 e ss).
Questo perché, se il potere emendativo fosse pari a quello costituente, contraddirebbe la promessa originaria della Costituzione, cioè della reciprocità orizzontale sulla cui base si fonda la promessa originaria di una società giusta e stabile, pur ammettendo una reciprocità verticale tra le generazioni libere e uguali di uno stesso popolo, purché «lo schema di cooperazione fissato rimanga fermo nel tempo» (ivi: 442 e ss).
Purtroppo i populisti eversori dei nostri tempi non la pensano così, per cui, sebbene le Costituzioni appartengano a tutti in successione, possono venir trasformate con tre diverse conseguenze. La prima è che, se le generazioni successive possono farne ciò che vogliono, viene meno la legittimazione originaria scolpita nella Carta. Con la seconda viene cancellata l’unicità politica della Polis che ha inscritto in Costituzione i principi politici fondamentali. Nella terza i successori potranno “legittimamente” decidere di limitare la libertà e i diritti anche delle generazioni future.
Tanto premesso, viceversa, la legittimità iniziale, cioè la sua verità, per non venir uccisa dal progetto eversivo, dev’essere coerente tra tutto l’impianto e i dettagli della Carta da un lato, e una concezione politica della giustizia come libertà ed equità, mentre un cambio di regime cancellerebbe questi presupposti. Viene così smascherata la menzogna degli assassini della verità costituzionale, che raccontano la fola dell’irrilevanza della distruzione di alcuni dettagli, finalizzata a ottenerne un miglioramento funzionale, per cui, senza addentrarsi nelle problematiche della distinzione fra Costituzione materiale e formale, usata artatamente per i fini eversivi, e falsandone la natura, è necessario focalizzare l’attenzione su quale sia la verità della Costituzione oggi in pericolo mortale.
Infatti, dopo la Seconda guerra mondiale i popoli, e nella specie il nostro, avevano assunto su di sé il potere costituente, diventando qualcosa che prima non erano, e che ora rischiano di tornare a essere. Ma per farlo dovevano procedere su due piani. Il primo consisteva nel dare priorità a fini che non potevano essere perseguiti simultaneamente, cioè affrontando il tema di immaginare una società politica prefigurata, in modo non molto dissimile dal contenuto rivoluzionario del discorso della montagna di Gesù di Nazareth nel vangelo secondo Matteo, e si perdoni l’apparente irriverenza, ma che aveva lo scopo di mostrare ai suoi destinatari una strada percorribile nella coscienza e nella condotta di un popolo che fino a quel momento ne aveva percorsa una diversa. Nelle parole di quel Gesù, che avevano una forza costituente, ma nessuna portata, si va dalla difesa dell’adultera contro la pena di morte, alla beatificazione degli ultimi, alla solidarietà con lo straniero spesso nemico, contenuta nella parabola del buon samaritano, a un nuovo concetto di parità tra uomo e donna. Ma con una differenza sostanziale, e cioè che Gesù di Nazareth è un uno che parla ai molti, offrendo loro una visione immaginifica del futuro, (la società prefigurata, appunto), mentre il potere costituente di cui ci si occupa in questa sede, è, nel secondo piano preso in esame, quello di un’azione basata su regole costitutive autoimposte. Per fare questo, allora, il popolo si autorappresenta come portatore di un Ethos con caratteristiche politiche, che non ha ancora ma che attecchiscono sul piano morale delle coscienze collettive lavate e rese innocenti dalla rimozione degli orrori. Cioè attraverso l’impegno autoassunto di condividere gli impegni nascenti da questo impegno, che è l’impegno costituente, che dev’essere ampiamente condiviso dalla popolazione per territorio, lingua e cultura reciproca. Proprio come avvenne attraverso l’elezione dell’Assemblea Costituente italiana il 2 giugno 1946. Così nacque la Costituzione, incorporando i termini della cooperazione costitutiva, che a sua volta trasformerà l’ethos in modo coerente con la Costituzione.
Ma a questo punto diventa necessario un soggetto in grado di rappresentare il contenuto e il significato della Costituzione davanti al popolo attuale e a quello futuro, fornendo a entrambi la ratio di quell’oggetto fondativo del nuovo popolo e della nuova morale. Si tratta della Corte Costituzionale o della Corte Suprema che supera la contingenza delle vicende elettorali. Si pensi in proposito alla nostra Costituzione che prevedendo la non emendabilità della Repubblica come tale e vietando la ricostituzione del partito fascista, affida a questo soggetto il compito, tra gli altri, di salvaguardia della legalità repubblicana.
La Corte Costituzionale allora è il soggetto a cui viene affidato il potere interpretativo della Costituzione. E tale potere nasce da un mandato politico che entra in relazione di causa/effetto con la Democrazia Liberale, cosicché viene esercitato cercando di allineare la produzione legislativa alle applicazioni originarie dei significati incorporati nella norma costituzionale, ma non sui presupposti cognitivi espressi dalle opinioni di chi contesta la portata della Costituzione. Cioè: il potere interpretativo deve valutare ragionevolmente e razionalmente quanto le nuove idee virino verso una riformulazione degli impegni inscritti in Costituzione.
Ne consegue che il rapporto tra Corte Costituzionale e Democrazia verte su quale potere venga riconosciuto dal segmento vivente della popolazione che vuole la nuova interpretazione, su quanto il controllo giurisdizionale verifichi la volontà dell’elettorato, se attraverso la questione sollevata da chi ne ha investito la Corte si riformula il dibattito politico rispetto alla contrattazione o al compromesso. E gli effetti ultimi sono che il giudizio espresso dalla Corte valorizza l’autenticità della Carta, mentre gli eventuali nuovi significati su vecchi standard e principi mostrano la vitalità della Società dei cittadini prefigurata in Costituzione, riunendo il passato al presente e al futuro (Così in Ferrara, cit.) dovendo tenere ben fermo l’assunto che questo potere interpretativo non può in alcun modo trasformare la Costituzione, sebbene gli assassini della verità cerchino di avere buon gioco raccontando il contrario e cercando di modificarne l’assetto, come ben si può notare nell’uso della nomina dei giudici della Corte Suprema da parte del potere presidenziale americano.
Non diversamente, sebbene in modo analogo e speculare, sul piano dei rapporti internazionali sui quali doveva prosperare il mondo occidentale. E infatti un discorso analogo può farsi, nella UE, per quanto attiene alla natura e alla funzione della sua Corte di Giustizia (CGUE) le cui decisioni hanno efficacia di legge negli ordinamenti degli Stati membri, purché non ne violino i principi fondamentali delle loro Costituzioni, che ne riconoscono la validità.
E fu così che venne concepita l’idea della famiglia felice, e fu quell’idea a spingere il presidente francese Mitterand e il presidente della Repubblica federale tedesca Helmut Kohl a tenersi per mano e inginocchiarsi di fronte al monumento ai caduti del conflitto che vide la Francia e la Germania combattere ferocemente l’una contro l’altra. Quell’incontro era silenziosamente indotto dalla condivisione del concetto di violenza distinto dal potere, quando necessita di strumenti che agiscono nel rapporto mezzo/fine, e i due statisti si conciliarono in nome della necessità morale di evitare che il fine rischi di essere sopraffatto dai mezzi, come accadde nelle vicende tragiche dell’Europa. Per lo stesso motivo venne concepita la CEE e poi la UE, e poiché il fine non è mai del tutto prevedibile, per cui i mezzi diventano più importanti del fine, i mezzi della UE divennero “il diritto” elaborato verso un fine solo abbozzato nell’atto fondativo di Roma del 1957, sottoscritto dagli Stati europei, poiché il risultato delle azioni (messe in atto coi mezzi) va spesso al di là delle previsioni, (H. Arendt, Sulla violenza, cit.), così come la violenza del XX secolo, dominata dall’arbitrio, foriero di menzogna, ha portato ad Auschwitz e alla Bomba Atomica.
Infatti la guerra, che era stata il mezzo ultimo per intervenire negli affari internazionali, dopo il 1920, con la Società delle Nazioni, ci si illuse che venisse impedita dal binomio libertà/sovranità assolutamente separate, così che il tempo in cui la sovranità dello Stato Nazione era tale da interferire nella libertà degli altri Stati, a seconda del mezzo utilizzabile, incontrava il limite della sovranità altrui.
Ebbene, questa separazione era stata all’origine dell’illusione liberal democratica, per cui i trattati avevano forza vincolante sul potere sovrano, imponendo il ripudio del principio “non c’è alternativa alla vittoria”. Me nella prima metà del XX secolo erano intervenuti i fatti casuali e gli avvenimenti che avevano infranto le previsioni ideologiche, quelle che si difendevano scartando gli eventi catalogati come casuali, quelli che Lev Trotsky metteva nella “Pattumiera della Storia”. Cioè con un bel trucco necessario a rinforzare la teoria ideologica, per cui la guerra era il sistema fondamentale per piegare a sé i sistemi economici, le filosofie politiche e i corpora juris. Insomma un uso sapiente della menzogna con cui assassinare la verità, cioè il potere del singolo Stato, contro il quale venne inventata la Comunità europea, basata su un principio di civiltà incardinata sul Diritto, sulla Giustizia e sulle Corti. Per quanto inconsapevolmente, i due statisti che si tenevano per mano avevano fatto propria l’idea che la civilizzazione consiste anche nell’introiezione dell’aggressività e del senso di colpa determinato dalla sanzione sociale, sulla quale agisce, purtroppo, l’assassinio della verità da parte dei leader populisti che trasformano la morale, così come seppero fare Hitler, Stalin e Mussolini e i loro epigoni del tempo presente, spingendo gli esseri umani ad abbandonarsi a ogni tipo di crudeltà.
Eppure, ciononostante, nel tessuto costituzionale e in quello delle istituzioni internazionali si annidano i due virus distruttivi sin dalla loro nascita, intrinsecamente connessi con la ragione di quel tessuto. Di uno se ne è già fatto cenno. È l’idea di equità che, come tale, è intrinseca al progetto della moralità costituzionale, magistralmente elaborato dal filosofo statunitense John Rawls nel suo A Theory of Justice, dove Rawls specifica i tratti fondamentali di una interpretazione della giustizia sociale su due principi fondamentali.
Il primo, il “principio di libertà”, prevede un equale sistema delle libertà fondamentali, e il secondo, il “principio di differenza”, regola la distribuzione dei costi e dei benefici della cooperazione sociale, e prescrive che l’unica ineguaglianza giustificabile dalla Costituzione riguarda l’accesso ai beni sociali primari che devono andare a vantaggio dei gruppi e/o delle persone meno avvantaggiati nella società in presenza di un’eguale uguaglianza delle opportunità.
Ne consegue che il perseguimento di equalizzare il valore della libertà, intesa come “positiva”, cioè libertà “di”, viene dalla necessità di mantenere la promessa di uguale libertà per chiunque, e ciò attraverso il principio di differenza, sensibile agli effetti moralmente arbitrari sia della c.d. lotteria sociale, sia della c.d. lotteria naturale che opera la diversa distribuzione dei talenti e delle capacità. Il che presuppone «uno schema di reciprocità nel tempo» (Salvatore Veca, La barca di Neurath, l’idea di equità, ed. Della Normale 2025: 74).
Ora, non essendo questa la sede per analizzare i criteri distributivi descritti nella Theory of Justice e riformulati successivamente da Rawls in Giustizia come equità (Ed. Feltrinelli 2002: 17 e ss) partendo dal c.d. «esperimento mentale della posizione originaria» per giungere alla “Giustificazione pubblica” di tali assunti, il punto focale che qui interessa, sta nella preoccupazione di «preservare la cooperazione sociale e politica tra cittadini liberi e uguali» (Rawls, cit.: 32) attraverso un «equilibrio cognitivo di tipo riflessivo». Ebbene, poiché «nella realtà i cittadini hanno idee religiose, filosofiche, morali spesso contrastanti», come riconosce lo stesso Rawls (ivi: 37), il virus a cui si è accennato viene dal fatto che il pluralismo delle persone e/o dei gruppi non sia affatto “ragionevole”, ma proliferi nel brodo identitario, alimentato proprio da chi quel progetto costituzionale equo, giusto e ragionevole vuole distruggere. Ma non solo rilevano queste differenti idee, anche le differenze linguistiche, politiche e di genere incidono grandemente sui sentimenti identitari, che divampano quando vengono alimentati, ad esempio, dalle celebrazioni di varie fome di eredità culturali, con l’effetto che la molteplicità delle identità, quando contrastano tra loro all’interno della stessa categoria, come la cittadinanza, o fra diverse categorie, come la professione, la classe sociale o il genere, attraverso diverse fedeltà di gruppo, possono entrare in conflitto e in periodi di pace suscitare diversi giochi di alienazione, ma quando interviene la guerra o un radicale mutamento di morale, allora le scelte dei comportamenti indotti «da rappresentazioni distorte delle persone appartenenti a una categoria diversa e l’insistenza sul fatto che quelle caratteristiche distorte siano i soli aspetti rilevanti dell’identità delle persone prese di mira… possono essere foriere di violenza» (Amartya Sen, Identità e violenza, Laterza 2006: 30). Questo perché, con un’adeguata dose di istigazione, «un sentimento di identità con un gruppo di persone può essere trasformato in un’arma potentissima per esercitare (appunto) violenza su un altro gruppo» (Sen, cit. :XIII). Ciò soprattutto quando viene indotta ad accogliere un erroneo criterio di causalità, su cui operano quelli che si sono qui definiti come gli assassini della verità.
Infatti, quando si prendono in esame eventi verificatisi in successione e si cerca di spiegarli, si ricorre al criterio di causalità, che tuttavia è molto più complesso di quanto appaia a prima vista. Emblematico sul punto è l’art. 41 del nostro Codice penale, intitolato “concorso di cause”, che recita: «Il concorso di cause preesistenti o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione (incriminata) non esclude il rapporto di causalità tra l’azione o l’omissione e l’evento [e] le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento».
Né vale l’illusione della conoscenza reciproca, come sostenne la scrittrice Christa Wolf alla celebrazione dell’ 80mo anniversario della nascita di Heinrich Boll, quando attribuì «alla scarsa conoscenza ed estraneità» da parte dei popoli delle due Germanie ante unificazione, «divise dall’impossibilità di immedesimarsi gli uni negli altri» e superare così le divisioni e le ostilità reciproche (C. Wolf, Fraternità difficile, ed e/o, 1999: 11).
Si tratta della c.d “trappola identitaria” le cui conseguenze sono ben descritte da Sen ricordando gli eventi tragici a cui assistette in gioventù al tempo della separazione dell’India dal Pakistan, quando «Gli istigatori politici che spingevano al massacro, in nome di quella che ognuna delle parti in campo definiva la nostra gente, riuscirono a convincere molti pacifici individui di entrambe le comunità a trasformarsi in criminali accaniti, inducendoli a concepire se stessi soltanto e unicamente come induisti o musulmani, col dovere di scatenare la vendetta sull’altra comunità. Non come asiatici, come membri della razza umana» (Sen. cit.:175).
Detto questo, non c’è dubbio che l’universalità connessa con la dichiarazione dei diritti umani si scontra con il fenomeno della disuguaglianza di fatto, che non viene meno solo perché si afferma la pari dignità di tutti. Infatti le Costituzioni liberal solidaristiche del secondo dopoguerra e chi, come Rawls, decise di affrontare il problema della disuguaglianza come lesione della giustizia, affrontarono la questione dell’equità. Così fa la nostra Costituzione all’articolo 3, dove afferma che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». E lo fa subito dopo aver richiamato l’universalismo dei diritti all’articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
Ma non solo: il problema viene affrontato anche trasversalmente sul piano temporale, dove la proiezione nel futuro dell’attuazione costituzionale avviene attraverso il potere larvatamente emendativo, nel senso di integrare il dettato costituzionale attraverso l’allargamento della portata dei principi contenuti nella Carta. Il che è avvenuto affrontando il tema dei diritti e delle libertà che via via si affacciavano sul terreno della costruzione della società prefigurata dalla Carta. E molti sono i principi di diritto che vengono progressivamente assunti come mattoni di tale società prefigurata nella Carta. Si pensi, ad esempio, al riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza, al diritto alla riservatezza, alla propria immagine, alla libertà di informazione, al diritto ai segni distintivi della personalità, al diritto a libere relazioni omosessuali, alla libertà morale come libera determinazione della volontà, alla capacità negoziale, al diritto al riconoscimento della personalità giuridica per gruppi e associazioni di fatto. Ma i casi sono molto più numerosi.
Eppure tutto ciò non è stato sufficiente per garantire il totale successo della società edificata sui presupposti della Costituzione, in parte perché il fenomeno delle diseguaglianze non attiene solo agli individui, le cui istanze e attese possono più o meno radicalmente venir soddisfatte dalla larvata emendabilità dell’impianto costituzionale, in modo tale da sfrondare la resistenza degli interessi ad esse contrarie, così come si può cogliere dalle pronunce della Giustizia ordinaria e amministrativa che solo le sentenze della Corte Costituzionale hanno reso inefficaci, e in parte perché la funzione “emendativa” ha avuto scarsa attenzione ai gruppi nei quali si riconoscono gli individui portatori degli interessi in gioco (Questione presente nel dibattito dei costituzionalisti). E questo perché le sentenze della Giustizia ordinaria e amministrativa, poi divenute inefficaci, erano l’effetto del potere di gruppi di interesse ideologici come quelli religiosi o politici o economici, confluiti spesso nelle aggregazioni politiche contrarie al processo attuativo.
Ne consegue che l’insufficienza di questo processo larvatamente emendativo viene accolta con ostilità proprio dai gruppi che esprimono quelle istanze, e che per questo motivo «rigettano valori universali e regolamenti come la libertà di parola e le pari opportunità, considerandole semplici distrazioni che mirano a nascondere e perpetuare l’emarginazione delle minoranze… (e) per questo puntano sulle varie identità di gruppo, insistendo per metterle al centro sia della nostra (alias famiglia felice) visione del mondo, sia della nostra percezione di come si dovrebbe agire al suo interno» (Yasha Mounk, La trappola identitaria, Feltrinelli 2023: 19). Da lì, alla nascita e alla crescita di un’enfasi sulle categorie identitarie come razza, genere e orientamento sessuale il passo è breve, tanto quanto quello di porsi in posizione antitetica e di scontro sia verso chi proclama i valori universalistici considerati una menzogna, sia verso chi si pone come portatore di identità avverse.
Sull’altro lato della barricata l’atteggiamento è specularmente identico, e ne discende una polarizzazione del tutto antitetica al progetto costituzionale, ostacolato dalle ideologie di estrema destra, «perché spingono i loro seguaci a dare più valore al gruppo di appartenenza che non ai diritti degli altri, o ai principi universali di solidarietà umana» (Mounk, cit: 21).
Su questo fenomeno sociopolitico così complesso si è innestato un fattore culturale frutto della rivoluzione informatica, che è stato determinante per la crescita esponenziale del virus inscritto nel principio costituzionale dell’equità. Si tratta della gigantesca e inarrestabile propagazione in senso verticale, cioè nella sempre maggior sofisticazione e potenza degli strumenti tecnologici in questione e della scienza che vi si accompagna. In senso orizzontale si tratta del raggiungimento di sterminate moltitudini, ormai nella misura dei miliardi di individui, avviati a diventare incapaci di elaborare barriere cognitive efficaci contro gli effetti di questa pandemia scientifica sul terreno della comunicazione e dell’informazione, che ha finito per causare il trionfo di quella che Yascha Mounk ha definito “sintesi identitaria”, come «prodotto di un insieme di influenze intellettuali, quali post modernismo, post colonialismo e teoria critica della razza (che) può essere messa al servizio di varie cause politiche, dal rifiuto radicale del capitalismo alla tacita alleanza con l’America (di Trump)» (Mounk, cit.: 17).
Questo è stato possibile perché la c.d. rivoluzione informatica è stata il veicolo di una vera e propria rivoluzione sociale, che ha comportato la scoperta e/o la nascita di nuove identità sociali che si sono innestate o hanno affiancato o si sono integrate in quelle identitarie, attraverso nuove semantiche e nuove categorie valoriali, che si sono alimentate l’un l’altra attraverso la rete sociale del web.
Ma ciò è accaduto non solo per queste ragioni, poiché la caratteristica del fenomeno, per via dell’assenza dell’interazione gestuale tra i soggetti, eliminando il face to face mimico, ha comportato una sorta di analfabetismo emotivo e ha creato una sorta di irrealtà manipolabile dall’uso dell’interfaccia dei sistemi informatici, nuove modalità di comportamenti interattivi all’interno delle reti sociali, alterando gli schemi cognitivi e sociali utilizzati dalle persone cresciute nella consuetudine dei rapporti fondati sul riconoscimento e il rapporto personale nello scambio razionale delle informazioni e delle opinioni.
Infatti «i social media, per la loro capacità di strutturare l’esperienza interattiva, creano attraverso l’uso, schemi mentali (permettendo) all’utente esperto di simulare mentalmente le diverse possibilità di azione del medium, consentendogli di usarlo intuitivamente senza pensare». Si tratta cioè dell’«interrealtà che permette di far entrare il mondo digitale nel mondo off line e viceversa (e/o) di modificare l’esperienza e l’identità sociale in maniera totalmente nuova rispetto al passato» (Giuseppe Riva, I Social network, Il Mulino 2016:38). Questo perché «Il mezzo digitale incarna rappresentazione e autoesibizione (…) funzionando da specchio gratificante della propria immagine e da megafono per amplificare la propria platea attraverso il consenso e la sua ricerca» (W. Quattrociocchi e A. Vicini, Liberi di crederci, ed. Codice, 2018: 65).
Tutto ciò scardina il lungo percorso ideale, iniziato nel XVIII secolo e proseguito sino a due decenni fa, che aveva come obiettivo di indagare la realtà in modo onnicomprensivo offrendo all’intelligenza umana una risposta condivisibile sul piano razionale e morale. Così questo rigurgito del suo opposto opera sul piano cognitivo, in modo tale da affascinare il bisogno di semplificazione delle moltitudini, trasforma in realtà l’assunto che non esistono i fatti ma solo le loro interpretazioni, e apre la via maestra per sconfessare quel percorso bisecolare.
Invero non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo, ma la novità consiste nella sua diffusione planetaria, poiché l’assunto che non esistono i fatti aveva già avuto come corollario che la verità era inconoscibile alle masse, di cui si screditava la razionalità, ricordando ad esempio le teorie genetiche marxiste di Trofim Denisovic Lysenko. Tuttavia il fenomeno che qui ci occupa, che ha avuto come riflesso l’ascesa delle destre illiberali e il crollo della fiducia nel mondo democratico della nostra famiglia felice, discende dal secondo virus presente nel tessuto costituzionale come struttura ideale fondativa dello stesso, e quindi difficilmente emendabile.
Ma prima di prenderlo in esame, è necessario spendere alcune parole sul corollario che discende dall’assunto di verità circa l’inesistenza dei fatti ma solo della loro interpretazione, che ha trovato nella rete dei social non solo la strada della sua diffusione, ma della sua presa sulle coscienze. Si tratta della disinformazione, dei suoi creatori, delle modalità e dei mezzi usati per amplificarla, e dei suoi effetti.
Detto questo bisogna chiarire che il presupposto necessario per proseguire l’indagine senza smarrirsi, sta nella comprensione di un dato di realtà, cioè nella dicotomia tra la semplificazione dell’argomentazione e la sua complessità, dove la prima, eliminando dal focus una congerie di oggetti, se rende più facile la percezione del tutto, inteso come meccanismo fenomenologico in continuo divenire, di cui gli esseri umani sono soggetti attivi e passivi, rischia di non cogliere ciò che rende riconoscibili le sue ragioni e le sue cause, talché la risposta all’indagine semplificata si riduce all’uso rituale dei miti, quali lo scontro di civiltà, l’antitesi tra Capitalismo e non Capitalismo, la credenza nelle fedi escatologiche, l’assunto che ci sia una e una sola causa del tutto. Ebbene, tutto ciò è connesso con la disinformazione.
Sull’altro lato sta il garbuglio dei fatti visti nell’intrico delle relazioni del pensiero attraverso lo scambio delle opinioni sul divenire della Storia, in specie contemporanea, dove giganteggia la necessità della selezione, così come specifica E. Carr in Sei lezioni sulla storia (Einaudi 1966). Tuttavia non si può fare a meno di penetrare in questo garbuglio senza precipitare nell’abisso degli abbagli cognitivi. Anzi, per potervisi districare riducendone le parti in oggetti maneggevoli sui quali ragionare razionalmente, bisogna ricorrere all’intermediario, all’esperto che affronta la complessità di un fenomeno con la sua competenza, che deve essere verificabile, e i cui giudizi possono venir giudicati esaminandone il percorso logico e razionale.
Ebbene, la disinformazione parte da un presupposto diverso, quello della “disintermediazione” (Quattrociocchi, Vicini cit.: 26), frutto dell’abilità di chi esalta il trionfo della persona qualunque sull’élite tradizionale colonizzando i suoi spazi cognitivi con l’uso sapiente del web, il cui obiettivo «non è solo quello di indurre o mettere in discussione alcuni fatti particolari… ma di erodere la fiducia nei detentori della verità, non inducendo a credere in una falsità, ma a diffidare e talvolta odiare chiunque non creda a sua volta a quella stessa falsità» come evidenziato dagli studi sulla comunicazione attraverso l’esame del debunking, cioè il ripristinare l’esattezza dei fatti, e la polarizzazione (Lee McIntyre, Disinformazione, ed Utet 2023: 16). Il che comporta «un rischio globale tecnologico e geopolitico che va dal terrorismo ai cyber attacchi al fallimento della governance globale» (Quattrociocchi, Vicini, cit.: 29).
Allora centrale in questo lavoro è la questione del negazionismo strategico, il cui obiettivo politico e ideologico, fomentando la sfiducia, è di uccidere la verità attraverso convinzioni negazioniste che non si basano sui fatti, ma sono radicate nell’identità di chi le professa (McIntyre, cit.:15), dove il conformismo sociale, che giganteggia nel web, ha indotto milioni di persone a credere nel complotto sui vaccini anti Covid, a quelli elettorali in USA, a quelli sulla sostituzione etnica in Europa e in Italia, ad aggredire l’informazione scientifica e le basi stesse della democrazia, atteso che la democrazia e il principio di uguaglianza è fondato sul libero accesso alla conoscenza, a partire da una corretta descrizione del mondo, o delle cose come stanno, per rimandare a ciò che deve o dovrebbe essere e appartiene al mondo dei valori, poiché «giudicare un’istituzione come democratica significa valutarla in modo favorevole rispetto a organizzazioni statali di tipo dittatoriale che, ad esempio, pratichino sistematicamente la tortura e vietino la libertà di parola e di stampa» (M Dorato, Disinformazione scientifica e democrazia, ed Cortina 2023: 20).
Viceversa il negazionismo strategico funziona selezionando accuratamente le prove utili ai suoi fini, come la manipolazione, attraverso gruppi di falsi esperti, delle statistiche e dei dati, omettendo quelli contrari, che siano sulle conseguenze del Covid, sul Cambiamento climatico, sui reati commessi dai migranti, sui dati economici; costruendo teorie del complotto, elettorale o pandemico o di qualsiasi altra natura, religiosa, economica, bellica, culturale, linguistica, di genere; attribuendo ai fatti qualità fasulle, come la natura pacifica degli assalitori di Capital Hill, armati di telefonini per i self, invece che di corde per impiccare Mike Pence e Nancy Pelosi come fu accertato; e i morti di quell’evento lo provano.
Ma la cosa paradossale è che questo mercato delle idee avvenga attraverso il libero flusso delle informazioni senza che la verità venga a galla sotto gli occhi esterrefatti di chi si ostina a credere che il progresso della civiltà cognitiva sia stato un’acquisizione permanente, trasponendo quest’idea nella democrazia liberale. Ciò «in base alla teoria secondo cui la verità avrebbe inevitabilmente la meglio sulla menzogna, (mentre) recenti ricerche empiriche hanno dimostrato che una prevedibile percentuale di pubblico» ascoltate le bugie ci crederà, poiché «non è possibile correggere un flusso di informazioni inquinate semplicemente diluendolo con la verità» (McIntyre, cit.:7, 48).
Allora, partendo dall’equivalenza del negazionismo come nutrimento dell’identità, ne consegue che rinforzando il potere della disinformazione con una procedura collaudata, si innesca il crollo della costruzione democratica del dopoguerra, sorto in risposta ai totalitarismi nati e sviluppatisi nel crollo democratico di quei tempi. Ne consegue che, analogamente agli anni 20/30 del ‘900, «Il funzionamento equilibrato e durevole di un regime democratico non (può) essere garantito dal solo gioco delle elezioni e dei partiti (perché) la separazione dei poteri, l’indipendenza giudiziaria, i diritti dell’uomo e il controllo di costituzionalità (devono) essere componenti sostanziali e non solo formali della democrazia» (Ives Meny – Ives Surel, Populismo e democrazia, ed. Il Mulino 2000: 43-44).
A questo punto deve evidenziarsi che l’assunto di verità per cui il crollo dei fondamenti democratici è causato da una sinergia di forze che agiscono attraverso l’uso dei canali e degli strumenti democratici, rende necessario prendere in esame il secondo virus dopo l’equità che doveva rendere perfettibile l’uguaglianza. È dunque il secondo virus, elemento strutturale e ineludibile della democrazia, a insidiarne la stessa sopravvivenza così come accadde al tempo del suo primo crollo.
Si tratta della libertà, il cui fondamento non è il suo valore ontologico, poiché essa esiste in quanto «processo della liberazione delle persone da un variegato corteo di catene, vincoli, norme, pratiche e tradizioni» che viene da molto lontano, fin dal Deuteromonio che invita alla gentilezza con lo straniero, «perché (tu) sai che cosa ha voluto dire essere straniero in Egitto» (S. Veca, cit.:98).
Ne consegue la questione se il valore della libertà sia o no negoziabile con altri valori e quale spazio la libertà delle persone deve avere rispetto ad altri valori, poiché la libertà cambia, e ciò che conta sono le nostre relazioni e i nostri vincoli. Quindi libertà come dimensione etica, non potendo essere esercitata responsabilmente in uno spazio sociale di non libertà, di umiliazione, di degradazione, di schiavitù di altri, ed è intimamente connessa «con l’uguaglianza, la sola che ammette società, gioia, cordialità» (ivi: 107-108). Allora la libertà attiene all’apertura nei confronti degli altri «come condizione preliminare dell’umanità in tutti i sensi della parola… sintonizzata sulle frequenze della gioia resa impossibile dall’invidia che, nell’universo dell’umanità rappresenta il peggiore dei vizi, (mentre) il contrario della compassione non è l’invidia ma la crudeltà… che rappresenta una distorsione che ricava piacere dal dolore« (Hanna Arendt, L’umanità in tempi bui, Mimesis 2023:38).
Questo per sottolineare l’importanza della dimensione etica della libertà vissuta in senso transitivo, la cui violazione comporta lo stravolgimento dei suoi presupposti, quando l’uso dei canali e degli strumenti democratici che le permettono di essere un veicolo della costruzione della democrazia, in cui è vissuta e cresciuta la nostra famiglia felice, avviene in modo spregiudicato e distorto come per mezzo della disinformazione della verità. Così il mantra ideologico del “non esistono i fatti ma solo interpretazioni” e del suo corollario, e cioè che tutti gli argomenti usati per dimostrare la bontà dell’attacco alla Democrazia liberale e ai suoi fondamenti è funzionale a difendere la verità di quanto sia necessario violare l’etica, accusata d’essere fasulla, delle libertà democratiche, è smentita proprio dalla constatazione di come gli aggressori agiscono per sconfiggere i difensori del liberalismo democratico.
Pertanto le scelte legislative, giurisdizionali, censorie e i loro effetti sono sotto gli occhi di chiunque voglia vederne la materialità. Là dove viene vietato tout court il diritto di aborto, dove vengono vietati i libri (oltre 10 mila titoli cancellati nelle biblioteche universitarie USA), censurati gli spettacoli, impedito il dibattito politico, arrestati i dissenzienti, e dove i generi diversi da quelli biblicamente canonici vengono privati financo di partecipare alla cosa pubblica e di mostrarsi nella loro identità, là dove un’evoluzione del diritto di procreare viene represso inventando un’improbabile reato universale, là dove gli esseri umani sono imprigionati e deportati a causa del loro anelito alla libertà e alla salvezza dalla guerra, dalle persecuzioni e dalla morte per fame e malattie, o deliberatamente lasciati affogare nel mare non solo senza soccorso, ma impedendolo, la materialità dei fatti è così palpabile che solo la Dissociazione Cognitiva (decidere di non sapere ciò che si sa), o la pura malafede possono negare a queste realtà la natura ontologica d’essere nemiche della dimensione etica dell’uguaglianza e della libertà che non può essere appannaggio di alcuni, ma deve valere per chiunque.
Eppure quest’operazione subdola e distruttiva ha indotto molte persone a fare una distinzione cinica di questo valore, fino al punto di giudicare con metro diverso l’atto di salvare le vite umane, ritenendo l’atto in sé secondario, contando invece CHI e PERCHE’ salvi le vite. Così accadde che la giovane comandante di una nave ong che operava in ossequio al diritto internazionale e a quello del mare, Karola Rakete, venne non solo denunciata e inquisita, (infine assolta dalla Giustizia), ma condannata da una gran parte dell’opinione pubblica come una reproba, perché l’aver salvato delle vite umane veniva DOPO, sul piano valutativo, della ragione e delle modalità della sua condotta. Ora, questa cinica assunzione di pesare diversamente il valore della vita e della libertà, non è altro che la conseguenza di quell’immane rimozione degli orrori della prima metà del XX secolo, poiché contro quegli orrori la dignità e l’uguaglianza degli esseri umani vennero posti ai vertici dei valori umani, e non messi in second’ordine sulla scorta di valutazioni di merito sociale, tali per cui l’atto di salvare la vita conta assai meno del giudizio di valore su chi tale atto pone in essere. Ebbene, questo semplice esempio non è altro che il sintomo di quanto i valori sui quali venne edificato il progetto di pace siano stati precari nel rifiuto consapevole dell’idea vaga e preziosa dell’uguaglianza umana «che discende dalla dimensione etica della libertà, poiché l’uguaglianza non è un mito, e lo sa chi fu (ed è) vittima dell’oppressione» (Veca, cit. :110).
Detto questo, tuttavia, deve ancora farsi un’osservazione sull’ambivalenza del valore della libertà, che ha il suo punto di riferimento nel Demos, come elemento di ancoraggio del discorso politico e fonte primaria della legittimità politica, poiché «la battaglia intorno al ruolo del popolo, dei partiti, delle organizzazioni rappresentative, le lotte sui dispositivi costituzionali, i conflitti sul ruolo rispettivo dello Stato e del mercato, sono il frutto dell’ambivalenza delle democrazie costituite» (Meny -Surel, Populismo e democrazia, cit.: 43), e muta col tempo.
Ma ne consegue che il suo uso, distorcendone il fondamento etico, può trasformarla nel virus letale che sta uccidendo la verità e la democrazia, come se fosse in corso una nuova fase del grande conflitto, risalente al XVIII secolo, tra i valori dell’ancien regime, basati sulla sicurezza dell’autorità conservatrice sulla tradizione secolare da restaurarsi a ogni costo, e dall’altro quelli dell’IIluminismo, basati sulla libertà della ragione, dell’innovazione e del cambiamento (Colin Crouch, Identità perdute, Laterza 2020: 7). Il che, sciaguratamente, richiama con un paradosso della nostalgia le guerre del XVIII secolo, «quando superstizione e religione sembrarono cedere il passo alla scienza e alla ragione (e) gli europei intravidero per un breve momento la speranza che il genere umano, quantomeno l’Europa, stesse imparando a diventare più pacifico e a dominare l’istinto» (M. Mcmillan, War, ed, Rizzoli 2020: 18) così come sottolineato dal giurista, diplomatico e filosofo svizzero del ‘700 Emmeric de Vattel, che, nel suo I diritti delle genti definì «l’Europa moderna (come) una repubblica i cui membri… legati da un comune interesse, si uniscono per il mantenimento dell’ordine e la conservazione della libertà» o fanno guerre “legittime” basate su regole condivise, invece di “guerre giuste”. E infatti erano “guerre di gabinetto” facili da interrompere e risolte con accordi e trattati.
Tanto premesso ne discendono tre riflessioni. Per la prima l’assenza dell’ideologia nelle ragioni della guerra comporta la mancanza del pensiero identitario che vede nel nemico un altro da sé da annientare, così come era accaduto nelle guerre di religione, e come accadrà nei due secoli successivi, quando sarà necessaria una “narration” idonea a cancellare nella mente dei destinatari alcuni principi morali, come il riconoscimento della comune umanità e gli istinti solidaristici pur presenti negli esseri umani per sostituirli con una morale antitetica, attraverso l’assassinio della verità.
La seconda attiene alla funzione del diritto, concretizzato negli accordi e nei trattati, cioè nel riconoscimento di questa creazione umana indispensabile non solo a pacificare le relazioni, ma a rendere la pace stabile sul piano della razionalità, che lo trasforma in un valore. Ma quando il diritto diventa l’arma del più forte, mostra un risvolto analogo all’ambivalenza dei due valori della democrazia, l’equità e la libertà, per cui su questa mutazione si spenderanno alcune parole, poiché questo risvolto è strettamente connesso con il crollo degli ideali della nostra famiglia felice.
La terza è filosofica, e vede un capovolgimento dell’assunto di Walter Benjamin sull’Angelo della Storia, che in questo caso, invece di correre verso il futuro dandogli le spalle mentre guarda le macerie del passato, dà le spalle a queste macerie e guarda fiducioso verso il futuro, dove la pace e la stabilità delle relazioni consentiranno il vero progresso dell’umanità. Prospettiva che andrà in frantumi ad opera della “narration” napoleonica sulla sua guerra giusta, (tanto simile a quella con cui gli USA intenderanno esportare la democrazia), tradendo l’universalismo e il razionalismo, come accadrà nei nazionalismi europei, che sfocerà nelle immani tragedie delle due guerre mondiali, e in quelli arabi, africani, asiatici successivi (Crounch, cit.: 69).
Questo balzo verso la felicità occidentale sarà comunque possibile proprio attraverso il primato del diritto, sul quale verranno edificate le istituzioni internazionali, in primis l’ONU, nella cui appartenenza i suoi membri riconosceranno un valore giuridico e morale che trascende gli interessi particolaristici, il GATT, divenuto OMC, sullo scambio di beni senza barriere tariffarie, purché vengano rispettate le regole concordate, L’ ASEAN nel sud esto asiatico e il NAFTA fra Messico, USA e Canada (Quello che Trump ha appena denunciato).
Ma soprattutto la CEE e ora l’UE, perché, e in parte le altre istituzioni, rispondono a un criterio concettuale nuovo, sebbene, come si è visto, affondi le radici nei valori illuministici, in quanto, a partire dal piano economico, la felicità dell’Occidente è partita da una modifica del sistema decisionale, passato da una posizione tra due o più Stati, ciascuno ben radicato nel suo sistema simbolico identitario, che pervenivano ad accordi in forma di trattato fra le parti analogo a quello frutto di una sovranità derivata dai concetti militari dei secoli passati. Significa che l’Occidente globalizzato e la UE sua massima espressione, stavano modificando il sistema degli accordi che culminavano in un “trattato fra le parti”, in un “regolamento” assunto congiuntamente da tutti, scavalcando la sovranità particolare di ciascuno. Cioè in un prevalere delle regole del Diritto sulla libera e autonoma potestà decisionale di una parte verso l’altra. Allora, mentre la forma del trattato che istituisce un regolamento è tale per cui l’eventuale controversia verrà affidata alla Corte (CGUE), l’uso della forza economica o militare non conta e viene bandito. Ciò significa pace e sonni tranquilli.
E infatti la UE nasce come progetto di Pace post guerra, ma non è, purtroppo, un progetto inerziale, poiché il mostro, che non è tale, non essendo né un segno degli dèi né un prodigio, essendo viceversa ben radicato nell’umanità, non appena ammansito, necessita di continua sedazione, poiché la pace nasce come il frutto di un accordo, mentre mantenerla non è facile, in quanto le sue regole sono molto più complesse delle regole della guerra, sol che si pensi che la lesione delle regole della guerra significa maggior guerra, mentre la lesione delle regole della pace non significa maggior pace, bensì il suo contrario (Bordoni, cit.: 222-223). E infatti in questo consiste il risveglio dal sonno felice in un mondo popolato da incubi, nei quali la famiglia felice viene distrutta o minacciata mortalmente, essendo il mondo nel quale si avvia molto diverso da quello precedente.
Con questo non si vuole escludere che nel mondo felice tutti quelli che hanno potuto usare la forza per conquistare l’egemonia regionale o globale l’abbiano fatto, ma rilevare una differenza tra il mondo democratico occidentale (quello della nostra famiglia felice) e l’altro, dove tale differenza non sta nelle modalità dell’uso della forza (l’Iraq 2003 docet), ma nel rapporto tra l’uso della forza e l’ideologia e/o gli ideali che lo animano. In questo l’ideologia sul cui presupposto è stata usata la forza è stata esplicitamente il mezzo delle idee che l’hanno giustificata, e per questo motivo ha agito come punto di riferimento per le opinioni pubbliche imbrigliate e sottoposte alla repressione per il loro eventuale dissenso. Invece nel mondo della famiglia felice ciò è stato fatto in modo clandestino o mascherato (si pensi alle menzogne sulle giustificazioni dell’invasione dell’Iraq nel 2003), e le opinioni pubbliche prima o poi hanno reagito, come accadde per la guerra del Vietnam o in Francia nella guerra di Algeria o in Europa appunto quanto all’intervento in Iraq, che indussero Paesi come la Germania a non far parte di quella sciagurata avventura.
Ma il crollo dell’impalcatura della famiglia felice non è solo quello della fine della pace, bensì della crisi profonda che ha colpito l’universalismo dei diritti, e gli stessi presupposti del Manifesto di Ventotene nonché la valenza morale e giuridica del tessuto delle Costituzioni liberali come la nostra, come effetto del predominio del sistema maggioritario culturale sviluppatosi in reazione alla cd sintesi identitaria, nel rinascere del nazionalismo etnico e della repressione del dissenso intellettuale e culturale interno. Si assiste così all’ascesa delle destre illiberali, sebbene nel pensatoio del liberalismo le sue caratteristiche siano state ampiamente analizzate da più di un decennio prefigurandone le conseguenze. (Cfr. La grande regressione, di Ulrich Beck nel 2011, con saggi di A. Appadurai, Zygmut Bauman, Bruno Latour, Slovoy Zisek e altri, Feltrinelli, 2017).
Infatti è accaduto e sta accadendo un fenomeno curioso e drammatico, poiché la luce che avvolgeva il mondo della cd. famiglia felice veniva da un unico sole, cioè dagli ideali universalisti consustanziali al progetto sociopolitico occidentale, mentre altri soli illuminavano le altre parti del mondo. Ma ora il crollo imminente dell’Occidente parte dalla constatazione che i soli che illuminano il mondo si stiano omologando a quelli dei luoghi e delle popolazioni che non hanno mai visto quello occidentale, adesso al tramonto.
Si noti ad esempio il sole di W. Putin che illumina la Russia, per il quale la Russia non è Europa, gli occidentali sono immorali e degenerati come le loro istituzioni, la guerra contro l’Ucraina è santa in nome del Cristianesimo ortodosso e i valori dell’antica grandezza imperiale in via di ricostituzione, la repressione interna è condotta in modo spietato contro giornalisti, uomini politici, persone dello spettacolo, presunti traditori, anche con l’omicidio in nome della negazione dello Stato di diritto e dei diritti umani. E come tutto ciò trovi riscontro ideale in altri Paesi del cd Occidente, dalla Turchia di Racip Erdogan, nel suo invocare un ritorno alle tradizioni e all’imperialismo ottomano, all’uso della repressione giudiziaria di ogni forma di dissenso, all’uso della guerra contro il popolo Curdo che chiede il rispetto del suo territorio e delle sue ragioni autonomistiche, all’India di Narendra Modi, sostenitore accanito del nazionalismo indù, che anni fa dichiarò di vedere in Adolf Hitler il suo modello politico, per giungere all’Ungheria di Orban, razzialmente e culturalmente identitaria contro i presunti diversi, dagli omosessuali agli ebrei ai migranti, per giungere all’America di Donald Trump, misogino, razzista, xenofobo e megalomane nel suo programma di ribaltare i fondamenti della Comunità internazionale, di esercitare forme di repressione e di stravolgimento dei fondamenti democratici attaccando le istituzioni repubblicane ritenute ostili, mirando così a eliminare i check and balances, sia contro la libertà d’insegnamento, aggredendo a colpi di decreti le istituzioni accademiche, attaccando la legittimità del potere giudiziario con la minaccia alla persona dei giudici, attaccando finanche l’autonomia e la libertà degli studi legali e della stampa a lui contrari, sia attraverso il disconoscimento delle istituzioni internazionali, dall’OIM all’OMS, alla stessa ONU, alla UE, attraverso i controlli violenti sull’immigrazione, gli arresti dei dissenzienti, le deportazioni, le narrazioni inventate sui fatti storici e su quelli contemporanei, dalla nascita della UE e sulla sua natura, alle responsabilità sulla guerra della Russia contro l’Ucraina, sulle verità scientifiche come quelle sul cambiamento climatico, sulla censura, sull’uso delle minacce economiche e militari per perseguire i suoi scopi, il tutto attraverso impliciti messaggi razzisti e razziali, condotti propagando il principio della “caucasicità” all’origine della grandezza americana, secondo i dettami del suo “MAGA”.
Ne consegue un vero e proprio ribaltamento dell’impalcatura che sosteneva il mondo ideale dell’Occidente, basato sul primato del diritto, diventato viceversa, quando non viene del tutto disatteso violando gli accordi e i trattati internazionali sottoscritti (similmente alla Russia di Putin, sol che si pensi all’infrazione del Memorandum di Budapest del 1994 che garantiva l’integrità territoriale Ucraina), uno strumento per perseguire quegli obiettivi, in un’accezione analoga a quella del giurista tedesco Karl Schmitt, fautore della grandezza del III Reich, sul potere dello Stato quale entità superiorem non recognosens, basato sul trinomio “governo-popolo-territorio”. Allora le sanzioni, i blocchi all’export, le clausole di priorità nazionale, le guerre tariffarie condotte attraverso l’uso prepotente del diritto, a partire dall’accentuazione di fatti giuridici come l’Inflation Redection Act portate al parossismo, ma soprattutto attraverso l’uso sproporzionato dei poteri speciali, cioè discrezionali del Presidente americano, stante «l’impossibilità di un effettivo sindacato giurisdizionale delle decisioni del Presidente, con il risultato che le parti coinvolte nelle operazioni illegittime rimangono senza tutela» (Luca Picotti, La legge del più forte, ed. Luiss 2023: 48). Altresì vengono usate le guerre economiche per piegare o indebolire i Paesi rivali o concorrenti… «per mezzo di leggi e regolamenti, provvedimenti statali… finalizzati al raggiungimento di scopi economici» (ivi: 23), quando non vengono minacciate le sovranità territoriali degli Stati prospettandone l’annessione con la forza militare, come detto per la Groenlandia.
Ecco allora che la Democrazia liberale occidentale si sveglia nell’incubo e si interroga se vi siano o no dei rimedi utilizzabili. A questa domanda quasi 90 anni fa diede una risposta il giurista tedesco Karl Lowenstein, quando si pose il problema di come, nelle democrazie fondate dai costituzionalismi dei diritti fondamentali, questi stessero subendo o avessero subìto un’aggressione mortale ad opera di una sorta di internazionale fascista (oggi abbiamo un’internazionale delle destre estreme illiberali, sol che si pensi al partito dei Patrioti per l’Europa), tale da trasformarle nel loro opposto.
Lowenstein, che acutamente definì questa sostituzione come la sostituzione del governo costituzionale col governo emozionale, poiché il primo «implica lo Stato di diritto, che garantisce la razionalità e la calcolabilità dell’amministrazione mentre preserva una sfera circoscritta di diritto privato e di diritti fondamentali, (mentre) la dittatura… implica la sostituzione dello Stato di diritto con l’opportunismo legalizzato sotto le sembianze della ragion di Stato». Mutatis mutandi, si pensi alla recente vicenda del caso Almansri, di cui parlarono molto i media e a cui si riferisce il precedente numero di Dialoghi Mediterranei (Settembre, Deportazioni, migrazioni e barbarie, n. 72). Ma proseguì Lowenstein: poiché «nessun governo può basarsi sulla sola forza o violenza, la capacità di coesione dello Stato dittatoriale e autoritario si radica nell’emotività, che soppianta la certezza di legalità… del governo costituzionale» (Lowenstein, Democrazia militante e diritti fondamentali, ed Quodlibet 2024:19).
Ebbene, Lowenstein, esaminate le modalità con cui il progetto eversivo della conquista del potere si serviva sia dell’emotività (si pensi oggi alla gran balla della sostituzione etnica) coltivata attraverso la disinformazione, cioè l’uccisione della verità, sia degli strumenti riconosciuti dal sistema costituzionale (oggi la riforma del premierato che distruggerà i nostri check and balances, camuffata da revisione) basati sui suoi principi come la libertà, era giunto alla conclusione che non ci fosse altro rimedio che, durante questa lotta al fascismo, fosse inevitabile ricorrere a una democrazia “protetta”, “sotto tutela”, quindi «dai marcati tratti autoritari, stemperati dalla fortunata circostanza che i suoi leader si lascino guidare solo dal rispetto per le istituzioni e per i diritti fondamentali» (Loewenstein cit.:105), e richiamava gli esempi della Finlandia, dell’Estonia, dell’Austria, della Cecoslovacchia negli che precedettero la Seconda guerra mondiale.
Detto questo, e premesso che questo lavoro non è in grado, anche per la limitatezza degli spazi di cui ha fin troppo abusato, di dare una risposta esaustiva a questa drammatica domanda, si limita a richiamare i dieci consigli di McIntyre su come vincere la guerra per la verità: il primo consiste nell’aumentare i messaggeri; il secondo nel trovare buoni influencer; il terzo nel ripetere più spesso la verità; il quarto nel riconoscere nei negazionisti delle vittime e non dei nemici, consapevoli che è più facile ingannare una persona che convincerla di essere stata ingannata; il quinto nel non curarsi delle “stronzate”; il sesto nel non avere totale fiducia nella trasmissione del pensiero critico; il settimo nell’evitare l’amplificazione delle fakes; l’ottavo nell’attivismo; il nono nell’essere consapevoli che ci sono molti alleati e il decimo nel conoscere al meglio le problematiche connesse.
Francamente chi scrive è persuaso che tuttavia non basti neppure vincere la battaglia per la verità, soprattutto perché il punto verte su quale sia il momento utile per sconfiggere la debacle della democrazia, e cioè se prima o dopo che le menzogne e la presa del potere nemico sia già avvenuta o non ancora, poiché i popoli sui quali è calato il vento dell’antioccidentalismo partorito dalle viscere dello stesso Occidente, sembrano incapaci di guardare verso il futuro nel quale si avventurano guardando nel passato come l’Angelo della metafora di Benjamin, ma non guardano le macerie sanguinanti, bensì quel che le ha precedute ancor prima del mondo democratico sconfitto da chi causò gli orrori della Seconda guerra mondiale: guardano il mondo intessuto dei valori anti illuministici dell’ancien regime, quelli delle rigide disuguaglianze di genere e sociali, quelle del diritto dei pochi privilegiati contro i molti senza diritti, quello dello strapotere religioso basato sulle certezze del dogma, quello della schiavitù, quello nel quale si era sudditi e non cittadini, quello delle pene di morte più efferate come lo squartamento per chi avesse attentato alla sacra persona del re, quello che vide i processi e i roghi per stregoneria, usati come spettacoli per consolidare il consenso, e ciò per quel tanto che i pifferai dell’oggi ne propagandano l’utile emozionale in termini di potere repressivo e di oscurantismo della ragione.
Anche perché questi popoli guardano verso quel passato mitico essendo incapaci di cogliere, nell’oceano dove galleggia la memoria dei milioni di morti assassinati 85 anni fa, il suo significato, rimosso senza interpretarne le cause. E proprio grazie a questa mancanza di elaborazione trionfa l’assassinio della verità e dilaga la crisi della Democrazia.
Allora, se esista davvero una risposta salvifica, è dubbio, purtroppo, e nel caso non esista, chi scrive, sconsolato, offre al lettore queste parole:
MAGA//Verde tenue sul buio,/ c’era/ ier sera/ l’ultima foglia/ sul vertice sottile del ramo/ di un platano spoglio,/ figlia dell’infima linfa/ dell’anno perduto:/lottava col vento invernale/ rifiutando il freddo e la morte.//Così l’io,/ quando,/attento osservatore della Storia/ ne è divenuto la preda,/ lui e il suo specchio,/inutile corte,/ si creda,/ di una fratellanza impossibile/ col predatore/ del pensiero ormai vecchio,/ dacché la Storia e l’io/ non sono fratelli/, e l’una è il rivale/in danza con la mente,/ e la flette/, la piega,/ nega la verità del vero/ e sprofonda l’ignoranza totale/ nella furia cruda del vizio curiale,/ neo Roma imperiale.//Nuda/ l’anima/ scopre l’incredulità razionale/ mentre il pregiudizio la morde/ e il sangue sgorga,/ si sperde nella fede oscura,/ossimoro,/ lago di questa magia.//Torneremo a bruciare le streghe.//Ma chi/di noi/ crederà ancora/ nel diritto/ di avere paura?
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
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Roberto Settembre, entrato in magistratura nel 1979, ne ha percorso tutta la carriera fino al collocamento a riposo nel 2012, dopo essere stato il giudice della Corte di Appello di Genova estensore della sentenza di secondo grado sui fatti della Caserma di Bolzaneto in occasione del G8 2001. Ha scritto per Einaudi Gridavano e piangevano, edito nel 2014. Si è sempre occupato di letteratura, pubblicando racconti, poesie, recensioni sulle riviste “Indizi”, “Resine”, “Nuova Prosa”, “La Rivista abruzzese” e il “Grande Vetro”. Con lo pseudonimo di Bruno Stebe ha pubblicato nel 1992 il romanzo Eufolo per Marietti di Genova e nel 1995 I racconti del doppio e dell’inganno per la Biblioteca del Vascello nonché la quadrilogia Pulizia etica per Robin edizioni e nel 2020 Virus e Cherie con la Rivista Abruzzese. È stato collaboratore di “Altreconomia”.
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