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L’Oceania dei rifugiati. Il limbo dell’attesa dei richiedenti asilo

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2018 @ 01:30 In Interviste,Migrazioni | No Comments

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Recinzione del campo profughi a Manus (Australia)

di Valeria Dell’Orzo 

«La figura dello straniero non sta ferma, inquadrata in una categoria. La sua – e la nostra – eventuale staticità è un’illusione: coinciderebbe ancora una volta con il tentativo da parte del ‘noi’ di marginizzarlo, di ridurne l’essenzialità. La sua mobilità corrisponde del resto alla mobilità del ‘noi’; è anzi, la traduzione quasi visiva della continua modificabilità dei rapporti tra noi e gli altri. Difficilmente una società può continuare a tenere a lungo i propri stranieri in una categoria immobile di pura estraneità» (Remotti 2013: 100).

Quelle barricate, che ergiamo per separarci dall’altro, diventano insostenibili da entrambe le parti non appena il contatto si concretizza, come è fortunatamente inevitabile che sia, e finiscono col palesarsi come una mortificazione per quella stessa cultura che si pretende di preservare intonsa e cianotica.

Continuare a portare avanti delle politiche di esclusione sociale nel contesto di un’umanità diffusa e mobile, mostra sempre la pericolosità di un meccanismo di cieca difesa, di finta difesa poiché immotivata, che altro non è se non la strumentalizzazione binaria della realtà della migrazione e delle masse disorientate dall’incalzare propagandistico della paura, per racimolare consensi, stringere accordi economici, giustificare ammanchi, urlare slogan dalla grammatica distorta quanto i concetti che vi si spingono dentro, ma capaci di distrarre l’attenzione dalla mancanza di progetti e di proposte che dovrebbero invece orientare le scelte dei votanti.

Il risultato sociale di questo continuo rinfocolare di tensioni si traduce nel terreno fertile della disperazione e della devianza, dell’alienarsi da quel mondo esterno che invece di mescolarsi e conoscere ha voluto segregare, esiliare, respingere entro zone di margine e estromissione sociale.

Il camminare dell’uomo, insito nella sua realtà filogenetica e storicamente strutturato secondo quelle rotte che nei secoli hanno popolato il globo e delineato i nostri tratti somatici e culturali, si scontra sempre più ferocemente con un senso ottuso della territorialità, generando grappoli di esuli abbarbicati lungo i confini e i fili spinati delle geografie ridisegnate da questo sesto continente umano in movimento.

La necessità di fuggire, la spinta che muove tante vite verso un salto nel buio, spaventoso e disperato, a fronte dell’impossibilità di portare avanti la propria esistenza, e quella dei propri figli, in un luogo che il disordine geopolitico ha reso invivibile e opprimente, questa aspirazione alla vita e ad un diverso destino viene umiliata e mortificata, nei Paesi di arrivo, dall’ottusa politica delle carte, dei numeri, dei cavilli giuridici. Così che il diritto alla esistenza e alla determinazione della propria sorte si trasforma nel riflesso politico e burocratico di un fastidio da arginare, di un problema da risolvere rimuovendolo dall’orizzonte della cronaca del presente e dallo sguardo della opinione pubblica.

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Rifugiati e recinzioni (ph. Behrouz Boochani)

Sui media si parla molto, spesso senza reale conoscenza dei fatti, dei fenomeni migratori che interessano la zona mediterranea: ogni giorno cifre e dati, il più delle volte non veritieri, approssimativi e faziosi, vengono elargiti come promemoria di una realtà che è comodo plasmare in problema. Ma la dimensione migratoria, storicamente legata all’uomo, è ben più ampia e solca acque e terre lontane, di cui si parla poco e nelle quali si articolano quelle stesse pratiche inumane alle quali siamo tristemente abituati. I centri italiani – ma non solo – in cui sospendiamo il tempo del vivere di uomini, donne e bambini ai quali non viene riconosciuto, sulla base di parametri e analisi fattuali incapaci di valutare la condizione personale di ciascuno, il diritto di rimanere, di transitare, di mettersi in salvo da condizioni tanto difficili da motivare i rischi più indicibili di migrazioni disperate, non differiscono molto dai centri che si trovano dall’altra parte del Mondo.

Geograficamente lontano e mediaticamente ovattato dalla distanza, anche il continente oceanico è coinvolto in quel movimento migratorio intorno al quale tanto si agitano le politiche europee. L’Australia, la potenza principale del continente, per economia e estensione, ha fatto di Christmas Island, della Micronesia e della Papua Nuova Guinea i suoi avamposti antimigratori. Le tre isole, la prima appartenente all’Australia, si trova a sud dell’Indonesia, circondata dai flutti dell’Oceano indiano, ha una superficie di 135 km² e una popolazione di circa 14 mila abitanti; la piccolissima Nauru, 13 mila abitanti in poco più di 21 km², circondata dall’Oceano Pacifico Meridionale e brutalmente aggredita dall’indiscriminata estrazione del fosfato solido, scoperto dagli inglesi alla fine del diciannovesimo secolo, che l’ha resa oggi un mucchio di terra arida e calcarea sperduta nell’oceano; e l’isola vulcanica di Manus, 2.100 km² in prevalenza coperti dalla giungla, al largo del Mare di Bismarck e affacciata sul Pacifico, sono divenute il luogo di uno straziante stallo, una sospensione della vita che da anni coinvolge centinaia di persone.

Saltata agli occhi dell’opinione pubblica, dopo anni di indifferente silenzio, l’ONU e altre organizzazioni mondiali di tutela hanno chiesto all’Australia e alla Papua Nuova Guinea di rivedere la loro condotta e rispettare i diritti umani, in specie quelli sanciti a livello internazionale in materia di richiesta dell’asilo politico, princìpi come è noto dalla Dichiarazione di Parigi del 1948 e dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951. A seguito delle pressioni internazionali l’Australia ha dunque predisposto la ricollocazione [1] dei richiedenti asilo secondo quella che appare come una reclusione morbida, e il 31 Ottobre ha ufficialmente chiuso i centri detentivi dove erano stati reclusi. Il passaggio però alle altre strutture non è stato privo di contestazioni, di timori da parte dei rifugiati e di violenze da parte dei militari che hanno infine sgombrato e demolito i campi con la forza, dopo aver interrotto acqua, luce e altre forme di doveroso sussidio come l’accesso all’acqua potabile, alle cure mediche e il rispetto di basilari norme igienico-sanitarie.

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Behrouz Boochani

Un anno fa, a febbraio 2017, a molti richiedenti asilo sono state offerte, dal Dipartimento per l’immigrazione austra- liano, ingenti somme di denaro [2], ben superiori a quelle che convenzionalmente  si associano ai rientri volontari, e accompagnate da pressioni e insistenze degli operatori, affinché le accettassero per far ritorno nei loro Paesi d’origine. Tutto questo nel disprezzo della garanzia della sicurezza umana, insita nel diritto di richiedere asilo politico, negando di fatto l’effettiva necessità che li ha spinti a tentare la fuga verso l’Australia. Quanto è accaduto, quanto sia costata l’attuazione di tale politica non risulta da alcuna dichiarazione del governo australiano, ma solo dalle testimonianze dei rifugiati e dalle stime effettuate da Save The Children e Unicef nel 2016 e relative al triennio precedente.

L’offerta non è stata accolta dai rifugiati, a riprova dell’effettivo pericolo cui li esporrebbe un rientro in patria. Negli ultimi giorni alcuni richiedenti asilo, attualmente detenuti sull’isola di Manus, hanno ricevuto una lettera dal governo della Papua Nuova Guinea, nella quale viene loro comunicato che non vengono riconosciuti come rifugiati, verranno dunque condotti fuori dall’isola che attualmente li detiene ma, in un paradosso disarmante, non saranno riportati nei Paesi di origine a causa del rischio – quindi appurato e riconosciuto – che lì vengano perseguitati; ad altri richiedenti asilo è stata aperta la possibilità di un trasferimento e un’accoglienza negli Stati Uniti, i quali però escludono i curdi dalla lista di rifugiati ammessi entro i loro confini.

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Rigugiati nel campo (ph. Behrouz Boochani)

Behrouz Boochani è uno di loro. È un giornalista curdo, fuggito dalla Siria per salvarsi dalla repressione che aveva già coinvolto parte della sua redazione e finito intrappolato nelle maglie burocratiche dell’arida gestione utilitaristica dei fenomeni migratori, recluso senza colpa, lui come gli altri rifugiati richiedenti asilo respinti dall’Australia, su un’isola che annulla il tempo e esaspera la distanza con il mondo libero. Behrouz ha accettato di raccontarmi la sua storia, di parlarmi delle dinamiche interne al campo di reclusione, della visione da vicino di questa realtà di alienazione forzata, in un lungo scambio di messaggi, intervallati dal silenzio dei giorni di agitazioni e dalla difficoltà di accedere alla rete.

«The situation getting change after the government sent us out by force, we have been living in three new camps on the island. We still feel suffering because we feel we are in a limbo situation, it’s really hard to live in a place that you don’t know what will happen for you and when you get freedom. “War zone” was a word that I was using for those 23 days that we are under too much pressure to leave the prison camp and I think it’s better we use “limbo” for describe the new situation. There are many refugees on Manus that they are fathers and are have not been able to see their wives and childrens, it’s a big torture for a father to be separate with his children and wife».
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Il campo dopo una incursione della polizia (ph. Behrouz Boochani)

Inizia così il racconto, con una rapida carrellata sulla condizione più recente, il passaggio tra i giorni della protesta in occasione dello svuotamento del campo di detenzione, la “zona di guerra”, e gli ultimi giorni, il “limbo”, come significativamente descrive questa nuova condizione, più agevole, ma non meno angosciante. Ricevo da lui notizie più chiare di quelle diffuse dal governo circa la provenienza dei vari rifugiati reclusi lì: solo uomini a Manus; donne, bambini e alcuni nuclei familiari sono invece bloccati a Nauru e a Christmas Island. Tra le difficoltà maggiori nel documentarsi sui centri detentivi per rifugiati, non solo nella lontana Oceania, c’è proprio la mancanza di informazioni attendibili, non taciute ma ridotte o enfatizzate per restringere il campo di azione degli osservatori esterni e le reazioni dell’opinione pubblica interna, mascherando la censura con una sbrigativa superficialità istituzionale: 

«The refugees on Manus have different ages, backgrounds and nationalities. There are people as young as 22 or 23 years old and also old people in their 50 or 60. Most refugees are from the Middle Eastern counties like Iran, Afghanistan, Iraq, Kurdistan. We have also people from Pakistan, Srilanka, Bangldesh, Rohingya people, and some from Sudan and Somalia.
Most refugees left their countries because of war, persecution and discrimination. They had well-founded fear of being persecuted in the countries they fled from. Their life were in grave danger and all came to Australia to seek asylum based on the refugee convention. They have had right to seek asylum and it’s worth-mentioning that Australia is a signatory to the 1951 refugee convention and has obligation to protect them.
The Australian government always spreads propaganda against us to image us as dangerous people to the Australians, because their political benefits are in this matter. It’s all about politics. We are not dangerous people, we are same as other people in Australia or other parts of the world. Also the Australian government always says that if we let the refugees in Manus and Nauru free, boats will start coming to Australia again. It’s completely untrue because the main reason for no boat arrivals is not to keep people on the islands, it’s because of the turn back policy which returns boats to the countries of departure started in 2013, they are spreading this kind of propaganda because and only because keeping us on the islands has political benefits for them.
Actually the refugees are very disappointed with the media, many journalists and media has been working on Manus refugees plight on pas five years but nothing change and that has impact on the refugees negatively. Its natural feeling because important thing for the refugees is that when they get freedom. Unfortunately the government did not change this policy even when sometimes is under too much pressure and always can survive and continue to this harsh policy on bas of propaganda. The media most of time are a part of the system and are following the government propaganda. The main stream media on Australia are silent and don’t try to publish the news in a way that the government change its policy. There is a systematic censorship about Manus and Nauru refugees plight».
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Manifestazione di protesta, 18 settembre 2017 (ph. Behrouz Boochani)

Behrouz mi descrive quella “zona di guerra” accennata all’inizio, le cause e i giorni della rivolta, durante i quali alle violenze subìte si accompagnava la sospensione di luce, acqua potabile, servizi sanitari, e l’approvvigionamento delle derrate alimentari destinate ai rifugiati. Spiega i motivi del loro rifiuto di lasciare il campo, anche questo mediaticamente distorto nella paura di presunte ostilità e ritorsioni da parte della popolazione locale, esasperata, sì, ma non da una smania “sovranista” di respingere chi non fa parte della loro comunità, una comunità già multietnica, figlia delle dominazioni, del colonialismo e dello sfruttamento del territorio, ma in maniera ben più pratica esacerbata dalle difficoltà oggettive causate dalla presenza di affollati campi detentivi privi, entro l’angusto perimetro abitabile e coltivabile dell’isola, di adeguate condizioni quali una rete fognaria e servizi igienico-sanitari che garantiscano la sicurezza di tutti e la salubrità dei raccolti:

«We were under too much pressure for long time to leave the prison but we were refusing. We started a big and remarkable resistance after 23 October and could stay there for 23 days. We were reusing because we wanted that the world hear our voice and we were struggling to get freedom but I think there is some misunderstanding. The media or people who are following our issue think we were refusing to come out because of safety or the new camps were not ready. It’s not true because our resistance was to get freedom. We have been so tired from being in prison but the Australian government insist to keep us in an indefinite detention.
These days we are living in three different prison camps that are close to local community. East Lorengau camp is better prison camp but other places Hillside and Westhouse are not ready yet and people are living in a bad situation. About 140 people are living in Hillside House and all of them got negative refugee status in a very unfair process. They are under too much pressure to go back to their countries. Also we have some hygiene problems and there are not enough hygiene facilities. Hillside and Westhouse are very crowded and its make the situation harder. Also we have problem with some landowners. The landowners are very angry at Australia and Papua New Guinea governments and are thinking that the government does not treat them fairly. They blocked the prison camps gates several times and we were living in an unsafe situation.
The Manusian local people are very kind people and are welcoming refugees but its not mean they are agree with accepting the refugees in their small community. We have had so many bad experiences in relationship together that the main reason is because of Australian government. The government created fear between both community and makes the situation scary. Manusian people are angry at Australia because they don’t respect their culture and are treating them on base of colonial thinking. The Manusian population is small with a tribal cultural system, their society does not have this capacity to accept the refugees. There are only 30000 people and we are 700 people, it’s like that you released 50000 people in a city with 200000 population, what will happen? I mean its impossible to settle 700 refugees in Manus. Also the new camps are located very close to their villages and it makes problem. The Manusian people are victim as much as the refugees. They did several protest during that time we were refusing to come out because they are absolutely against sending people to their small community».
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Lettera ai rifugiati (ph. Behrouz Boochani)

Lo scambio di messaggi continua, Behrouz descrive il processo attraverso il quale, a seguito delle pressioni dell’ONU, è stato attribuito o negato lo status di rifugiati, interviste, o forse è meglio definirli interrogatori, veloci, pressanti, effettuati dopo lunghe e estenuanti attese trascorse in quella sospensione alienante che il campo di detenzione rappresenta, alcuni dei rifugiati hanno così visto negata la loro richiesta di aiuto, hanno visto vanificarsi tutti i rischi e i patimenti che un percorso di migrazione, di fuga, comporta:

«Most of people on Manus recognized as refugee but there are about 130 people, that got negative status and right now are under too much pressure to go back to their countries.
These people have processed in an unfair way because they processed them while they were under too much pressure. They were not in a normal situation because of too much stress and trauma. Also many of them refused to give case to Papua New Guinea and actually the system is punishing them by giving them negative status. How they are saying they are not real refugee despite they did not process them? The government instead to put pressure on them give them a chance to be a part of American process, It’s their rights to start a new life after near five years suffering.
It seems America is taking refugee according their nationality. They accepted about 80 people until now that are from Afghanistan, Pakistan, Rohingya, but did not take any Kurd yet. We don’t know will they accept Kurds or not. We should wait.
I hope that America be serious with the deal and take all of the refugees from the island out. Unfortunately, the deal is working so slow and we don’t know when they will send people to America».
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Rifugiati (ph. Behrouz Boochani)

La conversazione continua approfondendo un altro drammatico aspetto di questi campi detentivi: la penuria di cure mediche e la mancanza di sostegno psicologico e cure psichiatriche di cui alcuni rifugiati, traumatizzati, esasperati dalla reclusione, dalla negazione dei loro diritti, terrorizzati da viaggi disperati e dagli orrori dai quali sono fuggiti, avrebbero bisogno e per i quali dovrebbe essere garantito come elementare diritto. «I detenuti sono generalmente assai inclini al suicidio» – dimostrano le argomentazioni di Durkheim (2008: 409) – è evidente quanto la detenzione in assenza di una colpa da espiare sia maggiormente alienante, snervante e mortificante, e quindi quanto più attente dovrebbero essere le prestazioni sanitarie di sostegno, qualora si intendesse fattivamente garantire l’immunità dei rifugiati dei campi:

«Many people have been damaged physically but the main health issue is the refugees who are with psychological issues. IHMS [3] company has been putting the refugees through a fake medical treatment and has a big role to create problem. Many refugees are use to use psychological tablets. These kind of refugees have a big problem now because after they closed the old prison all the psychologies left Manus and now there is not psychological facilities on Manus. They left people without providing medical treatment.
Until now six people died on Manus, in other words they have been killed by the system. Hamid Khazaie was one of them who died because of medical neglect. Hamid had a small infection on his leg for a long time but the company IHMS who has duty to provide medical treatment did not care about him and finally he died. He was on a very critical situation and needed emergency medical treatment, but the system did not care and when they sent him to Australia that he already was died. There are enough documents about his death. The documents obviously shows how they put him on a situation to died. After Hamid died three more refugees died under IHMS care, one of them was died in a way that Hamid died, and others died because of psychological issues and they did suicide.
Until now six people died under this policy and many people have been damaged physically and mentally. I think if we only think about this, we can understand how they have been treating us in Manus. They have been putting refugees through a systematic torture. The system established to humiliate people and take the refugees identity».

 L’attività giornalistica di Behrouz Boochani, motivo della repressione dalla quale si è salvato lasciando il suo Paese, non si è mai interrotta e ha invece contribuito a garantire anche agli altri detenuti la possibilità di comunicare col mondo esterno; ha continuato a divulgare notizie dall’isola di Manus, a raccontare ai suoi colleghi e agli osservatori internazionali la quotidianità del campo di detenzione per immigrati.

«Considerare gli altri alla stregua di ‘problemi di sicurezza’ ci porta a cancellarne il “volto” (…) Interdire quel volto in quanto forza (non armata e non coercitiva) che evoca o risveglia l’impulso morale rappresenta il fulcro di ciò che chiamiamo “deumanizzazione”. (…) Privato di un “volto” di rilevanza etica perché considerato una minaccia alla sicurezza e quindi sfrattato dall’universo degli obblighi morali, – il prigioniero diventa – un legittimo oggetto delle “misure di sicurezza”, dichiarate per definizione eticamente indifferenti o neutre» (Bauman 2014: 63).
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Il cielo dei rifugiati (ph. Behrouz Boochani)

È per dare questo volto non deumanizzato ma carico di rilevanza etica, a sé e ai suoi compagni, che Behrouz ha fatto il possibile per mantenere alta l’attenzione sulla realtà che si vive in questa lontana realtà geografica e questo, pur esponendolo a controlli e intimidazioni, gli ha garantito una pallida tutela da violenze peggiori e da una più decisa censura. In questi anni Behrouz si è fatto carico del dovere di cronaca in una condizione di evidente rischio ma, più riusciva a comunicare con il resto del mondo meno si rendeva possibile per le istituzioni zittirlo senza che questo scatenasse allarme e indignazione pubblica [4] e riduceva la possibilità che il governo abbandonasse del tutto, in uno stallo senza tempo, degli esuli giunti sulle coste, o nelle acque, australiane in cerca di un doveroso aiuto:

«I always say that I no have choice but fighting against this system and I feel it’s my mission and duty as a writer and journalist to tell what is happening on this island. It’s really hard to work here because I have been a prisoner too and are suffering like other refugees around me. I working all day and doing some different works.
I think it’s my duty to write about this prison camp on Manus and also Nauru. Also it’s very important for me that people around the world know about these camps and I’m working a way to break this cruel policy, definitely many people in Australia and in Manus are working together. Most of the refugees think it’s very important that people around the world know about us.
I made a movie “Chauka please tell us the time” with my co-director Arash Kamami Sarvestani who is living on Netherland. The movie had a global attention and we attended London Film Festival, Göteborg Film festival on Sweden, Scotland, a festival on Berlin, Sydney film festival and other Festivals on cities on Australia. Also I just finished my first book that will be on Market on May with publisher Mackmilan (Picador) that I hope many people read it. I’m working on another book now. I did not have time to work on writing poem but I published some of them on Australia. All of them are important but I think my novel and the movie are much important to record history of this prison.
I work with so many different people, journalists, human rights defenders by doing interview or helping them to write. Also I am active on social media and am using twitter and Facebook as a personal media. Also I am working on my new book.
On the first months I could smuggled a phone in. The local people helped me and I could have access to phone. After three years that I had to hid my phone, Papua New Guinea Supreme Court ordered that keeping innocent people in prison is illegal, we could have access to phone. We the refugees have access to phone now.
Internet was extremely slow when we were on the old prison camp but the internet getting better on past few months. The internet on the new prison camps is much better. It was really hard to work through that internet. Even I had problem to send a simple photo or sometimes I had to wait to send a text for long time. I had to stay awake at night to work because during the day was extremely bad. It’s hard to describe how I was angry most of time because I could not communicate well with journalists and human rights defenders.
Authorities several times attacked my room to take my phone. Once they could take it and asked me many questions about using phone and it was an investigation. They several times searched my room but could not find my phone. I had to smuggled a phone again. Also during our protest, they attacked the prison camp and arrested mr for four and five hours. They pulled my hair, broke my sunglasses, talked with me so bad, and threatened me. It was really a hard time».
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Behrouz Boochani

Si rivolge agli australiani, Behrouz, nella speranza che ogni pubblicazione possa contribuire a dare visibilità alla condizione dei rifugiati di Manus Islan, che possa fungere da dialogo con quelle persone che un’ottusa burocrazia ha reso inavvicinabili. «La vista – che l’isolamento preclude – colma la distanza (…) Vedere è la via necessaria per giungere al riconoscimento (…) – se l’uomo – si ritrova cieco (…), se non sa leggere l’oscurità con una sensorialità allargata, si trova immerso in un abisso di significazione e ridotto all’impotenza» (Le Breton 2014: 45-49). L’impegno di Behrouz è volto, da anni, proprio a rendere visibile e distinguibile quella realtà che è stata tanto allontanata dallo sguardo dell’opinione pubblica locale:

«I have this message that your government is doing is violating human rights under your name. We don’t want to come to your country just let us go to other countries and finish keeping us as hostage. We don’t want anything from Australia only let us go»;

e si rivolge anche alla comunità internazionale, troppe volte affetta da una sorda cecità verso tutto ciò che sembra non riguardarla direttamente, stretta tra i pregiudizi politicizzati e le campagne mediatiche stordenti, abbrutita e culturalmente, umanamente, inaridita:

«My message for the international community is that don’t follow those governments who are taking freedom because of some political excuses like national security. The populist politicians are destroying our world, we are people everywhere and we should trust in each other».

Solo alla fine Behrouz mi parla di sé e della sua storia, dell’inizio della sua fuga e del viaggio che lo ha portato a Manus, il flusso con cui ha descritto tutto il resto si arresta in parte; l’esasperazione condivisa, l’impegno etico e sociale, la lotta condotta attraverso la scrittura costante e diretta, lasciano il posto a un dolore sordo, a quel misto di paura e tenacia incise nel suo vissuto, a quella profonda dignità del singolo dalla quale le istituzioni dovrebbero prendere spunto per una gestione più umana dei fenomeni migratori, degli esodi, delle accoglienze, e della possibilità di spostarsi, insita nell’uomo da sempre, e da sempre fonte di sviluppo e arricchimento culturale:

«I left Iran because of my journalistic activities, I used to work for a magazine called Werya, which had been established to keep Kurdish culture alive, but unfortunately the Iranian government forces attacked our office and arrested some of my colleagues and after that I was in serious trouble. I had no way but to leave Iran.
An interesting and contradictory matter here is that I left Iran because I was due to be imprisoned for keeping Kurdish culture alive, but Australian government has incarcerated me in a remote prison with no reason.
I left Iran in May 2013 and went to Indonesia, I was there for about four months and then started my journey to Australia by boat. Actually, I had two journeys to Australia, first time, our boat broke up after about 48 hours and we sunk. I had to swim for about 30 meters and finally could reach a piece of wood. I was there until some fishermen took me from the water, then Indonesian police put me in jail and I managed to escape. I started the second journey after about two weeks but this time our boat got lost for about a week. Finally, a British ship found us and took us to an Australian Navy. We arrived on Christmas Island, which belongs to Australia, on 23 July. I was there for about a month and then they exiled me by force to Manus Island on 27 August 2013.
I am here for nearly five years».

Ringrazio Behrouz Boochani, per il tempo e la gentilezza che ha rivolto a me e a chi avrà letto le sue parole, nella speranza che lo strazio ingiusto di questa sospensione si trasformi presto per lui, e per tutti i rifugiati, nell’inizio di un nuova, libera, vita.

Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
Note
[1]  Provvedimento successivo e non retroattivo rispetto all’accordo di cooperazione da 35 milioni di dollari, siglato nel 2014e riformulato nel 2015, con la Cambogia, alla quale spettava il ricollocamento dei migranti presenti a Nauru, L’isola più controversa per la presenza dei bambini. Oltre mille dei rifugiati presenti sull’isola sono già stati portati via e non è possibile seguirne le tracce.
[2]  https://www.reuters.com/article/us-usa-trump-australia-refugees-exclusiv/exclusive-australia-increases-pressure-cash-offers-for-png-asylum-seekers-to-return-home-idUSKBN15T317
[3] L’International Health and Medical Services, sussidiaria dell’International SOS, è preposta a fornire le primarie cure mediche e psicologiche a coloro che si trovano nei centri detentivi per immigrati australiani, secondo il contratto siglato con il Dipartimento di Immigrazione e della protezione delle frontiere.
[4]  Attutiti dalla poca diffusione mediatica, è importante sottolineare come, una volta divenute di pubblico dominio le modalità di gestione del fenomeno migratorio, le condizioni di vita dei migranti, e gli accordi milionari che prevedevano il ricollocamento all’estero dei rifugiati ma non la verifica delle loro condizioni di vita nel Paese ospitante, molti australiani hanno messo in atto cortei e manifestazioni a favore dei rifugiati, richiedendone l’accoglienza nel loro Stato e il rispetto dei diritti umani, in vari modi negati entro i campi di reclusione preposti a riceverli.
 Riferimenti bibliografici
Bauman Z., Danni collaterali. Diseguaglianze sociali nell’era globale, Laterza, Roma-Bari, 2014.
Durkheim E., Il suicidio. L’educazione morale, Utet, Torino, 2008.
 Le Breton D., Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina, Milano, 2014.
 Remotti F., Cultura, dalla complessità all’impoverimento, Laterza, Roma-Bari, 2013.
      Sitografia
 http://www.asyluminsight.com/statistics/#.WoRcgq7ibIU
 https://www.google.com/amp/s/amp.theguardian.com/commentisfree/2017/dec/06/i-write-from-    manus-island-as-a-duty-to-history?espv=1
 https://www.reuters.com/article/us-usa-trump-australia-refugees-exclusiv/exclusive-australia-      increases-pressure-cash-offers-for-png-asylum-seekers-to-return-home-idUSKBN15T317

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  Valeria Dell’Orzo, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.
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