di Antonello Ciccozzi
Rigurgiti suprematisti e furori contrappassisti
L’11 marzo del 2025 il Governo di destra di Giorgia Meloni ha pubblicato le “Nuove Indicazioni per la Scuola dell’infanzia e il Primo ciclo di istruzione” [1]. Tra le varie direttive, il documento proclama che «la libertà è il valore caratteristico più importante dell’Occidente [2] e della sua civiltà sin dalla sua nascita», che «solo l’Occidente conosce la Storia» e che «la cultura occidentale è stata in grado di farsi innanzi tutto intellettualmente padrona del mondo, di conoscerlo, di conquistarlo per secoli e di modellarlo».
La risposta degli antropologi italiani non si è fatta attendere, sia in ambito mediatico sia come presa di posizione accademica unitaria. Nel primo caso, da un editoriale sul quotidiano “Domani” [3], Marco Aime, Stefano Allovio e Adriano Favole hanno replicato che tale impostazione rivela un «inaccettabile eurocentrismo», in cui si promuove «una esaltazione del “dominio intellettuale” su un mondo non occidentale inferiore, incapace, meno consapevole di sé e della propria Storia» e un ritorno «a una visione di un mondo diviso tra un mondo occidentale civilizzato e società selvagge». Poco dopo, le cinque associazioni italiane di Antropologia (ANPIA, SIAA, SIAC, SIAM, SIMBDEA) hanno ufficializzato la loro comune preoccupazione in un Comunicato Congiunto [4] - in cui hanno osservato come la postura sottesa a tali indicazioni governative appaia «animata dal desiderio di riaffermare supremazie culturali e quasi marziali di una idealizzata cultura occidentale e fantasmatica identità nazionale in un mondo che, oramai da qualche secolo, non è più quell’universo di bolle autarchiche, ordinate in una gerarchia indiscussa di impianto evoluzionista e suprematista cui sembra far riferimento l’immaginario politico-culturale di chi ha redatto il documento».
Questa faccenda mostra una certa sincronicità con un evento riguardante stavolta la sinistra, avvenuto solo quattro giorni dopo, il 15 marzo 2025 a Roma, dove si è tenuta la manifestazione “Una piazza per l’Europa”; una kermesse un po’ confusa, rivolta contro la destra della Russia di Putin e quella degli USA di Trump. Rispetto ad alcuni dettagli si è trattato di una cerimonia surreale dal momento in cui quella piazza progressista ha finito con il comunicare alla Nazione la stessa rappresentazione dell’Occidente formulata poco prima dal Governo conservatore. Infatti, tra gli oratori saliti sul palco in Piazza del Popolo, ha stupito il cantautore e insegnante liceale in pensione Roberto Vecchioni, da sempre attento a presentarsi come interprete impegnato di sinistra, ma caduto in quest’occasione in un discorso che si è rivelato essere in più punti agli antipodi del politically correct. Ecco le sue parole:
«Permettiamo tutte le religioni, diamo i diritti a tutti di essere, di esistere, di vivere, di conformarsi, non conformarsi. Abbiamo libertà ovunque. Abbiamo la democrazia! Ma quella non ce l’hanno tutti! Ce l’abbiamo noi! Che è un’invenzione dei greci, ed è arrivata fino a noi. Chiudete gli occhi un momento e pensate i nomi che vi dico. Io vi dico Socrate, vi dico Spinoza, Cartesio, vi dico Hegel, Marx e vi dico anche Shakespeare, vi dico Cervantes, vi dico Pirandello, Manzoni, Leopardi. Ma gli altri le hanno queste cose? L’Europa è pensiero continuo, è un continuo sovrapporsi, migliorarsi, cambiarsi, con errori infiniti. Perché la democrazia è fatta di errori da correggere, non nasce perfetta. Nasce perfetta la destra, che non ha errori da correggere, che ha un solo scopo ed è quello di dominare e schiacciare […]. Poi questa parola cultura dovrebbe finire qui, perché non so come sia, a parte qualche intellettuale in America dovrebbe essere nostra, e basta. Certamente è nostra la cultura, loro non sanno cosa sia».
A ciò l’oratore ha aggiunto da bordo palco le seguenti dichiarazioni, rilasciate in una video-intervista del quotidiano “La Repubblica”:
«L’Europa è il fondamento di tutte le verità ideologiche, etiche, estetiche. Abbiamo inventato tutto. La bellezza, la passione, la letteratura. E non possiamo assolutamente perderle queste cose. Perché noi Europei abbiamo insegnato tutto».
Vecchioni è stato subito travolto da reazione scandalizzata, dalla quale ha provato a smarcarsi due giorni dopo con questo singolare comunicato affidato alla sua pagina Facebook: «ho dato per scontato che dicendo “Loro” in contrapposizione a “Noi” fosse chiaro che mi riferissi a Trump, a Musk e alla loro cricca. Evidentemente mi sbagliavo e di questo me ne scuso». In effetti, ad essere attenti, questa intenzione si può evincere da alcuni passaggi della sua arringa, ma tale posizionamento oppositivo non può essere sufficiente a legittimare un discorso altrimenti tarato in senso eurocentrico da più di un’assunzione tranchant di esclusivismo culturale, di superiorità.
Vecchioni forse voleva istintivamente mantenersi nel perimetro di un suprematismo ideologico politicamente corretto del “noi europei di sinistra siamo meglio di voi russi e americani di destra!” ma è caduto clamorosamente in un palesemente generalizzato “la cultura ce l’abbiamo solo noi!” che immediatamente è stato inteso da molti come un lapsus freudiano rivelatore di un rigurgito di suprematismo bianco. In particolare, sono degne di nota le considerazioni espresse in merito su Facebook dalla influencer di origini ghanesi Djarah Kan [5]:
«Da donna africana, da figlia di indigeni africani che hanno dovuto lasciare una terra ricchissima, resa sterile dal colonialismo e dal capitalismo estremo, questa retorica mi uccide. […] C’è rabbia perché molte persone di sinistra, prima di essere di sinistra sono bianche ed europee. E la loro idea di progresso, sfortunatamente passa attraverso la lente distorta della bianchezza e del suprematismo europeo. […] Dire che l’Europa è la culla della civiltà Mondiale è una mostruosità che non si può perdonare ad un nazista. Figuriamoci ad una persona di sinistra che non vuole fare i conti con la propria BIANCHEZZA. Per chi ha vissuto l’Europa in un corpo colonizzato e povero, non esiste una Europa buona che si possa separare selettivamente dall’Europa cattiva. […] La ragione per cui è difficile avere una sinistra italiana realmente anticapitalista e antirazzista sta nella sua bianchezza strutturale. È colpa di una bianchezza mai messa in discussione nella propria visione ideologica se, in quella piazza, c’erano persone convinte di dover scendere in strada non per difendere i più fragili, ma per proteggere e promuovere un’idea suprematista e bianca dell’Europa in chiave progressista. […] È colpa della bianchezza se per salvare l’idea d’Europa, nessuno considera abbastanza grave e disumano il trattamento che l’Unione Europea riserva ai suoi cittadini più fragili, agli immigrati, ai richiedenti asilo, ai rifugiati. La bianchezza e il capitalismo uccidono le sinistre, vanificando ogni loro tentativo di costruire lotte sociali autentiche e rivoluzionarie. Nonostante mi reputi da sempre una persona di sinistra, ancora una volta faccio i conti con il fatto che alcune persone vogliono restare bianche. […] smettere di pensarsi come custodi della civiltà umana sarebbe un ottimo passo. Decolonizzare i propri saperi anche».
Similmente, la scrittrice di origini somale Igiaba Scego ha voluto rimproverare un altrettanto stupefacente Antonio Scurati per aver descritto – sempre dallo stesso palco e anche stavolta usando lo stesso “Noi” – un’Europa che avrebbe smesso di essere violenta dopo la Seconda guerra mondiale. Anche in questo caso è stato scelto Facebook, ed ecco un estratto del suo j’accuse [6]:
«Ho trovato molto pericoloso quel “Noi” che presuppone già nella sua enunciazione esclusione. È un noi molto recintato. Un noi bianco, borghese, elitario, eterosessuale. Un noi che appena è stato enunciato fa sentire esclusi. […] Chi studia come me da tanto tempo le dinamiche coloniali e postcoloniali sa quanto dichiararsi innocenti sia pericoloso e nefasto. Perché i crimini sono stati tanti, quelli di ieri e quelli di oggi. L’Europa affonda le mani nel sangue. […] l’Occidente affonda le sue radici nella violenza della storia e nel sangue del prossimo. E se vogliamo costruire un continente forse si deve partire da questo, da una storia problematica. Dal sangue versato».
A questo punto è il caso di iniziare a confrontare queste posizioni. Da una parte – tra le esternazioni che ci si poteva aspettare da un documento governativo di destra e quelle paradossali di una piazza di sinistra – siamo di fronte a un riemergere bipartisan dell’ideale del primato europeo-occidentale di civiltà, in alcuni punti espresso in modo palesemente incondizionato, declinato in termini inequivocabilmente assoluti. Si può facilmente notare che per molti versi si tratta di un riaffiorare nel discorso pubblico di sopravvivenze della visione filosofica hegeliana che per lungo tempo ha egemonizzato la modernità occidentale, dove il Nord del mondo si contrappone gerarchicamente a un resto da sé misurandosi attraverso una Storia che degrada man mano che ci si allontana dall’Europa, fino ad arrivare allo zero dell’Africa; un’Africa vista, appunto, come luogo totalmente senza Storia (senza cultura, senza civiltà), come spirito non sviluppato ancora immerso nella natura in cui l’africano «incarna l’uomo allo stato di natura in tutta la sua selvatichezza e sfrenatezza» (Hegel 2010).
Dall’altra parte, a tale visione decisamente eurocentrica si oppone quella eurofobica della rappresentazione postcoloniale dei rapporti tra Sud e Nord del mondo [7]; che, evidentemente, fa da background intellettuale delle invettive di Djarah Kan e Igiaba Scego. Nell’orizzonte assiologico complessivo della critica postcoloniale, le precedenti pretese imperialiste occidentali di primazia assoluta vengono prima di tutto azzerate con un relativismo che pone tutte le società sullo stesso piano, negando qualsiasi merito di progresso al Nord del mondo, stabilendo una grammatica di potere dove qualsivoglia concezione gerarchica della diversità culturale in cui riecheggia la dicotomia tra civiltà da un lato e selvaggi/barbari dall’altro viene tacciata di razzismo.
Tuttavia, questo principio a-gerarchico in cui non è più rivendicabile alcun primato di civiltà non si ferma sulla soglia di una visione indeterministica e relativizzante. Tale atteggiamento è propedeutico a una sostanziale inversione assiologica dal momento in cui l’Occidente – la sola società che si è macchiata del peccato mortale del colonialismo e che solo in questo peccato è identificata – diventa il ritratto del male: di fronte a questo nuovo modo di raccontare la Storia quel che resta dell’Europa e dell’Occidente sono soltanto “le mani nel sangue del prossimo”. Qualsiasi conquista di emancipazione è esclusa da questa rappresentazione dell’Occidente, che così finisce con l’incarnare la sola e unica barbarie storica da cui liberarsi. Ospedali, scuole, innovazioni, diritti vengono attribuiti a un’umanità in generale; schiavitù, sfruttamento, violenza, sopraffazione diventano prodotti tipici della cultura europea.
In questo modo all’autoesaltato “noi occidentali portatori di emancipazione” si finisce con l’opporre un contrappassistico e condannante “voi occidentali portatori di sfruttamento”: l’immagine della supremazia della civiltà, del progresso, della libertà finisce impietosamente rovesciata in quella dell’inferiorità della tirannia, della violenza, della sopraffazione da parte di un’Europa bollata senza possibilità di appello come “bianca” e “cattiva”, dove la bianchezza attraversa il confine tra la natura e la cultura e finisce con il diventare sinonimo della malvagità.
Una volta che l’Occidente è identificato solo nella sua storia di malefatte imperialiste, il complesso di superiorità coloniale viene ribaltato nel senso di colpa postcoloniale in cui l’unica immagine consentita dell’Occidente è quella di una società che è stata ed è capace solo di violenza e sopraffazione. La gerarchia coloniale si inverte in una contro-gerarchia postcoloniale in cui le società del Nord del mondo – quello dei “bianchi” – passano al polo negativo, diventano espressioni del male. Così alla relativizzazione del progresso, dell’emancipazione, fa da contraltare un’assolutizzazione della colpa, un’esclusiva dello sfruttamento.
Gli esempi prima riportati, tra decreti governativi, manifestazioni di piazza e condanne social, non sono altro che epifanie di una tensione sul piano del discorso pubblico tra contrapposti eccessi, dove il «noi Europei abbiamo insegnato tutto» si ribalta nel «l’Europa affonda le mani nel sangue». Sono dell’idea tutto ciò rimandi a delle espressioni particolari di un generale e deleterio processo di polarizzazione, a un contagio dell’immaginario che da anni sta dilaniando la cultura antropologica occidentale e l’immagine dell’Occidente nel mondo. In questo caso siamo in una trappola manichea che porta a ridurre la complessità della storia entro semplificazioni binarie che finiscono per trattare il bene e il male come macro-regioni di una geografia morale in cui a quello che è in fondo il deleterio suprematismo e razzismo dell’Occidente bianco si sta contrapponendo un altrettanto deleterio odio antioccidentale e razzismo antibianco.
Si tratta di un sentimento tanto pericoloso quanto diffuso che rimanda a un nuovo “noi” postcoloniale che è intersezionale nell’accomunare varie forme di essere o sentirsi extraoccidentali contro l’Occidente “bianco”, che sottende l’emergere di un fascismo esotico (Ciccozzi 2023b) che sarebbe il caso di iniziare ad inquadrare criticamente da una prospettiva progressista. Di fronte a tale scenario schismogenetico (Bateson 1977) penso che sia possibile e opportuno il tentativo di una terza via data da un recupero critico e ponderato dell’umanesimo occidentale da intendere come valore universale non suprematista, difendibile senza cadere né nei rigurgiti di una ancora presente arroganza imperialista né nell’emergere prepotente della flagellazione (e autoflagellazione) postcoloniale.
Rileggere Gramsci e de Martino
Da tempo abbiamo dimenticato che c’è un Gramsci che ha una visione complessiva dell’Occidente spiccatamente universalista (Ciccozzi 2025), una visione scomoda e inattuale che può oggi apparire difficilmente compatibile con gli odierni stilemi del politicamente corretto progressista, e che a uno sguardo superficiale rischierebbe di essere tacciata di eurocentrismo e perfino del suprematismo che abbiamo prima visto in scena nel corrente discorso pubblico italiano. Infatti, il celebre pensatore attesta «l’egemonia della cultura occidentale su tutta la cultura mondiale», sostenendo che
«ammesso anche che altre culture abbiano avuto importanza e significato nel processo di unificazione “gerarchica” della civiltà mondiale (e certamente ciò è da ammettere senz’altro), esse hanno avuto valore universale in quanto sono diventate elementi costitutivi della cultura europea, la sola storicamente o concretamente universale, in quanto cioè hanno contribuito al processo del pensiero europeo e sono state da questo assimilate» (Gramsci 1975:1825).
Qui non si tratta tanto di storicizzare il pensiero di Gramsci per precisare che egli scriveva prima della presa di coscienza sui mali del colonialismo e in un’epoca in cui l’egemonia planetaria dell’Occidente era un dato di fatto: messo nel contesto complessivo del suo pensiero, già in origine il discorso di Gramsci non aveva il fine di sostenere un semplicistico ed etnocentrico “noi siamo migliori degli altri” ma affermava che la ricetta progressista marxista dell’emancipazione umana si sarebbe potuta realizzare nell’alveo del percorso storico dell’umanesimo, e in un telos che, dalla sua prospettiva, aveva come punto di arrivo la società comunista. E Il comunismo di Gramsci era rivolto all’uguaglianza tra le persone, non riguardava un egualitarismo di maniera tra le società (quello che si sarebbe assunto di lì a poco immaginandole attraverso un uso per certi versi semplicistico, ingenuo o ideologizzato della nuova lente antropologica del relativismo culturale).
D’altra parte, qualche anno dopo anche Ernesto de Martino, proprio a partire da una solida impostazione gramsciana, sottolineerà che
«la scienza e la tecnica dell’Occidente, nate da un ethos culturale particolare che è frutto di una lunga storia, costituiscono valori non soltanto universali, ma universalizzabili: tuttavia sono valori universalizzabili nella misura in cui non restano un al di là rispetto ai mondi umani che entrano con un ritmo crescente nel processo di occidentalizzazione, e nella misura in cui scienza e tecnica svolgano interamente l’ethos adeguato al tipo di umanesimo integrale e di integrale democrazia che certamente scienza e tecnica racchiudono almeno potenzialmente» (De Martino 1964: 231).
Qui c’è da ricordare la diffidenza di De Martino nei confronti del relativismo culturale radicale in nome di un «etnocentrismo critico» per cui, come occidentali, non dovremmo cedere alla tentazione di spogliarci della prospettiva data dalla nostra cultura in nome di un relativismo illimitato che pone tutte le società sullo stesso piano. Questo però cercando al contempo di non cadere nell’opposto errore etnocentrico di un’adesione acritica ai “nostri” valori, e tantomeno di cedere alla tentazione imperialistica di una imposizione dogmatica di tali valori alle altre società. In questo senso l’«etnocentrismo critico» implica un relativismo ponderato che rimanda a una tensione costitutiva e generativa tra l’identità e la diversità, che impone un processo aperto e inclusivo di verifica culturale di sé stessi attraverso il confronto con l’alterità.
L’incontro etnografico con l’altro diventa in de Martino occasione di rimettere in discussione le proprie categorie culturali, relativizzandole ma non in modo assoluto, ossia senza arrivare per questo ad abdicare un blocco da esse, dalla propria società. Come pure si tratta di assumere consapevolmente il proprio punto di vista europeo, occidentale, non per imporlo etnocentricamente all’altro come misura esclusiva, ma per offrirlo come risorsa storicamente costruita, come punto di partenza su cui istituire l’incontro etnografico. Per de Martino l’antropologia culturale configura in tal senso un nuovo umanesimo, un «umanesimo etnografico», che però, mentre è in grado di diluire gli etnocentrismi sociali in una consapevolezza relativistica, deve guardarsi dagli eccessi di un relativismo assoluto ed ingenuo. In merito egli sostiene che
«il pericolo dell’umanesimo etnografico dispiegantesi nell’epoca della seconda rivoluzione industriale e della decolonizzazione è il relativismo culturale. Solo l’Occidente ha prodotto un vero e proprio interesse etnologico, nel senso largo di una esigenza di confrontare sistematicamente la propria cultura con le altre sincroniche e aliene: ma questo confronto non può esser condotto che nella prospettiva di un etnocentrismo critico, nel quale l’etnologo occidentale (o occidentalizzato) assume la storia della propria cultura come unità di misura delle storie culturali aliene, ma, al tempo stesso, nell’atto del misurare guadagna coscienza della prigione storica e dei limiti di impiego del proprio sistema di misura e si apre al compito di una riforma, di una riforma delle stesse categorie di osservazione di cui dispone all’inizio della ricerca. Solo ponendo in modo critico e deliberato la storia dell’Occidente al centro della ricerca confrontante, l’etnologo potrà concorrere a inaugurare una consapevolezza antropologica più ampia di quella racchiusa nell’etnocentrismo dogmatico» (396-397).
È chiaro che prima Gramsci e poi de Martino si muovono qui sullo stesso piano interpretativo. Nella visione novecentesca di questi due grandi intellettuali comunisti europei l’Occidente non è un monolite ontologicamente superiore alle altre culture in ogni sua parte, ma rappresenta una società che, tra le cose, ha prodotto anche una serie di istituzioni, di valori e di strumenti culturali che sono per molti versi preferibili a quelli tradizionali tipici di orizzonti tribali magico-religiosi; e sono quindi universalizzabili proprio perché elaborati in un’humanitas filtrata il più possibile dai bias etnocentrici di costumi locali e orientata il più possibile in direzione globale, in un orizzonte scientifico-filosofico, nel confronto con la complessità della modernità laica, del pluralismo sociale e del conflitto politico basato su principi democratici.
Quindi, la visione gramsciana e quella demartiniana ci suggeriscono che l’universalismo non è qualcosa dato in astratto, in via esclusiva e apriori, ma si costruisce storicamente nella capacità di integrare e superare tradizionalismi, particolarismi e contraddizioni, per giungere a valori capaci di un potenziale di emancipazione in grado di trascendere le singole specificità culturali, per arrivare a tutto il genere umano. L’Occidente, in questo senso, non è universalizzabile perché “superiore” in sé e in generale, ma vi sono nell’Occidente dei particolari elementi culturali universalizzabili in quanto provengono da una forma-storica (una struttura politica, economica e culturale) capace di farsi portatrice di valori condivisibili come l’autonomia del soggetto, la razionalità critica, la laicità, il principio di dignità umana, e via dicendo.
In definitiva, non si tratta della pretesa suprematista dell’universalismo etnocentrico di elevare in toto il proprio sistema particolare di valori a riferimento esclusivo per l’umanità intera, o di reclamare una generalizzata e aprioristica superiorità di qualsiasi istituto, uso o costume o forma di vita della società civile su tutti quelli delle società tribali. È qui in gioco l’opportunità di coltivare una consapevolezza progressista sul fatto che alcuni valori dell’umanesimo occidentale possono essere intesi come una conquista e una possibilità per l’umanità intera, nella misura in cui essi possono avere una portata universale, dove la loro diffusione si può tradurre in termini di liberazione umana da una serie di angustie che a volte caratterizzano varie forme contemporanee di socialità tribale.
In tal senso distinguere la parte (la preferibilità di alcuni valori) dal tutto (la pretesa di superiorità dell’intera società da cui sono venuti) significa uscire da certe borie suprematiste per difendere la consapevolezza che, tra tanti errori, qualcosa di buono dall’Occidente e dall’Europa è venuto e viene, e che questo qualcosa è buono dal momento in cui è universalizzabile a tutta l’umanità come strumento di emancipazione, non come superiorità generalizzata ma come possibilità generalizzabile. Ciò è molto differente da un eurocentrismo che immagina e pretende una totale e incommensurabile superiorità culturale dell’Occidente che verrebbe da una sorta di “dono naturale” della Storia, una Storia di cui il resto del mondo sarebbe variamente carente, se non perfino “naturalmente”, totalmente e irrimediabilmente privo.
Pertanto tutto questo non è da intendere come un “solo noi abbiamo la Storia” ma in un “la nostra Storia non è una storia tra le altre”, dove riconoscere la peculiarità della storia occidentale significa riconoscerne sia le voragini negative che le vette positive, sia l’obbrobrio dello sfruttamento (il colonialismo, la distruzione dell’ambiente, i campi di concentramento, il rischio dell’atomica…) sia una serie di conquiste di emancipazione (le innovazioni igienico sanitarie, il progresso scientifico-tecnologico, il diritto positivo, l’istruzione universale…). L’Occidente ha prodotto sia galere che ospedali, sia dominio che liberazione; ma se le certe soggezioni rivelano prevalentemente un vizio generale dell’umanità in cui purtroppo abbiamo spesso primeggiato, altri affrancamenti appaiono più il frutto di un percorso storico particolare per vari aspetti dovuto ad altrettanti primati, stavolta positivi.
Di fronte alle macerie morali della modernità e alla desolazione del presente, si tratta di chiarire che l’umanesimo e la sua universalità riguardano anche qualcosa di redimibile e apprezzabile nella misura in cui indicano un “abbiamo fatto qualcosa di buono”, o meglio un “abbiamo anche fatto qualcosa di buono, che può essere buono per tutti”. Vale a dire che l’umanesimo occidentale può essere inteso non come una dogmatica pretesa di superiorità, ma nella consapevolezza che un insieme di valori etici e civili, pur essendo nati in un contesto specifico, hanno validità universale non in virtù di una civiltà superiore, ma in forza della loro capacità emancipativa per ogni essere umano. Al cuore di questo orizzonte stanno alcuni principi fondamentali:
- La dignità intrinseca della persona: ogni singolo essere umano ha un valore proprio in quanto individuo;
- L’uguaglianza giuridica e morale: ogni singolo essere umano ha diritto a essere trattato con pari dignità di fronte alla legge e alla società, questo indipendentemente da più o meno presunte distinzioni di razza, etnia, casta, classe, sesso, cultura o religione. Tale idea si oppone a ogni forma di discriminazione, subordinazione per nascita o appartenenza di gruppo;
- L’uso della ragione e del dialogo come strumenti di verità, il rifiuto del dogmatismo e del fanatismo: le verità non si impongono definitivamente con la forza o la rivelazione, ma si discutono e si verificano in funzione dell’esperienza e in un confronto paritetico e sempre variamente aperto a nuove revisioni;
- La libertà come responsabilità: la libertà umana non è puro arbitrio, ma capacità di autodeterminazione nella consapevolezza del limite su un piano di reciproco riconoscimento con il prossimo. Libertà individuale e responsabilità sociale sono inseparabili;
- La laicità e il pluralismo: nessuna religione, cultura o ideologia può imporsi totalitaristicamente sulle altre attraverso lo Stato o le istituzioni politiche o religiose. La convivenza civile si fonda sul rispetto reciproco e sull’autonomia della sfera pubblica, dentro le regole laiche del diritto positivo.
Tutti questi principi hanno una valenza autocritica e progressiva, e si delineano in una storia spesso ambivalente e contraddittoria: sono parte di una civiltà in perenne tensione tra dominio e liberazione, che ha tradito tante volte i valori che essa stessa ha dichiarato, commettendo spesso gravi ignominie (colonialismo, schiavitù, razzismo, sfruttamento capitalista, guerre mondiali…), e che seguita molte volte ancora a commetterle con periodiche cadute totalitaristiche che minacciano l’umanesimo dall’interno; ma questa civiltà ha anche elaborato strumenti per riconoscere, criticare e superare i propri errori.
Questo è ciò che rende l’umanesimo – inteso nell’accezione più ampia del termine come nucleo valoriale filosofico-culturale dell’Occidente – una proposta culturale inclusiva e non suprematista: non si afferma che l’Occidente europeo è superiore perché rappresenterebbe la forma perfetta o più evoluta delle società umane, ma si sottolinea che esso ha saputo generare pratiche e pensieri che mirano all’universalità della dignità umana e a migliorare la vita di tutti.
L’idea della persona intesa come soggetto dotato di individualità e meritevole di diritti dati su un piano di eguaglianza e in un orizzonte secolarizzato non è un dato “naturale”, socialmente “innato”, non è un sostrato culturale diffuso omogeneamente in ogni società umana ma un prodotto storico particolare che si deve in larga misura al lavoro culturale della società occidentale. Volendo ricordare alcune delle tappe fondamentali di questo percorso si potrebbero menzionare – in linea del tutto riduttiva e con finalità unicamente didascaliche – i seguenti momenti chiave:
- Nella Grecia dell’antichità classica inizia ad emergere l’idea di persona intesa come soggetto dotato di ragione; a partire da filosofi come Socrate, Platone e Aristotele si pone la ricerca della verità e della giustizia al centro della vita umana. A Roma autori come Cicerone e Seneca sviluppano l’ideale dell’universalità della ragione e della legge naturale, anticipando concetti moderni di diritto universale;
- Con il cristianesimo delle origini, si afferma l’idea che ogni anima ha valore davanti a Dio, indipendentemente da origini, genere o status sociale. Pensatori come Paolo, Agostino e Tommaso iniziano a delineare una concezione della persona come essere morale e dotato di coscienza;
- Nel XV sec. l’umanesimo trova una delle sue formulazioni più compiute in Giovanni Pico della Mirandola che, nel suo discorso “De hominis dignitate”, celebra la libertà umana come capacità di autodeterminazione, rendendo l’uomo “mirabile” nella sua soggettività per la sua apertura a ogni forma di sapere e la sua attitudine a tendere alla perfezione;
- Nel XVIII secolo, l’Illuminismo amplia questa visione. Kant afferma che ogni essere umano deve essere trattato come fine e mai come mezzo. Autori come Voltaire, Montesquieu, Rousseau elaborano concetti di tolleranza, libertà politica, contratto sociale;
- Nell’età delle rivoluzioni la Costituzione americana (1776) e la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (1789) segnano la traduzione politica dell’umanesimo: la legge riconosce libertà, uguaglianza e fraternità come diritti imprescrittibili di ogni persona;
- Con l’evoluzionismo ottocentesco, dopo secoli di tensione, l’immagine filosofica dell’uomo si affranca definitivamente dalla religione e si afferma una concezione secolarizzata dell’universo e del rapporto tra individuo e società. Nel frattempo, in ambito socio-antropologico, matura la consapevolezza laica che le divinità rappresentano una trasfigurazione su un piano trascendente dell’ordine sociale;
- Nella seconda metà Novecento, filosofi come Hannah Arendt hanno ridefinito l’universalismo, parlando di “diritti ad avere diritti”, e mettendo in guardia contro ogni totalitarismo. Karl Popper ha difeso la “società aperta” come antidoto al dogmatismo dei totalitarismi, avvertendoci sull’ancora troppo poco compreso paradosso della tolleranza (“non si può essere tolleranti con gli intolleranti”);
- Questo cammino è andato di pari passo con un crescente processo di produzione di innovazioni scientifiche (meccaniche, tecnologiche, mediche…) che, per quanto in modo incompleto e tra contraddizioni economiche e rischi ecologici, hanno contribuito a una sempre maggiore diffusione di emancipazione sociale e della persona umana anche sul piano materiale (che si è intrecciato con quello culturale, in un reciproco rafforzamento).
È il caso di evidenziare che, in questo percorso, sarà proprio l’emergere novecentesco di una cognizione antropologico-culturale sulle angustie dell’etnocentrismo – la tendenza variamente diffusa in tutti i gruppi umani a considerare la propria società come superiore e a giudicare gli altri in base ai propri metri di misura (Sumner 1962) – che aprirà a un processo di autoconsapevolezza sui limiti dell’umanesimo e sulle pretese eccessive dell’universalismo occidentale. Nello sviluppo di tale sguardo autocritico sulla necessità di relativizzare le proprie categorie e il proprio orizzonte sociale, mi pare che il prima citato contributo di de Martino mantenga intatta la sua validità rispetto al rischio di estremizzare questo relativismo fino a un indeterminismo assoluto in cui la pericolosa pretesa etnocentrica di rivendicare un totale primato occidentale si rovescia in una altrettanto pericolosa pretesa di negare all’Occidente qualsiasi merito storico particolare.
Pertanto, rivisto in questa prospettiva, l’umanesimo europeo non è un mero universalismo etnocentrico che pretende che l’Occidente sia la sola civiltà valida, ma rappresenta l’idea che tutti gli esseri umani possono riconoscersi su un piano di universalità che li accomuni in principi come la libertà, la dignità, l’uguaglianza, il pluralismo. Queste qualità, pur derivando a volte da incontri culturali con altre società, sono prevalentemente nate in un contesto storico e geografico preciso. Tuttavia, proprio perché sono un prodotto storico, esse non appartengono solo all’Occidente come peculiarità “naturali”, come possesso esclusivo e non traducibile altrove.
Per questo, se non dovrebbero mai essere imposti con la forza, tali principi possono e dovrebbero essere difesi e incoraggiati ovunque, anche e soprattutto quando ciò implica criticare pratiche culturali violente che sono variamente presenti in altre società (a titolo di esempio si pensi alla sanzione radicale del dissenso politico religioso anche con la pena di morte, alle spose bambine, alle mutilazioni genitali femminili, al livello delle discriminazioni di genere presente in tante società extraoccidentali, all’imposizione della religione come fonte unica di diritto, e via dicendo).
Dunque, è necessario ma non sufficiente uscire dalla pretesa suprematista generalizzante dell’universalismo etnocentrico secondo cui tutta la cultura occidentale è Ragione e tutta la Ragione è solo in Occidente: se la Ragione va relativisticamente coniugata al plurale riconoscendone la presenza in diverse forme tra tutte le società umane, ciò non si dovrebbe tradurre in un egualitarismo di maniera tra tutte le Ragioni in nome di un relativismo culturale assoluto (ad esempio, possiamo mettere tutti gli istituti matrimoniali sullo stesso piano? una sposa bambina è null’altro che un modo tra tutti gli altri di intendere una sposa?).
Il punto è che non si dovrebbe avere timore nell’ammettere che alcune conquiste storiche particolari della Ragione occidentale possono avere un valore universale. Oppure, detta in modo più coinciso e semplificato, se è sbagliato sostenere che tutta la Ragione occidentale è la sola Ragione umana, questo non dovrebbe portarci a rimuovere il fatto che alcune conquiste della Ragione occidentale possono emancipare tutta l’umanità.
La pretesa ontologica di possedere da soli un’essenza universale contro l’altro che ne sarebbe del tutto privo è diversa dalla consapevolezza di poter contribuire a costruire con l’altro un piano relazionale di universalità. Non si tratta quindi di imporre a tappeto un generale “noi siamo migliori”, ma di proporre un particolare “questi valori ci hanno migliorato, e possono migliorare chiunque”. Rivendicare suprematisticamente primati o prescrivere colonialmente obblighi è molto diverso dal chiedere di vedersi riconosciuta e apprezzata una capacità di donare delle possibilità di emancipazione.
In tal senso si può dire che, se è giusto e necessario ammettere tutti gli orrori della storia coloniale passata e presente, è sbagliato ridurre in toto la storia e il senso dell’Occidente a quella sola sequela di nefandezze. Il contatto culturale tra Nord e Sud del mondo non è stato e non è solo sfruttamento ma ha rappresentato anche un’occasione progressiva di emancipazione; un’occasione che spesso è stata mancata, questo però non solo per responsabilità occidentali ma anche per una serie di chiusure reazionarie dei Paesi che sono emersi o riemersi dai processi di decolonizzazione.
Sineddoche e paranoia postcoloniale
In generale i pensatori postcoloniali hanno aspramente criticato l’umanesimo occidentale, bollandolo come strumento di dominio, proprio a partire dalla sua disposizione universalista. Se non vi possono essere dubbi sul fatto che i principi dell’umanesimo sono stati storicamente piegati ad usi ideologici e tirati sistematicamente in ballo come pretesti strumentali per legittimare le politiche coloniali (presentandole come “missioni civilizzatrici” e “fardello dell’uomo bianco”), vanno fatte in merito due precisazioni.
La prima – ovvia – è che ciò che qui si ritiene che possa e debba essere difeso non riguarda in nessun modo e in nessuna forma l’abuso imperialista dell’umanesimo ma il nucleo normativo ed etico che, all’opposto, serve a contrastare qualsiasi dominio, proprio in virtù del suo accento sulla liberazione riferita prima di tutto alla persona umana.
La seconda – conseguente alla prima ma meno ovvia – è che il paradigma stesso della critica postcoloniale proviene da autori che si sono prevalentemente formati in un orizzonte sostanzialmente umanista, spesso a partire da un processo di diffusione dei saperi accademici occidentali dai centri alle periferie; ciò dove anche la contrapposizione radicale all’Occidente poteva avvenire solo acquisendo quell’orizzonte simbolico, quella grammatica di emancipazione.
In tal senso la condanna proveniente dalla critica postcoloniale contro l’umanesimo occidentale è sostanzialmente per molti aspetti una critica umanista, e rappresenta da un certo punto di vista un’evoluzione dell’umanesimo stesso, o, se vogliamo, una sua rivoluzione: non a caso lo stesso Fanon (1962) parlava di un nuovo umanesimo che sarebbe sorto dalla spesso feroce liberazione coloniale che concettualizzava.
Qui però, come accennavo prima, il problema è quello della rappresentazione dell’Occidente costruita dalla critica postcoloniale, e non riguarda tanto un piano di verità/falsità quanto un rapporto del tipo parte/tutto, dal momento in cui la verità della critica postcoloniale è parziale ma viene presentata come totale. Intendo dire che questo paradigma ha il pregio di aver inquadrato una serie di soprusi della cultura occidentale ma il difetto di aver iniziato una tradizione interpretativa in cui, soprattutto nelle declinazioni divulgative di questa teoria, l’Occidente finisce con l’essere descritto solo e soltanto attraverso i suoi soprusi, cancellando qualsiasi merito dalla sua storia.
Perciò, se la sineddoche è la figura retorica che indica la parte per il tutto, la “sineddoche postcoloniale” è la raffigurazione dell’Occidente data in base a un dispositivo di percezione selettiva che rimuove tutto il portato positivo di questa civiltà per restituire un ritratto a tinte fosche dato solo da una sequenza di infamie. Qui c’è da capire che tale uso sistematico della sineddoche è propedeutico al blaming postcoloniale, ovvero alla colpevolizzazione ossessiva dell’Occidente.
A tal proposito mi pare il caso di tornare ai ritratti desolanti di Djarah Kan e Igiaba Scego dell’Europa cattiva che affonda le mani nel sangue e che non vuole ripudiare la propria bianchezza strutturale, dell’Europa disumana per il non riconoscere da subito la cittadinanza universale a tutti i migranti, dell’Europa che non deve permettersi in nessun modo di dichiararsi “innocente” (soprattutto in quanto avrebbe reso “sterile” l’Africa, sottraendola da un’età dell’oro e costringendo i suoi abitanti a emigrare da una terra prima “ricchissima”). Il tutto accompagnato dal verbo da anni irrinunciabile in qualsiasi sermone postcoloniale – “decolonizzare” – coniugato nella sua formula ingiuntiva più comune: “decolonizzare i saperi” (con questo concetto-slogan si intende soprattutto la prescrizione a rottamare la tradizione filosofica occidentale, quella dei cosiddetti “maschi bianchi morti”, tarata di eurocentrismo e colpevole di essersi macchiata di complicità imperialiste).
Ritengo che simili operazioni vadano comprese quali manifestazioni cerimoniali – tanto estemporanee quanto ricorrenti – di questo complessivo processo di blaming rivolto contro il Nord del mondo. I pattern accusatori di queste invettive ricorrono da anni tanto negli autori mainstream postcoloniali quanto nella nebulosa di piccoli pensatori che ad essi si ispirano. In questo modo, in un processo costante di diffusione e di contagio ideologico del senso comune progressista, si riproducono pedissequamente e in massa quelli che in fondo sono dei cascami dell’originale desiderio di contrappasso violento formulato da Fanon contro i colonizzatori, confermando questo autore come capostipite, come fonte primaria di una filiera del risentimento che si basa su una narrazione non solo parziale ma spesso essenzialmente paranoica dei rapporti tra Nord e Sud del mondo.
Dico “paranoica” perché, prendendo in prestito un ragionamento di Luigi Zoja (2011), ritengo che il blaming postcoloniale contro l’Occidente sottenda una forma di paranoia politica, ciò nella misura in cui questo paradigma è «incapace di sguardo interiore» (ovvero rifiuta di ammettere che diversi problemi del Sud del mondo hanno cause prevalentemente interne) e «parte dalla certezza granitica che ogni male vada attribuito agli altri» (all’Europa, all’Occidente, al Nord del mondo, che diventa così il capro espiatorio per eccellenza).
Se si può intendere l’essenza (politica e non solo) della paranoia nel vizio di proiettare tutto il male sull’altro, rimuovendo che nell’altro c’è anche del bene e che anche in noi c’è del male, dobbiamo capire che il problema della critica postcoloniale è che essa ha prodotto un eccesso interpretativo dato dalla sua rappresentazione aberrante del Nord del mondo; ciò in base a un dispositivo di “accusa scagionante” che trasforma il suo “altro” (l’Occidente, il nemico) in un capro espiatorio, mentre eleva il “noi” subalterno che a tale male resiste (la nebulosa intersezionale delle moltitudini che possono rivendicare una qualche opposizione all’Occidente) a pura vittima con cui la Storia avrebbe contratto un debito infinito.
Venendo al dunque, la sineddoche postcoloniale si manifesta in una precisa dinamica rappresentazionale circolare tra sussunzione e forclusione: essa sussume l’Occidente nelle sue malefatte imperialiste, e, al contempo, forclude qualsiasi portato di “civiltà” e di “progresso” (parole regolarmente risemantizzate in senso negativo). È così che si giunge a una visione manichea in cui il Nord del mondo appare demonizzato come la quintessenza dell’empietà, opposto al Sud, al mondo colonizzato, quello santificato delle pure vittime aventi illimitato diritto di contrappasso.
L’ossessione verso il fascismo “bianco” e la rimozione del fascismo “esotico”
Il rischio complessivo insito in tale discorso non è solo quello di gettare via, insieme all’“acqua sporca” del colonialismo, il “bambino” dell’umanesimo, ma quello per cui da questo monumentalizzare le colpe dell’Occidente quali unici errori e orrori del genere umano derivino due effetti nefasti.
Il primo è quello di fomentare sentimenti di odio antioccidentale e razzismo antibianco: dopo aver rappresento l’Occidente come il solo luogo del male e il luogo fatto solo di male è inevitabile che contro di esso si diffondano dei sentimenti di intolleranza radicale.
Il secondo è quello di occultare tutte le forme di sopraffazione che ancora albergano nelle società extraoccidentali, sia passivamente, celandole per il semplice fatto di non menzionarle in un cono d’ombra in cui possono proliferare e rafforzarsi sia attivamente, arrivando ad attribuire tutto il male del mondo solo all’Occidente: se si rimprovera solo all’Europa di non potersi dichiarare “innocente” si finisce con il dimenticare che, in varia misura, non esistono rousseauiane “età dell’oro”, che nessuna società si può dichiarare innocente rispetto alla violenza che attraversa il mondo in una miriade di forme e intensità.
In un presente globale sempre più appesantito da guerre culturali – in cui nelle politiche identitarie vengono messi in gioco innumerevoli «essenzialismi strategici» (Spivak 1987) per costruire altrettanti “noi” da agire come pure vittime coloniali dell’Occidente nel quadro di tattiche di rivendicazione e richieste di riconoscimento per implementare nuove contro-egemonie – all’Occidente, reo di secoli di egemonia da espiare, è interdetta qualsiasi politica progressista dell’identità, a partire da tutte quelle che, specularmente, osino in qualsiasi modo rifiutare queste stigmatizzazioni demonizzanti postcoloniali che lo rappresentano come l’unica tirannia del pianeta.
O meglio: in questo scenario planetario di rivendicazioni identitarie che caratterizzano politicamente l’agency complessiva del Sud del mondo, qualsiasi politica dell’identità che proviene dall’Occidente finisce con l’essere tacciata di suprematismo e stigmatizzata assimilandola dentro al perimetro dell’estremismo di destra; ciò in fondo poiché il solo “noi” progressista moralmente consentito al Nord del mondo è quello delle colpe imperialiste, e quindi del cilicio postcoloniale della penitenza. Una volta incorporata la narrazione dell’Occidente che ha commesso nient’altro che malefatte, se si vuole essere coerentemente di sinistra non si può fare altro che espiare questo male attraverso l’autodissoluzione identitaria.
Penso che questo atteggiamento sottenda una trappola manichea che dovrebbe essere rifiutata proprio da una prospettiva progressista; ciò dal momento in cui, se la rivendicazione assoluta di primati di superiorità è senza dubbio una pretesa essenzialmente razzista indice di suprematismo bianco, il rovesciamento di tale pretesa in una stigmatizzazione assoluta che rappresenta l’Occidente solo come luogo di turpitudini sottende inevitabilmente una opposta pretesa anche stavolta razzista, ma composta di razzismo antibianco e odio antioccidentale. Ed è qui che ritengo che possa essere rivendicata una politica identitaria occidentale progressista che sia capace di sostenere in modo critico e ponderato il valore e il potenziale universalista di un nucleo di conquiste culturali e di direzioni morali dell’umanesimo.
Perciò, così come, sul piano dell’inaccettabilità, va compreso che l’universalismo eurocentrico del “noi occidentali portatori di civiltà” è un discorso opposto e complementare rispetto a quello eurofobico e vendicativo del contrappasso postcoloniale del “voi occidentali portatori di violenza”, sul piano del rischio dovremmo riconoscere la labilità del confine culturale progressista che separa la giusta e necessaria riprovazione nei confronti del colonialismo dalla sua degenerazione in odio antioccidentale. Solo così possiamo comprendere che sotto le spoglie progressiste della lotta antimperialista cova a volte un risentimento postcoloniale che alimenta e sottende una visione in gran parte reazionaria e spesso assetata di vendetta che – in processi di coalescenza intersezionale di portata globale – si lega a fondamentalismi, tradizionalismi e tribalismi, i quali, da vari punti di vista, hanno deciso che l’Occidente è il nemico mortale che li accomuna.
Pertanto, direi che i discorsi che promuovono la liberazione dalle catene coloniali passate e presenti vanno incoraggiati e sostenuti solo fino a quando non pretendono di rovesciare quelle catene sull’Occidente, infangandolo con ritratti totalmente negativi che fomentano ostilità culturale contro il Nord del mondo e alimentano un emergente fascismo esotico in cui un “noi” extraoccidentale rivolge al suo “altro” – l’Occidente – uno sguardo discriminatorio che si fa sempre più strutturale; e gli riserva intenzioni di sottomissione, stigmatizzando i suoi abitanti, gli occidentali, i “bianchi”, gli “infedeli”, come la nuova razza inferiore della contemporaneità globale.
Mentre teniamo giustamente la guardia alta contro i rigurgiti e le sopravvivenze del vecchio suprematismo coloniale occidentale, dovremmo allo stesso modo imparare a individuare e a fronteggiare l’emergere di questo nuovo suprematismo postcoloniale che si va strutturando contro l’Occidente tutto, mascherando con grammatiche progressiste quelli che, a ben vedere, sono invece contenuti reazionari, fondamentalmente fascisti in quanto anch’essi desiderosi di imporre un “noi” dominante contro l’“altro”, il diverso, il “loro” straniero: gli occidentali.
Dovremmo pertanto iniziare a riconoscere che nel presente storico in cui viviamo la cultura progressista occidentale è stretta tra la morsa di due fascismi, e l’ossessione esclusiva verso il permanere nel Nord del mondo del primo, quello “bianco”, rimanda a una speculare tendenza alla rimozione nei confronti dell’emergere nel Sud del mondo del secondo, quello “esotico”, alimentato per molti versi da un intersecarsi tra il risentimento postcoloniale e le pulsioni e i progetti shariatici di sottomissione provenienti dalla parte radicale dell’Islam, l’islamismo fondamentalista jihadista (anche qui, se è sbagliato cadere nella paranoia xenofoba sovranista che generalizza tutti i musulmani come jihadisti è altrettanto sbagliato accomodarsi sull’ingenuità xenofila immigrazionista che si ostina a non prendere coscienza del fatto che una parte dei musulmani approdati in Europa manifesta chiare intenzioni jihadiste).
In conclusione, è per tutto questo che, da una prospettiva progressista, ritengo che nel dibattito odierno sul contatto culturale tra Nord e Sud del mondo possano essere recuperati tanto i fondamenti politico-filosofici gramsciani sull’universalità dell’Occidente – che la critica postcoloniale ha rimosso nell’elevare questo pensatore a suo autore di riferimento a partire dalla nozione di egemonia – quanto il concetto demartiniano di “etnocentrismo critico” – che l’antropologia culturale ha abbandonato proprio nel suo approssimarsi al paradigma della critica postcoloniale.
Dialoghi Mediterranei, n.73, maggio 2025
Note
[1]https://www.mim.gov.it/documents/20182/0/Nuove+indicazioni+2025.pdf/cebce5de-1e1d-12de-8252-79758c00a50b?version=1.0&t=1741684578272
[2] Consapevole del fatto che non vi è un’identità totale tra di esse, tratterò spesso le categorie “Europa” e “Occidente” come sinonimi, soprattutto nei casi in cui questi termini sono riferiti al primo polo dell’opposizione Nord/Sud del mondo (questa scelta deriva da esigenze di approssimazione interpretativa e di semplificazione narrativa finalizzate al discorso complessivo che intendo qui proporre).
[3] https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/scuola-nuove-indicazioni-nazionali-valditara-storia-non-appartiene-solo-occidente-distorsione-ideologica-rqmhu5wq?fbclid=IwY2xjawJHUZRleHRuA2FlbQIxMQABHXqGx8ON5ldRIYsU3ddtxh71_M%20GKHq4eZoT-Shyi7VEKCbv-gPxNQ-KDlQ_aem_DQhB0HA4kPUqzpzRb3s6-A
[4] https://www.siacantropologia.it/prodotti/nuove-indicazioni-2025-per-la-scuola-dellinfanzia-e-il-primo-ciclo-di-istruzione/
[5] https://www.facebook.com/djarahkan/posts/pfbid0346krzhP6hG7WCTJgqrGGMtcE3r9xTPK7 sKtcEfjqQRrNV1C1kpYGsKHjuRN6BpGKl
[6] https://www.facebook.com/igiaba.scego/posts/pfbid02wtFjnve9z78KFMg7NybCsMzz79XW8g1KexLc8UC6ipAogNBhdv8xuyTPk2s2G6Xfl
[7] Rispetto al tema delle rappresentazioni dell’Occidente prodotte dalla critica postcoloniale riprenderò in questo testo una serie di temi che ho trattato in Ciccozzi 2023a.
Riferimenti bibliografici
Bateson, G., 1977, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano.
Ciccozzi, A., 2023a, Muri e ponti. Migrazioni e polarizzazione, Edizioni di Pagina, Bari.
Ciccozzi, A., 2023b, “Alterità e rischio: se il fascismo viene dal Sud del mondo”, Dialoghi Mediterranei, n. 64, Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/alterita-e-rischio-se-il-fascismo-viene-dal-sud-del-mondo/
Ciccozzi, A., 2025, “Egemonia, subalternità e ambivalenze: il Gramsci rimosso dalla critica postcoloniale” in Traducibilità e metodo in Gramsci, a cura di F. Marola e E. Puglielli, Bordeaux Edizioni, Roma.
De Martino, E., 1964, “Il problema della fine del mondo”, in P. Prini (a cura di), Il mondo di domani, Abete, Roma.
De Martino, E., 1977, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino.
Fanon, F., 1962, I dannati della terra, Einaudi, Torino.
Gramsci, A., 1975, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino.
Hegel, G. W. F., 2010, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari.
Spivak G. C., 1987, In Other Worlds: Essays in Cultural Politics, New York, Methuen.
Sumner, W. G., 1962, Costumi di gruppo, Milano, Edizioni di Comunità.
Zoja L., 2011, Paranoia. La follia che fa la storia, Bollati Boringhieri, Torino.
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Antonello Ciccozzi, è professore associato di Antropologia culturale presso Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi dell’Aquila. Si è laureato con una tesi sulla teoria ciresiana dei dislivelli di cultura. S’interessa dei processi di rappresentazione sociale della diversità culturale, di causalità culturale in ambito giuridico, di antropologia del rischio, dell’abitare, delle istituzioni, della scienza, delle migrazioni. Ha svolto ricerche etnografiche nell’Appennino rurale, in contesti di marginalità giovanile urbana, in ambito post-sismico, in luoghi di lavoro precario dei migranti.
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