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Lontano da dove? L’arabo in India fra memoria sacra e rotte globali

Fatehpur Sikri

Fatehpur Sikri

di Alessandro Perduca 

Nel 1497 Vasco da Gama circumnavigò l’Africa da ovest a est in direzione del Malabar. L’intento era quello di raggiungere l’India per interrompere il monopolio ottomano e mamelucco del commercio di spezie nel Mediterraneo e assicurarsi vantaggiosi contratti al centro stesso della produzione. Raggiunto l’attuale Kenya ingaggiò un pilota arabo o del Gujarat per raggiungere Calicut. All’arrivo i locali indiani furono stupefatti del fatto che i portoghesi non conoscessero l’arabo e si servirono di tunisini residenti nel Paese in grado di comunicare in spagnolo o genovese con grande sorpresa dei marinai portoghesi [1].

La storia globale, adombrata nell’aneddoto e come concettualizzata da Sanjay Subrahmanyam, rappresenta una modalità critica appropriata di fare storia che rompe con i modelli compartimentati della storiografia nazionale. Essa si fonda sul principio delle storie connesse (connected histories), che mirano a rintracciare le reti transregionali di scambio, circolazione e interazione tra popoli, idee, beni e lingue attraverso il tempo e lo spazio [2]. Questo approccio rifiuta la narrazione eurocentrica che assegna alle potenze coloniali europee un ruolo esclusivo nei processi di cambiamento globale, insistendo invece sul protagonismo delle società non occidentali, come quella dell’Asia meridionale, nella costruzione di mondi complessi e interdipendenti già in epoca precoloniale [3].

Daniela Bredi osserva 

«Ben prima che vi si affacciassero i portoghesi, la regione tra l’Africa orientale e l’Etiopia da un lato e l’Arabia, lo Yemen, la Persia, l’India e l’arcipelago indonesiano dall’altro si identificava come islamica, con una distinta personalità, che ne faceva il più vasto continuum culturale del mondo. Fin dall’inizio, i processi integrativi che avvennero sotto il vessillo dell’Islam ne fecero un’area del tutto distinta da quella mediterranea, un “lago mussulmano” dove si parlava arabo, tanto che gli europei del Medioevo, esclusi da questa zona, lo immaginavano come una specie di anti-Mediterraneo, mondo esotico di fantastiche ricchezze, orizzonte onirico e fonte di meraviglie» [4]. 

Come conclude Subrahmanyam, gli imperi precoloniali come quello moghul e quello ottomano non furono entità statiche, ma piuttosto reti complesse e interattive, impegnate in scambi globali di conoscenza e cultura. L’arabo, in questo contesto, funzionava non soltanto come lingua liturgica, ma come infrastruttura intellettuale condivisa, che unificava popolazioni distanti in una geografia islamica fluida e transnazionale [5]. La diffusione dell’arabo attraverso le madrase, i testi giuridici e teologici e le reti commerciali contribuì a rafforzare il legame tra l’India e il più ampio mondo islamico, in maniera analoga a quanto accadde nell’Impero ottomano o nei sultanati del sud-est asiatico, come il Sultanato di Malacca e le sue diramazioni in Indonesia [6].

Imperatore Akbar

Imperatore Akbar

L’espansione islamica nel Sind aprì un corridoio di passaggio per uomini, merci e idee che contribuì a creare un legame fra il portato culturale della civiltà mediterranea e quella indiana. Favolistica, astronomia, matematica, medicina, musica, farmacologia, veterinaria, scienze naturali, scienze militari iniziarono un viaggio che portò a contatto il sapere elaborato dalla civiltà classica e tardo antica e quella dell’India. ‘Abū al-Faḍl Allāmī (m. 1602), uno dei più importanti intellettuali e consiglieri della corte dell’imperatore moghul Akbar il Grande, soleva dire che il gioco degli scacchi, lo zero e le favole del Pañcatantra erano i tre contributi dell’India al mondo, ma la presenza di un’opera come Aǧā’ib al-maḫlūqāt wa ġarā’ib al-mawǧūdāt (Le meraviglie della creazione e le stranezze dell’esistenza) di Zakariyyā’ ibn Muḥammad al-Qazwīnī (1203-1283), redatta originariamente a Baghdad nel XIII secolo, ebbe una lunga e fortunata vita anche nei secoli successivi.

Questa cosmografia araba, concepita come un’enciclopedia del mondo celeste e terrestre, divenne particolarmente popolare nell’India del XVI secolo, dove fu accolta con entusiasmo negli ambienti colti dell’Impero moghul. La diffusione dell’opera testimonia non solo la persistenza dell’arabo come lingua veicolare del sapere scientifico e cosmologico, ma anche la capacità delle élite indo-musulmane di integrare e valorizzare testi classici della tradizione islamica, adattandoli al contesto locale. Copie illustrate e commentate dell’opera circolarono ampiamente, contribuendo alla formazione di una cultura visiva e intellettuale che rifletteva la profondità e l’universalità del sapere arabo-islamico.

In tale quadro, l’India musulmana emerge come uno degli snodi chiave della storia globale connessa. Sebbene il persiano fosse la lingua ufficiale della corte, l’arabo mantenne un ruolo determinante in ambito religioso, giuridico e intellettuale. Esso costituiva infatti la lingua della rivelazione islamica, delle scienze religiose (‘ulūm al-dīn), della giurisprudenza (fiqh) e del misticismo sufi. Gli imperatori moghul, come Akbar e Awrangzīb, furono promotori attivi della cultura islamica, offrendo ospitalità e patronato a studiosi di lingua araba provenienti anche dal mondo ottomano e arabo. Ciò favorì lo sviluppo di una comunità epistemica araba-indiana, i cui esponenti produssero opere teologiche, filosofiche e letterarie di rilievo, contribuendo alla costruzione di una koinè islamica articolata e dinamica [7].

Pagina dedicata all'India nel manoscritto del ‘Aǧā’ib al-maḫlūqāt di Bijapur isalente al 1571

Pagina dedicata all’India nel manoscritto del ‘Aǧā’ib al-maḫlūqāt di Bijapur risalente al 1571

Nel caso specifico dell’India, la sopravvivenza dell’arabo durante il periodo coloniale fu garantita da istituzioni autonome come il Dār al-‘ulūm di Deoband (fondato nel 1866) e il Nadwat al-‘ulamā’ (La Conferenza degli ‘ulamā’) istituita nel 1894, che continuarono a coltivare lo studio della lingua araba come parte fondamentale dell’identità islamica e della resistenza culturale al dominio britannico [8]. Queste istituzioni riformarono i programmi di studio tradizionali per rispondere alle sfide moderne, mantenendo al centro l’arabo come lingua della scienza religiosa, ma anche integrando nuove materie e approcci pedagogici. Tali processi hanno permesso all’arabo di rimanere una lingua viva, anche in un contesto coloniale ostile, mantenendo una funzione identitaria e comunitaria fortemente radicata.

L’interazione dell’arabo con altre lingue, in particolare il persiano e l’urdu, rappresenta un ulteriore elemento di rilievo. Il persiano fu per secoli la lingua dell’amministrazione e della cultura alta in India, mentre l’urdu nacque come espressione linguistica sincretica, incorporando elementi lessicali e stilistici sia dal persiano sia dall’arabo.

Queste lingue operarono spesso in simbiosi, creando un ecosistema multilingue nel quale l’arabo forniva il lessico religioso e giuridico, il persiano quello poetico e amministrativo, e l’urdu quello comunicativo e quotidiano. Tale trilinguismo ha favorito la diffusione e la longevità dell’arabo, anche tra popolazioni non arabofone, attraverso una mediazione linguistica e culturale continua alla quale si è aggiunto l’inglese in una dinamica di spinta globale.

Dopo l’indipendenza, l’arabo ha conosciuto una nuova vitalità, grazie alla sua introduzione in numerose università indiane, alla domanda crescente da parte dei settori economici collegati ai Paesi del Golfo e alla sua valorizzazione come lingua della diplomazia, della traduzione e dell’industria culturale [9]. Tuttavia, questa espansione ha posto nuove sfide: la formazione di docenti qualificati, l’aggiornamento dei curricula per includere anche l’arabo contemporaneo (giornalistico, economico, tecnico), e la necessità di coniugare l’eredità classica con le esigenze moderne. In molte istituzioni, l’insegnamento dell’arabo resta ancora concentrato sulla grammatica tradizionale e i testi religiosi, con scarso spazio per l’arabo moderno standard o per l’arabo delle varie aree geopolitiche attuali.

Nella visione di Subrahmanyam, la padronanza linguistica è un elemento fondamentale per comprendere le storie globali. Le lingue, sostiene lo studioso, sono più che meri strumenti comunicativi: esse sono archivi mobili di esperienze, contatti e memorie. L’apprendimento dell’arabo, in questo senso, favorisce l’emersione di storie alternative e marginalizzate, sfida le narrazioni monocentriche e costruisce un sapere plurale e decentrato [10].

connected-historiesIl lavoro di Subrahmanyam si colloca in dialogo anche con altri storici della global history, come Sebastian Conrad e Jerry Bentley, i quali sottolineano rispettivamente l’importanza della comparazione transregionale e la necessità di riscrivere la storia mondiale attraverso il prisma degli scambi e delle ibridazioni culturali [11]. Tuttavia, è proprio l’insistenza di Subrahmanyam sull’Asia meridionale come spazio produttivo e non subordinato della storia globale ad offrire uno strumento interpretativo cruciale per comprendere il ruolo dell’arabo in India.

L’India, attraverso la sua relazione storica con l’arabo, non è un’eccezione o una periferia: è un crocevia. Non si tratta allora di chiedersi da dove sia “lontano” l’arabo in India, ma piuttosto di riconoscere che esso ha sempre fatto parte di una mappa culturale e linguistica condivisa, le cui coordinate superano i confini coloniali e geografici.

Nel contesto storico dell’India islamica, la lingua araba ha svolto un ruolo fondamentale come strumento di trasmissione del sapere religioso e scientifico, pur non raggiungendo mai la diffusione popolare del persiano o dell’urdu. Tuttavia, la sua importanza è rimasta costante attraverso i secoli, fungendo da ponte linguistico e intellettuale tra il subcontinente e il più ampio mondo musulmano.

L’arrivo dell’Islam in India non fu un evento unico, ma il risultato di processi plurimi e stratificati, che si svilupparono nel corso di secoli attraverso rotte commerciali, incursioni militari, migrazioni e scambi culturali. I primi contatti risalgono all’VIII secolo, quando mercanti arabi si stabilirono lungo le coste del Gujarat e del Malabar. Nel 712, l’invasione del Sind da parte di Muḥammad ibn Qāsim segnò il primo insediamento islamico duraturo nel subcontinente. Tuttavia, fu con la formazione del Sultanato di Delhi nel XIII secolo che l’Islam cominciò a strutturarsi come forza politica e culturale egemone in ampie zone dell’India settentrionale.

La conquista islamica del subcontinente indiano fu un processo graduale, complesso e fortemente eterogeneo, che si estese su più secoli e coinvolse una molteplicità di dinastie e formazioni politiche [12]. L’inizio può essere fatto risalire all’VIII secolo con la conquista del Sind da parte delle forze arabo-musulmane, ma una vera e propria egemonia islamica si instaurò solo con i Ġaznavidi (977-1186) e soprattutto con i Ġūridi (ca. 1000-1215), i quali estesero il proprio controllo sull’India settentrionale fino ai confini orientali del Bengala. La fondazione del Sultanato di Delhi da parte di un generale mamelucco nel 1206 segnò l’inizio di una nuova fase istituzionale e religiosa, caratterizzata da un governo musulmano autoctono. Le dinastie successive – i Ḫaljī, i Tuġluq, i Sayyid e infine i Lōdī – perseguirono una politica di espansione territoriale e, in alcuni casi, di islamizzazione della popolazione. Tuttavia, a differenza di altre regioni del mondo islamico, l’India non assistette mai a una conversione di massa: l’Islam rimase in gran parte appannaggio delle élite urbane e militari. La frammentazione del potere centrale, acuita dal saccheggio di Delhi da parte di Tīmūr nel 1398, portò alla nascita di numerosi sultanati indipendenti – dal Bengala al Gujarat, dal Kashmir al Malwa – e rese necessaria, nel XVI secolo, un’opera di riunificazione condotta dalla dinastia moghul, inaugurata da Bābur nel 1526.

Il Sultanato fu seguito dall’avvento del potente Impero moghul, la cui affermazione segnò una fase di consolidamento istituzionale dell’Islam, ma anche una straordinaria fioritura culturale e linguistica. I Moghul furono promotori di una politica di tolleranza e sincretismo, specialmente sotto il regno di Akbar (1556-1605), ma anche sostenitori convinti dell’istruzione islamica e della trasmissione del sapere religioso in lingua araba. L’arabo coesisteva, naturalmente, con il persiano, lingua amministrativa dell’Impero, e con l’urdu, che emergeva come forma espressiva popolare. Dopo il declino del potere moghul nel XVIII secolo e la progressiva affermazione del dominio britannico, l’Islam in India entrò in una fase di riorganizzazione, culminata nella nascita di movimenti riformisti come quelli di Dēoband e ‘Alīgarh, che contribuirono alla conservazione e al rinnovamento degli studi islamici e della lingua araba.

Parallelamente allo sviluppo politico e religioso, la ricerca storica e archeologica sull’Islam in India è rimasta per lungo tempo marginale. Solo in epoca moderna, e soprattutto dopo l’annessione del Sultanato di Delhi all’Impero britannico nel 1857, tale studio iniziò a prendere forma come disciplina, anche se spesso condizionata da priorità coloniali e narrative eurocentriche. Questo ritardo è imputabile non solo alla scarsità di risorse materiali e infrastrutturali, ma anche al ruolo ambiguo che l’Islam ha assunto nella costruzione delle identità nazionali di India, Pakistan e Bangladesh. La partizione del 1947 e l’indipendenza del Bangladesh nel 1973 hanno ulteriormente frammentato il panorama della conservazione e dello studio del patrimonio islamico. Ancora oggi, la valorizzazione archeologica dei siti islamici, ad esempio, appare vincolata a dinamiche ideologiche, dove l’eredità islamica è spesso reinterpretata o marginalizzata in funzione dei progetti politici e culturali delle tre nazioni.

defaultNel subcontinente indiano, la presenza della lingua araba ha avuto un ruolo determinante nella strutturazione dell’educazione religiosa e nella produzione letteraria, ponendosi in dialogo con le dinamiche globali del Dār al-Islām. Fin dai primi insediamenti islamici, l’istruzione seguiva il modello comune del mondo musulmano: un sistema centrato sulle scuole delle moschee, aperte all’élite ma anche accessibili alle classi popolari quando le condizioni lo permettevano. Le istituzioni scolastiche erano strumenti di formazione per giuristi, teologi e funzionari statali, e la lingua araba fungeva da veicolo privilegiato per la trasmissione del sapere sacro [13].

Già sotto il regno ġaznavide, a Ġazna, furono fondate scuole e biblioteche accanto alle moschee. In esse insegnarono poeti e studiosi come ‘Unsūr, poeta persiano di corte vissuto nell’XI secolo, attivo durante il regno di Maḥmūd di Ġazna (r. 998-1030) e considerato uno dei massimi esponenti della prima epoca classica della poesia persiana, nonché il poeta laureato (malik al-šu‘arā’) della corte ġaznavide. Quando la capitale si spostò a Lahore, la pratica si estese, segnando l’inizio di una tradizione educativa in cui la lingua araba, sebbene meno diffusa del persiano, manteneva un ruolo essenziale nel contesto teologico e giuridico. Con il Sultanato di Delhi, questa tendenza si consolidò: le scuole Šamsiyya e Nāṣiriyya sotto i ‘sultani schiavi’ divennero celebri, anche grazie all’afflusso di studiosi dall’Asia centrale e dalla Persia in seguito alle invasioni mongole. L’insegnamento delle scienze religiose e razionali, svolto in arabo, era funzionale alla formazione dei qāḍī e dei muftī.

Durante il regno della dinastia Ḫaljī (1290-1320), nonostante il sultano ‘Alā’ al-Dīn Ḫaljī (r. 1296-1316) fosse privo di una formazione scolastica formale, l’ambiente culturale della capitale Delhi rimase straordinariamente dinamico. Il celebre mistico sufi Niẓām al-Dīn Awliyā’ (m. 1325) contribuì attivamente alla diffusione della letteratura religiosa e spirituale, favorendo l’uso dell’arabo nelle madrase e nei circoli intellettuali urbani. In ambito scientifico, il periodo del Sultanato di Delhi vide l’emergere di figure di rilievo nel campo della medicina, le cui competenze si inserivano nella più ampia tradizione della ṭibb yunānī, ovvero la medicina greco-araba fondata su Ippocrate, Galeno, e sistematizzata da Avicenna. Tra i medici di alto profilo si distinsero Badr al-Dīn al-Dimašqī e al-Ǧuwaynī al-Ṭabīb, entrambi attivi tra la fine del XIII e il XIV secolo. Questi studiosi, formatisi in ambienti scolastici di cultura araba e persiana, contribuirono in modo decisivo alla trasmissione del sapere medico nel contesto indo-islamico, non solo praticando la medicina ma anche introducendo testi medici classici nelle scuole e nei centri di studio dell’India del nord.

9780691178196Le loro opere, sebbene in gran parte perdute o ancora da identificare, circolavano probabilmente in lingua araba, come era consuetudine per i trattati scientifici in ambito islamico. La loro influenza si estese alle madrase, dove le scienze della natura (ulūm ṭabī‘iyya) venivano insegnate accanto alle discipline religiose, e alle corti dei sultani, dove i medici fungevano anche da consiglieri e intellettuali. La presenza di questi esperti attestava non solo la ricezione della scienza araba nel subcontinente, ma anche la capacità dell’India musulmana di assimilare, adattare e far evolvere un sapere transregionale in dialogo con le conoscenze locali, comprese quelle sanscrite. Tale processo rese la medicina greco-araba una componente duratura del paesaggio culturale indo-islamico, ben oltre il periodo del Sultanato.

Con l’ascesa della dinastia Tuġluq (1320-1414), la tradizione di sostegno al sapere si intensificò. Il sultano Muḥammad ibn Tuġluq (r. 1325-1351), noto per il suo spirito enciclopedico e la padronanza delle scienze religiose e razionali, trasformò Delhi in uno dei centri di studio più avanzati del mondo islamico. Lo studioso egiziano al-Qalqashandī (m. 1418), nella sua opera Masālik al-abṣār fī mamālik al-amṣār (I percorsi degli sguardi nei regni delle città), testimonia l’esistenza di circa mille scuole nella capitale durante questo periodo. Il suo successore, Fīrūz Šāh Tuġluq (r. 1351-1388), fu autore di Futūḥāt-i Fīrūz Šāhī (Le conquiste di Fīrūz Šāh), un’opera scritta in persiano in cui descrive le sue iniziative politiche, edilizie e culturali. Promosse attivamente l’istruzione e il mecenatismo, sostenendo progetti di traduzione dal sanscrito all’arabo, affidati a studiosi come il lessicografo ‘Azz al-Dīn Ḫāliq Ḫānī, contribuendo così a rafforzare il ruolo della lingua araba come medium intellettuale nel contesto indo-islamico.

Pagina del ‘Aǧā’ib al-maḫlūqāt

Pagina del ‘Aǧā’ib al-maḫlūqāt

Nel XV secolo, centri educativi come Bada’un e Bidar videro la fioritura di scuole sostenute da fondi pubblici e donazioni (awqāf). Nel Deccan, Maḥmūd Gāwān fondò un collegio sontuoso, rafforzando la presenza della lingua araba nelle province meridionali. Tra le figure più rappresentative del mecenatismo e della trasmissione del sapere islamico nel Deccan del XV secolo, Maḥmūd Gāwān (m. 1481), conosciuto anche con il titolo onorifico di Ḫawāǧa Maḥmūd Gāwān nato nella regione di Gīlān, nell’attuale Iran, emigrò in India e divenne wazīr (ministro) presso la corte del sultano bahmanide Muḥammad Šāh III (r. 1463-1482). Uomo di vaste competenze, Maḥmūd Gāwān fu versato nelle scienze religiose, nella filosofia, nell’astronomia e nella poesia, e operò in lingua persiana e araba. La sua opera più significativa fu la fondazione della Madrasat al-Maḥmūdiyya a Bīdar, un centro di istruzione superiore che divenne rapidamente punto di riferimento per gli studi religiosi e razionali nel sud dell’India. L’insegnamento vi si svolgeva in arabo e includeva tafsīr, fiqh, ḥadīth e le cosiddette ‘ulūm al-‘aqlīyya (scienze razionali). Riformatore anche in campo amministrativo, cercò di bilanciare le tensioni tra nobiltà indigena e straniera, promuovendo una politica meritocratica. Accusato ingiustamente di tradimento per via di rivalità di corte, fu giustiziato nel 1481, segnando una fase di crisi per il sultanato bahmanide. La sua figura rappresenta un esempio emblematico dell’integrazione della cultura arabo-islamica in un contesto indiano e della funzione della lingua araba come strumento di alta formazione intellettuale. Con Sikandar Lōdī si accentuò l’importanza delle scienze razionali (ma’qūlāt), accanto a quelle tradizionali (manqūlāt), e il persiano divenne lingua dell’amministrazione, imponendo l’apprendimento formale anche alla popolazione indù. Le scuole musulmane, tuttavia, continuarono a trasmettere i testi fondamentali in lingua araba.

Durante il periodo moghul, l’educazione assunse una forma più eclettica. I primi sovrani moghul, da Bābur a Humāyūn, sostennero l’istruzione tramite la costruzione di scuole e biblioteche. Humāyūn fece costruire un osservatorio e progettò strumenti come l’astrolabio. Akbar, noto per la sua visione eclettica, introdusse un curriculum comprensivo di scienze naturali, filosofia, storia, teologia e letteratura. Le sue riforme spostarono la scuola fuori dal contesto esclusivamente religioso, fondando anche scuole femminili come quella di Māham Anga. Jahāngīr utilizzò fondi ereditari per costruire e restaurare istituti scolastici. Šāh Jahān legò un college alla moschea di Delhi e sviluppò Sialkot come centro accademico. Awrangzīb fondò numerose scuole, incluse la Madrasa-i Raḥīmiyya e il seminario Farangī Maḥall. Sotto di lui, l’istruzione teologica raggiunse livelli significativi, con borse di studio e tentativi di penetrazione educativa tra le comunità indù.

Akbar sostenne un modello inclusivo che integrava insegnamenti scientifici, filosofici e religiosi. Il suo consigliere, Fatḥ-Allāh Šīrāzī, introdusse nel curriculum testi arabi di autori come Dawānī, Mullā Ṣadrā e Mīrzā Jān. L’arabo rimase la lingua privilegiata per la teologia, il diritto islamico e l’esegesi coranica (tafsīr). Shah Jahān promosse studi teologici avanzati a Sialkot, dove ‘Abd-al-Ḥakīm Siyālkotī si distinse per i suoi commentari arabi su opere di al-Bayḍāwī e al-Taftāzānī. Sotto Awrangzīb, si assistette a una rinnovata enfasi sull’educazione religiosa e sull’uso dell’arabo come mezzo di conservazione dell’ortodossia islamica. La fondazione della Madrasa-i Raḥīmiyya da parte di ‘Abd-ar-Raḥīm, padre di Šāh Walī-Allāh, contribuì alla rinascita dello studio degli ḥadīṯ.

Nel periodo post-moghul e durante l’espansione coloniale, l’istruzione araba si adattò alle nuove sfide. Le scuole teologiche come Farangī Maḥall (fondata da Muḥammad Sahālawī) e Deoband continuarono a basare il proprio curriculum sul dars-i Niẓāmiyya [14], che includeva grammatica e sintassi araba, giurisprudenza, logica e ḥadīṯ. Maḥmūd al-Ḥasan, guida intellettuale di Deoband, strinse legami con al-Azhar e favorì lo sviluppo di scuole teologiche nelle regioni di confine. La Nadwat al-‘ulamā, fondata nel 1894, si collocò a metà strada tra tradizione e modernità, pubblicando in arabo riviste come «al-Ḍiyā» (La luce/Lo splendore) e mantenendo contatti con intellettuali egiziani come Rašīd Riḍā.

Manoscritto dell'opera di al-Bīrūnī

Manoscritto dell’opera di al-Bīrūnī

Anche nella produzione letteraria, la lingua araba ebbe un ruolo di rilievo. I primi esempi risalgono al Sind omayyade, dove fu composta Minhāǧ al-masālik (La via dei percorsi), poi trasposta in persiano. A Ġazna, Abū-Rayḥān al-Bīrūnī (973-1050) scrisse Taḥqīq mā li al-Hind min maqūla maqbūla fī al-‘aql aw mardhūla (lett. Esame critico di ciò che si afferma in India, accettato o rifiutato dalla ragione, conosciuta come Storia dell’India), un’opera fondamentale per la conoscenza dell’India antica. Nel XIII secolo, Raḍī al-Dīn al-Ṣaghānī (morto dopo il 1250), lessicografo e studioso di scienze religiose, fuggito da Bagdad, compose a Delhi opere come Mašāriq al-anwār (I luoghi del sorgere delle luci), Risāla fī al-aḥādīṯ al-mawḍū‘a (Trattato sulle tradizioni false) e Kitāb al-‘ubāb (Il libro dell’onda impetuosa; metafora per abbondanza di sapere), dizionario enciclopedico che segna l’inizio di una tradizione erudita indiana in lingua araba.

Tra i principali intellettuali arabofoni dell’India islamica medievale si distinguono figure come Ibn Tāj, attivo alla corte dei Ḫaljī nel XIV secolo e autore di trattati di teologia e mistica in lingua araba. A lui si affianca Šihāb al-Dīn Multānī, noto per la sua opera esegetica e per aver ricoperto incarichi religiosi e didattici durante il regno dei Tuġhluq. Il teologo e sufi Sirāǧ al-Dīn al-Hindī, attivo nel XIV secolo, raggiunse fama tale da essere nominato qāḍī del Cairo, a testimonianza del prestigio internazionale degli ‘ulamā’ indiani formati in lingua araba. Al Sud, ‘Alī ibn Aḥmad al-Mahā’imī (m. 1431 ca.), originario del Gujarat ma attivo a Bombay, compose in arabo il celebre Tafsīr rāḥat al-arwāḥ (Commentario del sollievo degli spiriti), un commentario coranico influente in ambito mistico. A lui si collega la figura di Zayn al-Dīn al-Ma‘barī (m. 1521), appartenente alla scuola šāfi‘ita del Tamil Nadu [15], autore di testi giuridici e sufici come Fatḥ al-mu‘īn (La vittoria del soccorritore), ancora oggi studiato nelle madrase del Kerala e dello Sri Lanka. Questi studiosi testimoniano la continuità e la vitalità della cultura arabo-islamica in contesti regionali diversi dell’India premoderna.

Nel XVII secolo, Šāh Walī Allāh al-Dihlawī (1703-1762) si distinse come uno dei massimi pensatori islamici dell’India, componendo in lingua araba opere fondamentali che segnarono profondamente il pensiero religioso indo-islamico e oltre. Tra i suoi testi più celebri si annoverano Ḥuǧǧat Allāh al-bāliġa (La prova convincente di Dio), trattato teologico e sociologico che interpreta la šarī‘a come espressione razionale dell’ordine divino; al-Musawwā (L’equilibrato), un commentario giuridico su al-Muwaṭṭa’ di Mālik ibn Anas, e al-Tafhīmāt al-lāhiyya (Le illuminazioni divine), opera mistico-filosofica basata su esperienze spirituali e intuizioni rivelate.

Nel XVIII secolo, Ġulām ‘Alī Āzād Bilgrāmī (1704-1786), raffinato prosatore e poeta, e Murtaḍā ‘Alī al-Zabīdī (1732-1790), lessicografo formatosi tra India, Yemen ed Egitto, contribuirono al prestigio della lingua araba. Quest’ultimo è noto per il suo Tāǧ al-‘arūs min ǧawāhir al-Qāmūs (La corona della sposa tratta dai gioielli del Qāmūs), uno dei dizionari enciclopedici più completi della lingua araba, basato su al-Qāmūs al-muḥīṭ (Il dizionario comprensivo) del lessicografo persiano al-Fīrūzābādī. In epoca moderna, intellettuali come Abū al-Al‘ā Mawdūdī (1903-1979) e Abū al-Ḥasan ‘Alī al-Nadwī (1914-1999) continuarono la tradizione della scrittura in arabo: le loro opere teologiche, sociopolitiche e pedagogiche – tra cui al-Mustaqbal li hādhā ad-dīn (Il futuro di questa religione) e Māḏā ḫasira al-ā‘lam bi-inḥiṭāṭ al-muslimīn (Che cosa ha perso il mondo con il declino dei musulmani) – furono tradotte e lette in tutto il mondo arabo. In questo lungo arco temporale, la lingua araba, pur restando minoritaria rispetto al persiano e all’urdu nell’India musulmana, ha rappresentato il vettore privilegiato dell’autorità religiosa, della trasmissione dottrinale e del legame intellettuale con il resto dell’ecumene islamica.

81vpgcytf1l-_ac_uf10001000_ql80_Dopo l’indipendenza del subcontinente indiano e la nascita degli Stati nazionali di India e Pakistan, l’evoluzione dell’educazione musulmana prese due traiettorie distinte. In Pakistan, l’eredità delle politiche coloniali britanniche continuò a esercitare una forte influenza, ma si avviò gradualmente un processo di islamizzazione del sapere, culminato in varie riforme curricolari e nella creazione di istituti religiosi di livello universitario. Uno dei più influenti fu l’Istituto di Studi Islamici dell’Università del Punjab, fondato a Lahore nel 1950. Quest’ultimo promosse la produzione accademica in lingua araba e diede impulso alla traduzione e diffusione di testi islamici classici e contemporanei in urdu e inglese.

In parallelo, istituzioni come la Ǧam‘iyyat al-‘ulamā’ al-Islām (Associazione degli studiosi islamici) e il movimento Ǧamā‘at-i Islāmī (Comunità islamica), fondato da Abū al-A‘lā Mawdūdī (1903-1979), giocarono un ruolo fondamentale nella ridefinizione dell’educazione islamica nel subcontinente indo-pakistano. Questi organismi si proposero di integrare la trasmissione del sapere religioso tradizionale con l’urgenza di elaborare una risposta coerente alle sfide poste dalla modernità, dalla secolarizzazione e dall’egemonia culturale occidentale. Mawdūdī fu autore di numerose opere di impianto sistematico e riformista, molte delle quali vennero tradotte in arabo, urdu e inglese, contribuendo a diffondere la sua visione anche al di fuori dell’Asia meridionale. Tra le più influenti vi sono Tafsīr al-Qur’ān (più precisamente Tafhīm al-Qur’ān [Spiegazione del Corano]), un commentario che combina esegesi classica e analisi sociopolitica, e al-Ḥilāfa wa al-mulūk (Il califfato e i re), in cui l’autore distingue tra il modello ideale di governo islamico e le degenerazioni monarchiche storiche. Le sue riflessioni contribuirono a rinnovare la discussione sull’etica pubblica, la sovranità e la legittimità del potere nell’Islam contemporaneo, segnando un punto di svolta nella teoria politica islamica del XX secolo.

Nel frattempo, in India, l’istruzione musulmana subì un progressivo processo di marginalizzazione, in parte a causa di politiche scolastiche e linguistiche che privilegiavano l’hindi e l’inglese come lingue ufficiali d’insegnamento, relegando l’urdu — un tempo lingua veicolare della cultura indo-islamica — a uno status minoritario. Nonostante ciò, alcune istituzioni tradizionali continuarono a svolgere un ruolo rilevante nella formazione religiosa e culturale, tra cui le già citate Dār al-‘ulūm di Dēoband, il Nadwat al-‘ulamāʾ di Lucknow e la Ǧāmi‘a Milliyya Islāmiyya (Università nazionale islamica), fondata nel 1920 con intenti riformatori e nazionalisti. Quest’ultima, sotto la direzione di Zākiy al-Dīn Ḥusayn (1897-1969), noto come Zakir Ḥusayn, futuro presidente della Repubblica dell’India, cercò attivamente di armonizzare l’identità islamica con i valori del nazionalismo laico e pluralista promosso dal movimento per l’indipendenza. La sua visione educativa si fondava sull’idea che lo spirito islamico potesse esprimersi attraverso discipline moderne come la storia e la sociologia, viste come strumenti di emancipazione intellettuale e di partecipazione critica alla costruzione della nuova nazione indiana.

Tra le riviste accademiche in lingua araba che fiorirono nel subcontinente indo-pakistano nel XX secolo vanno ricordate: «al-Bayān» (L’espressione), «al-Ǧāmi‘a» (L’università), diretta da Abū al-Kalām Āzād, e «al-Ḍiyā’» (La luce), organo ufficiale del Nadwat al-‘ulamā’. Queste pubblicazioni non solo diffusero idee riformiste, ma contribuirono anche al rafforzamento di un’identità islamica globale attraverso la lingua araba.

Negli anni successivi alla creazione del Pakistan, anche l’Università di Karachi e la Jamia Ashrafia di Lahore contribuirono in modo rilevante alla formazione di un clero istruito, capace di affrontare le questioni contemporanee con strumenti teologici e filosofici aggiornati. L’opera di traduzione e sistematizzazione del pensiero islamico classico in arabo e urdu fu portata avanti anche da Abū al-Ḥasan ‘Alī Nadwī, i cui scritti, come Māḏā ḫasira li al-‘ālam bi inḥiṭāṭ al-muslimīn? (Cosa ha perso il mondo con il declino dei musulmani?), hanno avuto una notevole risonanza nel mondo arabo.

La politica educativa del Bangladesh, formatosi nel 1971, tentò una sintesi tra secolarismo e tradizione. Istituzioni come l’Università Islamica di Kushtia cercarono di mantenere l’insegnamento delle scienze religiose in arabo e urdu, pur introducendo curricoli scientifici e umanistici. Nel frattempo, la crescente influenza dei paesi del Golfo portò numerosi studenti bangladesi a studiare in Egitto e in Arabia Saudita, rinvigorendo così il legame culturale e linguistico con il mondo arabo.

Negli ultimi decenni, l’emergere delle tecnologie digitali ha portato a un’ulteriore trasformazione dell’educazione musulmana nel subcontinente. Portali online, riviste accademiche digitali e piattaforme di apprendimento a distanza offrono oggi corsi di tafsīr, ḥadīṯ, fiqh e teologia in arabo, urdu e inglese, con docenti provenienti da tutto il mondo islamico. Tale globalizzazione del sapere religioso apre nuove opportunità ma pone anche sfide in termini di qualità, ortodossia e controllo dei contenuti.

Dopo il 1947, la lingua araba ha trovato in India un terreno sorprendentemente fertile per la sua evoluzione, ben oltre i limiti della pratica religiosa [16]. L’indipendenza, pur segnando una rottura con il passato coloniale, non ha interrotto la continuità dell’interesse per l’arabo, anzi ha favorito l’emergere di un nuovo protagonismo accademico e culturale. L’istituzione di dipartimenti universitari dedicati alla lingua e alla letteratura araba, così come il consolidamento delle madrase in ogni parte del Paese, ha dato vita a una rete di formazione che ha prodotto una nuova generazione di studiosi e intellettuali, capaci di contribuire al sapere islamico e alla produzione letteraria con opere che si collocano pienamente nel dibattito internazionale.

Jama Masijd di Delhi

Jama Masijd di Delhi

Parallelamente, si è assistito a un’apertura inedita della lingua araba verso ambiti non religiosi e a un’espansione del suo insegnamento anche tra i non musulmani. Le università e i centri linguistici indiani hanno saputo cogliere le nuove esigenze del mercato globale, offrendo corsi di arabo applicati alla traduzione, all’economia, alla diplomazia e al turismo. In questo contesto, l’arabo ha cessato di essere percepito esclusivamente come lingua sacra, assumendo sempre più il volto di una competenza professionale strategica. Questo mutamento ha permesso alla lingua di attraversare le barriere religiose e culturali, affermandosi come ponte tra l’India e il mondo arabo.

Le madrase, pur rimanendo saldamente ancorate alla trasmissione del sapere religioso tradizionale, hanno anch’esse assunto un nuovo profilo. L’ampliamento dei curricula, che oggi includono anche l’inglese, l’hindi e l’urdu, ha reso queste istituzioni strumenti di promozione linguistica e di alfabetizzazione trasversale. In molte regioni dove l’offerta scolastica statale è limitata, le madrase rappresentano l’unico presidio educativo, e il loro impatto si misura anche nella crescente presenza di studenti non musulmani. Questa partecipazione interconfessionale testimonia il ruolo trasformativo di tali istituzioni, capaci di servire non solo una comunità religiosa, ma la società indiana nel suo insieme.

Guardando al futuro, è evidente che l’arabo in India non solo manterrà la sua vitalità, ma ne vedrà probabilmente accrescere l’importanza. La crescente domanda di professionisti competenti in arabo, alimentata da interessi geopolitici, scambi commerciali e cooperazione internazionale, configura una traiettoria di sviluppo promettente. Non si tratta più soltanto di salvaguardare una lingua legata alla tradizione islamica, ma di investire in una competenza globale. Così l’arabo in India si configura oggi come una lingua viva, in espansione, portatrice di storia e di futuro. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Note
[1] M. D. Baer, Gli ottomani, Einaudi, Torino 2023: 180-1.
[2] S. Subrahmanyam, Explorations in Connected History: From the Tagus to the Ganges, Oxford University Press, New Delhi 2002: 14-19.
[3] S. Subrahmanyam, Connected Histories, Verso, London 2022: 45-47.
[4] D. Bredi, Storia della cultura indo-musulmana, Carocci, Roma 2006: 19.
[5] T. Qutbuddin, Arabic in India: A Survey and Classification of its uses, Compared with Persian, «Journal of the American Oriental Society» , 127.3, 2007: 315-338.
[6] Cfr. S. Conrad, What is Global History?, Princeton University Press, Princeton 2016.
[7] M. Rahman, Arabic in India: Past, Present and Future, «Language in India», 14, 2014: 290-306.
[8] H. Hasanuzzaman, Development of Arabic Studies in India, «Journal of Humanities and Social Science», 1, 2012: 1-7.
[9] Arabic in India: 296-299.
[10] Connected Histories: 105-108.
[11] Si vedano oltre al testo di Conrad citato sopra, J.H. Bentley, Old World Encounters: Cross-Cultural Contacts and Exchanges in Pre-Modern Times, Oxford University Press, New York 1993 e J. H. Bentley (ed.), The Oxford Handbook of World History, Oxford University Press, Oxford 2011.
[12] Sulla storia della conquista islamica e il periodo preso in considerazione nel presente articolo il lettore italiano può consultare: T.R. Trautmann, La civiltà dell’India, Il Mulino, Bologna 2011: 161-235; D. Ludden, Storia dell’India e dell’Asia del Sud, Einaudi, Torino 2011; D. Bredi, Storia della cultura indo-musulmana, Carocci, Roma 2006.
[13] La ricostruzione si basa sui seguenti volumi: A. Ahmad, An Intellectual History of Islam in India, Edinburgh University Press, Edinburgh 1969: 52-71; R.M. Eaton (ed), India’s Islamic Traditions 711-1750, Oxford University Press, New Dehli 2003; R.M. Eaton, India in the Persianate Age 1000-1765, Penguin Books, London 2020.
[14] Il Dars-i Niẓāmiyya è un curriculum tradizionale di studi islamici elaborato nel XVIII secolo da Mullā Niẓām al-Dīn al-Sihālawī a Lucknow, in India. Esso rappresenta una sintesi organica delle scienze religiose e razionali, combinando lo studio del fiqh ḥanafī, della teologia māturīdī, della lingua araba, della logica e della filosofia, secondo l’impostazione dell’Islam classico indo-persiano. Nato nel contesto della scuola di Farangī Maḥall, il Dars-i Niẓāmiyya si diffuse in tutto il subcontinente indiano, diventando il modello formativo dominante nelle madrase sunnite. Sebbene in origine privilegiasse la formazione logico-linguistica rispetto allo studio sistematico del ḥadīth e del tafsīr, ha costituito per secoli l’ossatura intellettuale della formazione degli ‘ulamā’ dell’Asia meridionale.
[15] Sulla presenza islamica nel Tamil Nadu si vedano gli studi di D. Shulman in More Than Real: A History of the Imagination in South India, Harvard University Press, Cambridge MA 2012.
[16] Fatti e dati sono ripresi da Arabic in India: 289-99. Sulla situazione linguistica dell’India contemporanea si veda A. Iyer Mitra, Bharat riscopre il vernacolo, «Limes », 8, 2024: 81-92. 

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Alessandro Perduca è un anglista e germanista di formazione, con esperienza universitaria di insegnamento e ricerca. Si è occupato di letteratura inglese premoderna, moderna e contemporanea in diversi interventi e articoli. Si interessa di storia delle idee in chiave comparatistica e interculturale. Ha all’attivo contributi e studi su Shakespeare, la poesia romantica, Conrad, Auden e Heaney, oltre a numerose traduzioni. Ha tradotto Le ali spezzate di Kahlil Gibran per le Edizioni San Paolo e pubblicistica in lingua tedesca nel campo della teologia e delle scienze dell’antichità. Docente di lingua e cultura inglese nella scuola secondaria, lavora attualmente presso il liceo classico statale «Salvatore Quasimodo» di Magenta (MI).

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