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Lo yoga in Oriente e in Occidente: traduzioni interculturali

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2019 @ 00:33 In Cultura,Società | No Comments

 

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Il labirinto di Arianna

di Cristina Siddiolo [*]

Scrivere sul passaggio dello yoga dall’Oriente in Occidente è un’operazione complessa e insidiosa, se non altro perché, avendo il processo di dislocazione delle pratiche yogiche e la loro traduzione culturale nei Paesi occidentali una storia recente, non esistono ancora trattazioni esaustive sull’argomento.

Sebbene già fra i greci e i romani fosse presente una qualche forma di conoscenza yogica, grazie ai resoconti di viaggio dei visitatori stranieri che scrissero sugli usi e costumi della civiltà indiana, l’esplosione di interesse per lo yoga è un fenomeno relativamente nuovo in Occidente. Fu nel corso della seconda metà del XIX sec. che un certo tipo di attenzione per lo yoga maturò coinvolgendo un numero sempre crescente di individui al di fuori dei Paesi del sub-continente indiano, ma soltanto nel corso del XX sec. si radicò nella cultura dell’Occidente, modificandola e modificandosi a sua volta. Qui, si preparò il terreno per una profonda metamorfosi che porterà lo yoga ad assumere le cangianti, in parte incomprensibili, fisionomie odierne. Non che lo yoga, in qualità di pratica e tradizione millenaria, sia sempre rimasto uguale a sé stesso nel tempo. L’omogeneità degli stili di vita e delle pratiche è di fatto impossibile da realizzare per una qualsiasi tradizione spirituale che possa contare su una discreta estensione geografica e su un ragguardevole numero di secoli alle spalle. Lo yoga non fa eccezione: in qualità di pratica millenaria, è infatti incorso in innumerevoli trasformazioni anche all’interno del macro-contesto chiamato Oriente [1]. La stessa indagine sulla storia della parola “yoga” ha mostrato i vari slittamenti semantici che il concetto ha subìto nel corso del tempo prima di giungere ad una sua, seppur illusoria, relativa stabilità.

Lo yoga, nelle sue molteplici forme contemporanee, essendosi così strutturato soltanto negli ultimi centocinquant’anni, pur attualmente in continuo mutamento, si richiama ad una storia molto antica in cui tratti costitutivi sono stati di volta in volta attivati per identificarne una certa essenza, un cuore simbolico pulsante. Squarcini F. e Mori L. (2008) hanno evidenziato i tanti slittamenti semantici che la parola “yoga” ha subìto nel corso del tempo. Nelle fonti classiche essa è stata intesa come: “mezzo”, “metodo”, “veicolo”, “disciplina”, “pratica”, ma anche come “contatto”, “unione”, “concentrazione”, “dominio delle forze”, ecc. Tutti questi slittamenti semantici sono da ricollegare, da un punto di vista etimologico, alla radice sanscrita yui- (vicina al latino iungo) che riconduce sia al concetto di “unione” (in relazione alla dimensione divina) sia a quello di “aggiogamento” (con specifico riferimento ai sensi).

Fin dall’India del VI/V secolo a. C. si riscontrano differenti rappresentazioni e narrazioni riguardanti lo yoga. È con le Upaniṣad che ritroviamo le prime testimonianze scritte sullo yoga sebbene si presuma, attraverso gli antichi sigilli non ancora decifrati della Civiltà della valle dell’Indo, che una qualche forma di conoscenza yogica fosse presente presso questa antica e misteriosa civiltà, contemporanea probabilmente alla civiltà sumerica della Mesopotamia con cui verosimilmente ebbe dei contatti. Vale la pena sottolineare che l’avanzata [2] “civiltà di Mohenjo-dāro e di Harappā” dai due siti più importanti, tra i numerosissimi che sono stati individuati, grazie ai quali è stato possibile ricostruire l’estensione originaria del territorio, paragonabile a quella dell’Europa occidentale, è la più antica civiltà indiana a noi nota che fiorì tra il 3000 e il 1750 a. C. La fine di questa importante civiltà è da collegare, secondo gli studiosi, da una parte, a cambiamenti climatici e, dall’altra, all’arrivo degli arii vedici. La conoscenza che abbiamo di questo popolo ci deriva dal Ṛgveda, la prima raccolta di inni che compongono i Veda (1500-1200 a. C.), le prime scritture sacre dell’India composte sotto forma di mantra dagli antichi i (saggi, veggenti). Tramandati oralmente, di generazione in generazione, probabilmente attraverso particolari tecniche mnemoniche, furono messi per iscritto verosimilmente non più tardi del 500 a. C. Le Upaniṣad (700 – 300 a. C.) furono inglobate successivamente al corpus vedico e risultano essere di grande interesse ai fini dell’indagine storica sullo yoga. È proprio in un passo della Kaṭha Upaniṣad (VI-V sec. a. C.) che, per la prima volta, compare il termine yoga nella sua specifica forma adhyātma.

 «Il saggio, in seguito alla realizzazione dello yoga individuale (adhyātma yoga), avendo contemplato in sé il Dio che è difficile da vedere, che è sprofondato nel mistero, che giace nel cuore, che è riposto nella cavità, che è l’antico, abbandona il piacere e il dolore»[3].
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Teatro di Andromeda

Si ritrova inoltre il termine yoga in molteplici altre Upaniṣad fra cui la Maitrī, con il suo “sestuplice yoga”, e le più tarde Yoga Upaniṣad. Ed è proprio nella Maitrī Upaniṣad che si ritrova in nuce una vera e propria teoria yoga, simile all’ottuplice yoga (aṣṭāṅgayoga) così come esposto da Patañjali negli Yogasūtra (II-III, o IV-VI sec. d. C.), il testo radice che sintetizza, in forma di aforismi, la dottrina filosofica dello yoga. L’aṣṭāṅgayoga di Patañjali divenne nel tempo, a partire dal IV-VI sec. d. C., il modello di yoga più noto, quello a cui si ricollegano la maggior parte delle tradizioni e delle scuole attuali. La Bhagavadgītā apre poi le porte alla grande tripartizione conosciuta come karma, jñāna e baktiyoga, rispettivamente yoga dell’azione, della conoscenza e della devozione. Ulteriori variazioni particolari sul tema dello yoga sono quelle, più tarde, dello haṭhayoga, del kriyāyoga, del mantrayoga, del layayoga e del kuṇḍalinīyoga.

Sebbene con la comparsa degli Yogasūtra di Patañjali si consolidi una specifica metafisica yoga – profondamente connessa a quella del Sāṃkhya quale darśana [4] complementare – questa, tuttavia, non si è a sua volta legata indissolubilmente alle pratiche che venivano associate all’ambito definito yoga. Epurata qualsiasi declinazione metafisica, in quanto metodo e pratica ascetica, esso venne adottato in contesti religiosi altri, come ad esempio dai buddhisti e dai jainisti. Insomma, da quanto detto, sembra chiaro come i rimaneggiamenti semantici del concetto di yoga siano il frutto di specifiche interpretazioni e differenti prospettive, storicamente e culturalmente connotate. Perdere di vista questo aspetto sarebbe fuorviante poiché porterebbe lo studioso o il praticante a ritenere possibile l’esistenza di uno yoga puro, quindi originario. Il vero yoga, in termini assoluti, non esiste oggigiorno e probabilmente non è mai esistito in passato. Semmai, esistono molteplici varianti discorsive, prodotte in periodi diversi da attori sociali aventi motivazioni ed interessi differenti, non più ricostruibili nel dettaglio ma sulle quali è certamente possibile indagare attraverso le fonti storiche in nostro possesso.

Con Squarcini e Mori si può affermare che, invece di parlare di “storia dello yoga”, sarebbe più opportuno parlare della “storia dei discorsi sullo yoga”, raccontare dunque cosa il nome yoga abbia significato nel corso del tempo, chi l’abbia rivendicato e lo rivendichi, quali confini abbia tracciato, quali contestazioni sulla sua denotazione abbia sollevato. Insomma propongo di trattare lo yoga come una rappresentazione sociale che tende ad ancorare a sé dei soggetti e ad oggettivarsi in norme e istituzioni, mentre il monopolio della determinazione del suo significato rimane perennemente conteso tra svariati attori sociali. È fondamentale dunque, oggi più che mai, prendere coscienza del fatto che lo yoga è un costrutto culturale, frutto di una conoscenza condivisa in un particolare periodo storico.

Ma ritorniamo all’oggetto principale di questa trattazione, ovvero il passaggio dello yoga dall’Oriente all’Occidente, e cerchiamo di circoscrivere la questione. Finora, infatti, è stato mostrato, seppur sinteticamente, come all’interno della grande tradizione yogica orientale tale disciplina sia stata sottoposta a importanti trasformazioni in conseguenza dei mutamenti economici, religiosi, politici e socio-culturali. La logica che sottende queste tipologie di cambiamenti si fonda sulla mobilitazione di tre elementi: il mittente, il contenuto trasmesso e il destinatario. La tradizione mira, per definizione, a conservare il messaggio originario, trasmesso di generazione in generazione, e le modalità attraverso cui ad esso ci si riferisce (pratiche, metodologie, rituali). Il contenuto del presunto messaggio originario si rifà generalmente, come tratto caratteristico di moltissime tradizioni religiose, a una dimensione “superiore”, atemporale e astorica, mitica per l’appunto (Squarcini e Mori, 2008).

Tuttavia, l’analisi storica insegna che al cambiare delle narrazioni dominanti si modificano anche le pratiche e i contenuti. In sostanza, ogni concetto, che per natura è astratto, si declina, empiricamente, in pratiche specifiche. Esiste un doppio legame fra questi due poli: il concetto condiziona le pratiche le quali, a loro volta, nel loro uso storicamente connotato, modificano attivamente il concetto. Questo è un importante assunto di base della ricerca contemporanea cui questo testo si rifà esplicitamente.

Vi sono poi delle trasformazioni frutto di “traduzioni”. Ci si riferisce, in questo caso, a tutte quelle trasposizioni della nozione di yoga da un contesto all’altro e di traduzione sia sul piano letterale sia sul piano culturale. Nel passaggio dall’Oriente in Occidente lo yoga ha subito dei processi di profonda ibridazione culturale e si è costituito in nuove forme sincretiche. Questo “passaggio” avvenne, con una certa forza, in un periodo compreso tra la seconda metà del XIX sec. e la prima metà del XX sec. È in questo lasso di tempo – affermano gli studiosi – che si sviluppa il concetto di yoga moderno ed è possibile individuare le ragioni che sono alla base della sua popolarità nonché le sue peculiarità, i suoi contenuti e la sua stessa definizione. È in questo periodo che si intrecciano le storie di figure carismatiche e di insegnamenti ibridi in grado di produrre stili e, vere e proprie, correnti di pensiero diversificate. Ma tutti gli stili si rifanno, come la logica di ogni tradizione insegna, secondo un modello mitico-leggendario, a un concetto di yoga delle origini. Questa rivendicazione con le origini ha una specifica funzione: legittimare l’autorità della tradizione hic et nunc, ieri come oggi.

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Swami Vivekenanda, 1896

Ci si muove dunque su un terreno scivoloso, anche perché questa storia si sviluppa in primo luogo in un’India coloniale, impregnata anch’essa dello scientismo e del razionalismo tipicamente occidentali. Alcune figure importanti per la comprensione dello sviluppo della traduzione occidentale dell’induismo e dello yoga nella sua concezione moderna, sono state Narendranath Dutta (1863-1902), conosciuto come Swami Vivekananda, e Krishnamacharya (1888-1989).

Secondo gli studiosi lo yoga moderno ha una sua data di fondazione: l’11 settembre del 1893. Quel giorno Chicago divenne luogo di un evento destinato a segnare in profondità la storia dello yoga. A Chicago si tenne il primo Parlamento mondiale delle religioni dove si incontrarono i rappresentanti di tutte le fedi religiose organizzate del mondo. Fra i 700 relatori che vi presero parte vi fu anche Swami Vivekananda il quale introdusse al pubblico statunitense l’antica tradizione religiosa hindu. La sua relazione, che lo rese famoso e ricercato in tutti gli Stati Uniti d’America, segnò una svolta decisiva ai fini dello sviluppo della moderna auto-rappresentazione degli hindu e nell’elaborazione della traduzione occidentale dell’induismo. Egli fu allievo di Ramakrishna Paramahansa (1836-1886), un fervente mistico che influenzò molti dei più importanti intellettuali bengalesi dell’epoca. In seguito alle sue esperienze mistiche, iniziate durante il periodo dell’infanzia, Ramakrishna fu indotto a sostenere l’unità di tutte le religioni. Tutte le religioni conducono all’Uno, sebbene ci arrivino attraverso cammini vari; la diversità del percorso è funzionale alle caratteristiche del soggetto, socialmente e culturalmente connotato. Vivekananda, come i tanti che in quel particolare periodo storico (l’India è una colonia britannica) erano stati educati secondo i modelli scientifici occidentali, incontrò Ramakrishna nel 1881 e fu profondamente influenzato dal suo pensiero. Si fece monaco e ben presto divenne il suo più devoto discepolo. Quando venne organizzato il primo congresso mondiale delle religioni a Chicago Vivekananda era già ampiamente conosciuto in India. Da monaco aveva intrapreso lunghi pellegrinaggi in tutti i luoghi sacri della tradizione hindu e aveva incontrato una grande varietà di personalità religiose, intellettuali e politiche; si era convinto, di conseguenza, che la spiritualità hindu fosse precipitata in un vortice di decadenza dalla quale andava riscattata. Così, dopo la morte del maestro, decise di dedicarsi ai suoi più alti ideali realizzati attraverso tanto la vita contemplativa quanto l’azione sociale.

Vivekananda individuò specificità e peculiarità dell’induismo nel suo carattere plurale e inclusivo. Come il suo maestro, Vivekananda affermò con forza l’idea che tutte le religioni avessero pari valore e dignità: gli elementi che le distinguono non le rendono reciprocamente contraddittorie, quanto piuttosto complementari. Ognuna di esse traccia una specifica traiettoria nel viaggio di comprensione dell’Uno, di Dio in ogni sua forma e versione. Nelle sue parole: «La mia idea è che tutte queste religioni sono diverse forze nell’economia di Dio, operanti per il bene dell’umanità; e che neanche una può morire, né può essere fatta morire»[5].

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Shri Yogendra

Vivekananda crede fortemente che la pace non possa essere raggiunta attraverso la semplice tolleranza, ma solo ed esclusivamente attraverso la comprensione. «Dobbiamo imparare di nuovo che tutte le religioni, con qualunque nome vengano chiamate, sia indù, buddista, maomettana, o cristiana, hanno lo stesso Dio, e che colui che deride una di queste (religioni), deride il suo stesso Dio»[6].

Tuttavia, pur sostenendo il pari valore di tutte le religioni, Vivekananda manifestò la convinzione secondo cui l’induismo (o meglio il Vedanta, in una personale interpretazione semplificata) rappresentasse l’espressione più alta del fenomeno religioso e della spiritualità, in quanto religione intrinsecamente più universalista e quindi maggiormente adatta a rispondere alle esigenze del suo tempo. Da qui deriva l’adozione, nel comune immaginario occidentale, del Vedanta – o meglio, della sua interpretazione – quale rappresentazione esemplificativa dell’induismo in generale. Altra conseguenza significativa ai fini della storia dello yoga moderno fu l’eredità del famoso distinguo da lui operato fra Oriente e Occidente: l’uno spirituale e l’altro materiale. L’India è, per Vivekananda, il faro spirituale dell’umanità; uno dei suoi più importanti patrimoni è lo yoga, termine che in verità non venne mai pronunciato durante la relazione di Chicago. Quando, tuttavia, in un ritiro spirituale del 1895 in Ontario (Canada), Vivekananda si dedicò alla formazione dei suoi primi discepoli, presentò lo yoga come un insieme di metodi atti al raggiungimento del divino e suddivise lo yoga in quattro grandi percorsi (karma, bhakti, rāja e jñānayoga), ognuno adatto alle diverse tipologie di ricercatori spirituali. Il Rāja Yoga proposto da Vivekananda era caratterizzato dall’enfasi posta sulla componente meditativa e contemplativa ed era percepito come compatibile con idee e valori moderni.

Su un punto Vivekananda fu altrettanto chiaro e inequivocabile: egli prese apertamente le distanze dalla dimensione fisica dello yoga. Nell’India britannica, infatti, particolari e difficili posture yogiche erano utilizzate da yogin, fachiri e mendicanti, per sollecitare le elemosine degli hindu più abbienti. Agli occhi degli europei e degli hindu appartenenti alle caste più alte queste esibizioni erano viste come ridicole, bizzarre e, nella migliore delle ipotesi, misteriose. L’avversione di Vivekananda nei confronti dell’haṭhayoga e degli āsana (posizioni) va dunque letta in un contesto socio-culturale più ampio e complesso. Non si deve dunque a lui la delineazione di questo aspetto quale tratto caratteristico dell’attuale immaginario collettivo occidentale sullo yoga, quanto, piuttosto, la riabilitazione dello yoga dagli stereotipi negativi con cui era stato identificato alla fine del XIX secolo.

Al pari di Vivekananda, anche Paramahanasa Yogananda (1893-1952) affermò la fondamentale unità delle grandi religioni del mondo e implementò la via esperienziale alla conoscenza. Durante i suoi trent’anni in Occidente (dal 1920) egli insegnò i metodi del Kriya Yoga – una particolare tecnica meditativa in grado di accelerare l’evoluzione spirituale individuale – dando l’iniziazione a più di 100 mila persone. Fra i suoi studenti si annoverano eminenti figure del mondo della scienza, della politica, degli affari e delle arti. I suoi testi, fra cui Autobiografia di uno yogi, ebbero un fortissimo impatto in Occidente e l’organizzazione da lui fondata, Self-Realization Fellowship (SRF), oggi ha sedi in tutto il mondo.

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Swami Kuvalyananda

Intanto, nei primi decenni del XX sec. in India maturò un cospicuo interesse nei confronti della cultura fisica, interesse fra l’altro che investì gran parte dei Paesi occidentali. Nello specifico, in India, il richiamo ad una peculiare cura nei confronti del corpo venne implementato dai sostenitori della lotta di indipendenza nazionale. L’assunto di base, ben nascosto alle autorità inglesi, era il seguente: forgiare corpi più sani e più forti così da poter fronteggiare, al momento opportuno, la potenza coloniale aumentando le probabilità di successo nel caso di aperti scontri armati. E lo yoga dunque fu non soltanto uno strumento idoneo a rafforzare i corpi, quanto, incredibilmente, uno stratagemma per sfuggire ai controlli delle autorità coloniali. Generalmente questi sistemi ibridi di potenziamento e promozione della forma fisica erano chiamati ricorrendo al termine «yoga». K. Raghavendra Rao (1890-1996), conosciuto come Tiruka (letteralmente mendicante) addirittura usava travestirsi da asceta e da maestro religioso per addestrare, senza destare sospetti, i suoi discepoli alla lotta per la libertà. Ma Tiruka non fu certo un’eccezione. Furono diversi i maestri, come il riformista nazionalista della cultura fisica Manick Rao, che utilizzarono le tradizionali tecniche dello yoga coniugate a quelle provenienti da altre discipline ginniche quali ad esempio gli esercizi di resistenza e di sollevamento pesi, per irrobustire i corpi. Il discepolo più famoso di Rao fu Swami Kuvalayananda (1883-1966) il quale divenne l’insegnante di yoga più influente dei suoi tempi. Durante gli anni venti, Kuvalayananda, insieme al suo rivale Śrī Yogendra (1897-1989) furono determinanti nel costituire un immaginario dello yoga indissolubilmente legato alla promozione della salute fisica, soprattutto entro i confini del territorio indiano.

Śrī Yogendra, definito il padre del Modern Yoga Renaissance, fu il principale responsabile di una certa semplificazione degli āsana. Nel 1918 fondò un importante istituto di yoga a Bombay (l’attuale Mumbay) e successivamente, nel 1920, istituì una filiale del The Yoga Institute a New York dove collaborò con molteplici personalità di spicco fra cui Benedits Lucs, uno dei fondatori della medicina naturopatica. Sono paradigmatiche le parole che utilizza Lucs per descrivere la figura di Śrī  Yogendra:

«Śrī  Yogendra era un nuovo tipo di insegnante asiatico. Né un antico cantore di testi né un asceta nascosto per anni nelle colline dell’Himalaya, come Vivekananda, era già parzialmente un occidentale prima che arrivasse negli Stati Uniti. Cresciuto in un’India britannica, iscritto –  prima di incontrare il suo guru – al St. Xavier’s College di Bombay, traducendo il messaggio yogico in un gergo scientifico, collegando le sue opinioni filosofico-religiose a quelle di Plotino e di Henri Bergson, Śrī  Yogendra era un prodotto misto di Oriente e Occidente»

In sintesi, grazie al sostegno del governo indiano, i loro insegnamenti si diffusero in tutto il territorio indiano e gli āsana, riformulati come cultura fisica e terapia, acquisirono rapidamente una legittimità che non avevano goduto in precedenza. Sebbene Kuvalayananda e Yogendra siano per lo più sconosciuti in Occidente, il loro lavoro di diffusione è in grande parte alla base delle pratiche odierne di yoga.

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Krishnamacharya

A Krishnamacharya, tuttavia, dentro e oltre i confini indiani, si deve la determinazione della moderna definizione di āsana: questo è il contributo più grande ai fini della costruzione dello yoga moderno. Già nella sua più antica declinazione, l’Aṣṭāṅga Vinyasa Yoga è l’esito di una complessa ricerca e si configura come un sistema ibrido in cui confluiscono tecniche e pratiche che derivano dall’haṭhayoga, dalla lotta libera e da diverse tipologie di addestramento fisico e di allenamento ginnico e aerobico. L’Aṣṭāṅga Vinyasa Yoga, attualmente uno degli stili più amati e popolari dello yoga moderno, è caratterizzato dall’esecuzione fluida e continua di numerosi āsana, coordinati con il respiro. Krishnamacarya, uno dei grandi protagonisti della storia dello yoga moderno, fu anche il maestro di alcune delle maggiori personalità caratterizzanti il mondo dello yoga durante la seconda metà del XX sec. in molti Paesi del mondo. Fu un vero e proprio pioniere nello studio anatomico e terapeutico di ogni singolo āsana, nonché nell’organizzazione sequenziale delle posture. Fra i suoi allievi più importanti è impossibile non menzionare: K. Patthabi Jois (1915-2009), B. K. S. Iyengar (1918-2014), Indra Devi (1899-2002) e Desikachar (1938-2016). Ognuno di loro sviluppò un proprio stile di yoga, con un proprio specifico metodo, contribuendo a creare una sorta di polifonia nell’universo yoga. Nello specifico: K. Patthabi Jois proseguì la ricerca del maestro e definì l’Aṣṭāṅga Vinyasa Yoga nella forma universalmente oggi nota, con le sue sei serie a ciascuna delle quali corrispondono āsana con diversa difficoltà di esecuzione organizzati in sequenze; Iyengar sviluppò un particolare stile (chiamato Iyengar yoga) caratterizzato da un attento studio anatomico, da un’importante attenzione data alla qualità terapeutica della pratica e dall’utilizzo di sostegni come blocchi, cinghie, cuscini, mattoncini e sedie per il raggiungimento dei corretti allineamenti corporei (sommariamente uno stile arduo e impegnativo); Indra Devi sviluppò il cosiddetto Sai Yoga, caratterizzato dal principio della sequenzialità nell’esecuzione degli āsana, da una specifica associazione fra āsana e prāṇāyāma e da una dimensione devozionale molto intensa che si esprimeva nella pratica attraverso la realizzazione di una meditazione; infine, Desikachar (figlio di Krishnamacarya) sviluppò lo stile definito Viniyoga, termine che fu da egli coniato nel 1983 per definire la più tarda proposta di yoga del padre, caratterizzato da un’estrema personalizzazione della pratica, che si adatta all’esigenze di ciascun praticante e prevede una relazione diretta fra maestro e discepolo.

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Krishnamurti negli anni Venti

Pochi, inoltre, sono a conoscenza del fatto che alle radici dello yoga moderno vi sono numerose organizzazioni di carattere esoterico collocabili nell’Europa di fine Ottocento. Lo yoga era conosciuto e praticato da molti esoteristi dell’epoca. In tale direzione risulta, per esempio, particolarmente interessante la figura di Jiddu Krishnamurti (1895-1986). Allievo di Yiengar e Desikachar, Krishnamurti fu il presidente dell’Ordine della Stella d’Oriente, organizzazione nata nel 1911 con l’intento di preparare l’avvento del “Maestro del Mondo” alla quale era stato messo a capo appena sedicenne dal suo tutore legale Annie Besant (1847-1933), a sua volta presidente della Società teosofica, organizzazione fondata da Helena Petrovna Blavatsky e da Steel Olcott nel 1875 a New York, dedita allo studio e alla divulgazione della teosofia (letteralmente “sapienza divina”). La vita di J. Krishnamurti fu caratterizzata da una grave crisi psicologica causatagli da una serie di “iniziazioni” esperite in età giovanile dalla quale riuscì a venire fuori nel 1922 grazie ad una straordinaria esperienza mistica che egli stesso decise di raccontare. A partire da quell’evento egli mise sempre più in discussione gli assunti su cui si fondava l’organizzazione e nel 1929, all’età di 34 anni, decise di sciogliere l’Ordine con un discorso che è rimasto nella storia del suo peculiare pensiero filosofico. Nelle sue parole:

«Ritengo che la Verità sia una terra senza sentieri e che non si possa raggiungere attraverso nessuna via, nessuna religione, nessuna scuola. Questo è il mio punto di vista, e vi aderisco totalmente e incondizionatamente. Poiché la Verità è illimitata, incondizionata, irraggiungibile attraverso qualunque via, non può venire organizzata, e nessuna organizzazione può essere creata per condurre o costringere gli altri lungo un particolare sentiero. Se lo comprendete, vedrete che è impossibile organizzare una “fede”. La fede è qualcosa di assolutamente individuale, e non possiamo e non dobbiamo istituzionalizzarla. Se lo facciamo diventa una cosa morta, cristallizzata; diventa un credo, una setta, una religione che viene imposta ad altri» (Discorso di scioglimento dell’Ordine della Stella, 3 agosto 1929, Ommen, Paesi Bassi).

Diversi studi dimostrano quanto influenti furono dunque le azioni dell’esoterismo occidentale, del mesmerismo e della teosofia sulle traduzioni dello yoga in contesto europeo e statunitense (Squarcini, 2008). In sostanza, queste forme di traduzione fra tradizioni varie comportarono tipologie differenti di assimilazione e composizione a cui poi, successivamente, contribuirono il movimento hippie e della beat generation negli anni sessanta e il movimento new age in seguito. Basti considerare, in qualità di esempio fra i tanti possibili, l’impatto che ebbe sulle masse il soggiorno dei Beatles nel 1968 a Rishikesh (India), presso l’ashram di Maharishi Maesh Yogi (1918-2008).

Per concludere, sintetizzando, lo yoga contemporaneo è il frutto di dinamiche transnazionali difficili da individuare nella loro linearità poiché lineari, per l’appunto, non sono. Al pari della vita stessa e dei suoi complessi tornanti, lo yoga si trasforma e continuerà a trasformarsi.

Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
[*] Testo della relazione presentata al Convegno internazionale “Peoples and cultures of the world”, Università degli Studi di Palermo, 24-25 gennaio 2019.
 Note

[1] Oriente e Occidente non sono due ‘oggetti’ la cui definizione possa essere data una volta per tutte, non sono entità stabilite a priori, in sé omogenee, univoche e circoscritte. Non esistono in qualità di essenze. Esse sono invece costrutti culturali storicamente connotati. La scelta stessa dei parametri di definizione è arbitraria e socialmente condivisa, nonché influenzata da un immaginario collettivo costituito di immagini stereotipate che creano la falsa illusione di conoscere direttamente e realmente quelle specifiche realtà altre, geograficamente e culturalmente lontane.
[2] Si tratta di una civiltà tecnologicamente estremamente avanzata. Vivevano in grandi città, fornite di servizi idrici e fognari, con strade ampie e con un’interessante e assai razionale tipologia di strutture abitative caratterizzate da case piccole, tutte uguali costruite con mattoni cotti; vi era poi la cosiddetta “cittadella”, sede verosimilmente del potere politico e religioso, ove si trovavano gli edifici più grandi tra i quali spiccano i grandi bagni, con funzione probabilmente religiosa. Questa civiltà non è testimoniata né da testi letterari, né da epigrafi, ma solo da sigilli non ancora decifrati.
 [3] Katha Upanisad, I .2.12, traduzione di Pio Filippani Ronconi, in Upaniṣad antiche e medie, Torino, Boringhieri, 2007: 347.
[4] Nell’ambito della cosiddetta tradizione (smṛti) si svilupparono, in un periodo compreso fra il 600 a. C. e il 100 d. C., una serie di scuole di pensiero chiamate darśana (da drś “vedere”) che si differenziano non tanto per l’oggetto di speculazione in sé, il quale poteva anche essere il medesimo, quanto per il particolare punto di vista con il quale tale oggetto veniva considerato.
 [5] Cit. in Angelillo M., Modern Yoga, Milano, 2017: 23
 [6] ibidem.
Riferimenti bibliografici
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Bartoli C., La teoria della subalternità e il caso dei dalit in India, Rubbettino, Catanzaro, 2008
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Squarcini F. e Mori L., Yoga. Fra storia, salute e mercato, Carocci, Roma 2008
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 Sitografia
http://legacy.jkrishnamurti.org/it/about-krishnamurti/dissolution-speech.php

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Cristina Siddiolo, laureata presso l’Università degli Studi di Palermo, è antropologa, formatrice, educatrice ed insegnante di yoga certificata. In qualità di cultrice di storia e filosofia dello yoga, insegna presso la scuola per istruttori di yoga “Oriente-Occidente” coordinata dall’associazione Metamorfosys. È docente di hatha yoga in diversi centri e istituti scolastici della città di Palermo e utilizza lo yoga come strumento educativo per lo sviluppo armonico della persona.

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