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Lo sfruttamento della manodopera agricola in nord Italia: il caso del Friuli Venezia Giulia

caporalatodi Paolo Attanasio [*]

Introduzione 

Gli avvenimenti dell’estate 2024 (culminati nella tragica e assurda morte di Satnam Singh nelle campagne del basso Lazio) hanno bruscamente riportato all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale il fenomeno dello sfruttamento del lavoro operaio in agricoltura. Si tratta di un tema spesso e volentieri passato sotto silenzio dai grandi media e quasi assente dal discorso pubblico, forse perché non si limita a denunciare condizioni di lavoro inaccettabili, ma chiama direttamente in causa i rapporti di forza fra i diversi attori della filiera agroalimentare, gli enormi interessi in gioco e, non da ultimo, il comportamento di ciascuno di noi in quanto consumatore.

Si tratta di un sistema articolato e complesso, che vede i lavoratori stranieri (non di rado richiedenti asilo) come ultimo (e più fragile, ancorché imprescindibile) anello di una catena caratterizzata dall’iniqua ripartizione dei benefici al proprio interno. Otto anni dopo l’approvazione di una specifica legge sul caporalato  (per la quale ci volle la morte di una bracciante – italiana – nelle campagne pugliesi), la situazione non è cambiata, ma ha certamente assunto nuovi aspetti e nuove sembianze. A differenza del 2015, però, ormai si fa strada la convinzione (pur se non ancora universalmente accettata) che il fenomeno non si limita alle regioni centro-meridionali del Paese, ma esiste e prospera in tutta l’agricoltura, da Nord a Sud, e tende ad assumere dimensioni sistemiche. Non a caso proprio un recente dossier di Terra! sull’agricoltura lombarda pone in evidenza i meccanismi  di sfruttamento presenti, fra l’altro, nelle filiere del melone e della produzione di insalate in busta, oltre che della produzione suinicola, mettendo in risalto il ruolo preponderante della Grande distribuzione organizzata (GDO) nella formazione dei prezzi.

Questo lavoro si concentra sul Friuli Venezia Giulia, una regione con un ruolo non certo decisivo nel contesto del settore primario nazionale (con l’ 1,8% della Superficie Agricola Utilizzata – SAU – in Italia, che diventa il 4,4% se rapportata alla sola viticoltura) [1], ma con una produzione vitivinicola  di eccellenza, nota anche a livello internazionale. Nel discorso pubblico, sui media regionali, ma anche nelle istituzioni che governano il territorio si fa ancora molta fatica ad emanciparsi dal racconto dell’“isola felice”. Non è un caso che, a distanza di otto anni dall’approvazione della legge 199/2016, la Regione ancora non abbia legiferato in materia [2], e anche il dibattito in Consiglio regionale sia stato finora pressoché assente. In realtà alcune inchieste della stampa locale hanno cercato sì di squarciare il velo, ma pur sempre in un’ottica  del tipo “qui da noi è diverso”, come testimoniato da diversi articoli sui giornali locali [3].

Un aspetto che rende il Friuli Venezia Giulia un osservatorio unico a livello nazionale è senza dubbio il fatto di essere il naturale punto di arrivo della “Rotta balcanica”. Gli oltre 4.000 richiedenti asilo ospitati nei centri di accoglienza (per il 94% nei CAS, Centri di Accoglienza Straordinari) [4] rappresentano una forza lavoro in un certo senso “ideale” da adibire al lavoro agricolo, in quanto altamente ricattabile per via sia dell’estrema necessità di trovare un’occupazione remunerata in tempi brevi, che della scarsissima dimestichezza con la lingua e le regole del mondo del lavoro locale. In condizioni ancora peggiori si trovano poi quanti non presentano una domanda di asilo in Italia, in quanto hanno l’intenzione di proseguire al più presto verso altri Paesi. Nel pur breve periodo che trascorrono in regione, anche queste persone hanno comunque un’estrema urgenza di lavorare, proprio per continuare il viaggio, ma non dispongono neppure di quella minima sicurezza rappresentata dal vitto e alloggio in accoglienza. Sono proprio questi che tendono a restare intrappolati nel bisogno congiunto di lavoro e abitazione, e destinati quindi a finire nel mercato dei subaffitti illegali di posti letto.

Questo articolo si concentra, nel contesto del settore primario regionale, sul comparto vitivinicolo, che racchiude al proprio interno sia nicchie di eccellenza (come i rinomati bianchi delle DOC Collio e Colli Orientali) che i vini dei piccoli produttori (spesso a conduzione familiare) del Friuli occidentale, che tutelano il valore del proprio prodotto associandosi in cooperative che sono diventate nel tempo il tratto distintivo della produzione di vino in provincia di Pordenone. Un modello produttivo estremamente articolato  e frammentato che, insieme alle dinamiche di mercato dettate dall’evoluzione dei consumi e alle condizioni di lavoro proprie del settore agricolo (prima fra tutte l’estrema flessibilità e l’intrinseca instabilità nel tempo) va inevitabilmente ad influire sui destini della manodopera, soprattutto di quella straniera, caratterizzata da forti profili di debolezza e di ricattabilità, che ne fanno il bersaglio predestinato di pratiche di sfruttamento.

bracciantiIl quadro migratorio regionale 

Per la prima volta nel 2024 l’incidenza percentuale dei residenti stranieri in Friuli Venezia Giulia raggiunge valori a due cifre, attestandosi al 10,2%. In valori assoluti, si tratta di oltre 121.000 persone, su una popolazione totale che sfiora gli 1,2 milioni di abitanti. Si tratta di un’incidenza che pone il FVG in coda all’area del Nord-Est (dove la percentuale di stranieri residenti raggiunge l’11,2%), ma al di sopra del dato nazionale, pari al 9,0%. Naturalmente non è sempre stato così (nel 1981 i residenti stranieri non arrivavano a 5.000), in quanto la regione ha anche una solida tradizione di emigrazione all’estero: ancora oggi, infatti, il numero dei corregionali all’estero (quasi 200.000, di cui  oltre la metà in Europa, e circa 45.000 nella sola Argentina) supera di gran lunga quello dei residenti stranieri in regione. Come nel resto d’Italia, la nazionalità maggiormente rappresentata è la romena (con il 22% del totale), seguita a distanza dal gruppo albanese (con l’8,2%) e dai cittadini bangladesi (5,9%). Questi ultimi sono peraltro concentrati nella provincia di Gorizia (Monfalcone), dove sfiorano il 30% del totale dei residenti stranieri.  Come è noto, il Friuli Venezia Giulia (e, in particolare, Trieste) rappresenta la mèta finale della cd. Rotta balcanica, il lungo percorso che, con diverse varianti, porta i richiedenti asilo (in genere di provenienza asiatica) dalla Grecia fino all’Italia. Alla metà di luglio del 2024 i migranti in accoglienza, in regione, erano poco più di 4.000.

Per quanto riguarda l’occupazione, i lavoratori stranieri rappresentano quasi l’11% dei circa 520.000 occupati totali in regione, con una partecipazione femminile del 43% (rispetto ad una percentuale di donne, fra i residenti stranieri, di oltre il 50%) Poche cifre bastano a dare un quadro della partecipazione subalterna degli stranieri al mercato del lavoro regionale: iniziando dalla classica piramide rovesciata delle tipologie di impiego, vediamo che nel lavoro manuale non qualificato, gli stranieri sono il 18%, contro il 7% degli italiani; all’altra estremità, e cioè nel gruppo dirigenti, professioni intellettuali e tecniche, gli stranieri superano di poco il 14%, mentre gli italiani sfiorano il 37%. Fra i sovraistruiti (una piaga storica del mercato del lavoro italiano), la media generale del 30% nasconde al proprio interno un 29% di italiani contro quasi il 40% di stranieri. Passando alla disoccupazione, anche qui il 4,6% di media significa in realtà il 3,9% per gli italiani (una disoccupazione cd. frizionale), ma ben il 9,5% per gli stranieri. Lo svantaggio strutturale degli stranieri nella partecipazione al mercato del lavoro non può non riflettersi anche negli infortuni sul lavoro. Su un totale di 16.888 denunce di infortunio pervenute all’INAIL nel 2022, oltre 4.000 riguardavano lavoratori stranieri, cioè oltre il 31%, mentre i lavoratori stranieri attivi in FVG sono, come abbiamo appena visto, soltanto l’11% del totale.

caporalato-friuli-venezia-giulia-1Il settore primario in Friuli Venezia Giulia 

Coerentemente con una tendenza consolidata a livello nazionale ed europeo (ma persino superando la prima), anche in Friuli Venezia Giulia le aziende agricole diminuiscono di numero e aumentano di superficie. Secondo l’ultimo Censimento agricolo regionale  (ottobre 2022), il numero delle aziende  agricole attive in FVG  (16.400,  con quasi 300.000 ha di superficie totale) è calato, negli ultimi dieci anni, del 26,3%, mentre rispetto al Censimento del 1982, «si registrano tre aziende su quattro in meno» [5], un calo decisamente maggiore di quello del 63,8% registrato a livello nazionale. «Metà della superficie è utilizzata dal 5,6% delle aziende più grandi, quelle che conducono appezzamenti di almeno 50 ettari». Mentre nel 1982 le aziende del FVG avevano una dimensione media di 4,2 ettari (SAU), nel 2020 (anno di riferimento dell’ultimo Censimento) il valore medio è passato a 13,7 ha, superando sia il valore nazionale (11,1 ha) che quello della ripartizione geografica Nord-Est (13 ha). Di conseguenza, anche la forma giuridica delle aziende agricole regionali ha una quota di società di persone e di capitali dell’11,1%, contro il 5,8% a livello nazionale e il 10,9% nel Nord-Est.

Per quanto riguarda l’utilizzo della superficie coltivabile, oltre la metà del totale (158.130 ha) è coperta da seminativi. Le coltivazioni legnose agrarie occupano oltre 33.000 ha, di cui oltre 26.000 dedicati alla coltivazione vitivinicola, ripartiti su un totale di 4.774 aziende con viti. Oltre 3.000 ha sono dedicati (soprattutto nel Friuli occidentale) alla coltivazione di barbatelle e piante marze  da impianto, il 9,3% della superficie dedicata alla coltivazioni legnose agrarie (che a livello nazionale   rappresentano solo l’1,5%).

Il settore primario non ha un peso particolarmente rilevante nell’economia regionale, se si pensa che, nel 2022, il suo valore aggiunto  è pari a 550mln di euro, su un totale di 38.718 milioni (1,42%). In termini percentuali, il dato appare anche in leggera flessione rispetto all’1,5% registrato nel 2021[6]. Per fare un confronto, si consideri che lo stesso dato è del 2,2% a livello nazionale e dell’ 1,9% a livello europeo (Osservatorio sull’economia del Friuli Venezia Giulia, settembre 2023)[7]. Anche il tasso di crescita delle imprese agricole, nel 2023, è calato dell’1% rispetto all’anno precedente. Nel decennio 2013-2022 il valore aggiunto del settore “agricoltura, silvicoltura e pesca” in regione è cresciuto fino a raggiungere un picco di  657 milioni nel 2018, per poi crollare a 505 nel 2020 e lentamente a riprendersi, fino a toccare la cifra di 550 milioni nel 2022.   Spesso, come vedremo meglio più avanti, i piccoli agricoltori (che ad ogni modo negli ultimi tempi stanno diminuendo) non considerano l’azienda agricola come particolarmente redditizia,  e la problematica del ricambio generazionale in azienda costituisce, come confermato da varie interviste, una delle maggiori criticità che si trovano a dover affrontare.

braccianti-caporalato-1200I lavoratori in agricoltura – i dati  sulle presenze ufficiali

Come è noto, l’agricoltura è probabilmente il settore economico con il più alto livello di  precarietà della manodopera, e una forte flessibilità sia nelle assunzioni (che, almeno per gli  operai, avvengono attraverso una sorta di contratto a chiamata, su base giornaliera e oraria) che nello svolgimento delle mansioni. Inoltre il contratto agricolo (disciplinato a livello provinciale), se a tempo determinato, non prevede limitazioni alla proroga (“sono in Italia da 33 anni, e da 32 lavoro come operaia agricola a tempo determinato per la stessa azienda”, ci ha detto una lavoratrice (int. n. 46). Queste caratteristiche, come pure la pesantezza fisica e la pericolosità intrinseca del lavoro (seconda forse soltanto al lavoro in edilizia) fanno sì che  il settore conosca una penuria grave, e pressoché cronica, di manodopera. Come ci ha detto un intermediario intervistato, “è normale che le persone considerino il lavoro in agricoltura come un ripiego, lo fanno soltanto se non hanno alternative, e cercano appena possono di diventare operai di fabbrica, dove gli orari sono più regolari e le paghe migliori” (int. n. 11).  In sostanza, quello in agricoltura non è soltanto il tipico lavoro che gli italiani non vogliono più fare, ma anche per gli stranieri  rappresenta una sorta di passaggio obbligato che cercano di lasciarsi alle spalle al più presto.

Vediamo qui di seguito una schematizzazione delle presenze negli ultimi anni: 

Tab. 1: Friuli Venezia Giulia e province. Operai a Tempo Determinato (OTD) e Operai a Tempo Indeterminato (OTI). 2019-2022 2019 2020 2021 2022
Zone OTI OTD OTI OTD OTI OTD OTI OTD
Udine 1.189 6.651 1.210 6.749 1.186 6.751 1.277 6.605
Gorizia 306 2.320 307 2.337 339 2.225 354 2.244
Trieste 90 388 93 489 85 553 83 515
Pordenone 750 5.727 776 5.377 776 5.573 847 5.596
Friuli V.G. 2.335 15.086 2.386 14.952 2.386 15.102 2.561 14.960
ITALIA 105.172 965.621 105.898 932.564 108.547 918.963 111.937 892.308
Fonte:  Elaborazione del dott. Domenico Casella (CREA) su dati INPS 
  2019 2020 2021 2022
Zone OTI OTD OTI OTD OTI OTD OTI OTD
Udine 190 2.134 202 2.218 203 2.223 220 2.300
Gorizia 79 1.025 72 1.068 84 1.005 85 1.068
Trieste 39 164 45 288 39 316 32 289
Pordenone 205 3.702 221 3.374 229 3.588 276 3.614
Friuli V.G. 513 7.025 540 6.948 555 7.132 613 7.271
ITALIA 24.375 359.906 25.085 333.246 26.424 334.933 28.009 334.514
Tab. 2: Friuli Venezia Giulia e province. OTD e OTI stranieri. 2019-2022 
Fonte:  Elaborazione del dott. Domenico Casella (CREA) su dati INPS 

Nel 2022, in Friuli Venezia Giulia vi erano  14.960 operai a tempo determinato (OTD), dato sostanzialmente stabile  nell’arco degli ultimi 4 anni, e soltanto 2.561 a tempo indeterminato (OTI),  in leggera crescita rispetto gli anni precedenti (+9,6% rispetto al 2019). A riprova di quanto si notava sopra sulla precarietà tipica del lavoro in agricoltura, gli operai a tempo determinato sono, a livello regionale,  l’85,4% del totale (contro 88,8% a livello nazionale). Se guardiamo invece agli stranieri (tab. n. 2), gli OTD sono ben il 92,2% del totale. In altre parole, in un universo lavorativo caratterizzato da una generale precarietà, questa si fa ancora più acuta quando per i lavoratori stranieri.  È anche importante notare che l’impiego a tempo indeterminato (e quindi come OTI) è in misura maggiore appannaggio dei cittadini italiani, che sono oltre il 76% del totale. “I lavoratori a tempo indeterminato in azienda  sono solo sette, tutti uomini e tutti italiani”, ci dice ancora la lavoratrice intervistata (int. n. 46).  

Dal confronto fra le due tabelle si evince infatti che il lavoro in agricoltura tende sempre più nel corso degli anni ad accentuare la propria componente straniera, soprattutto se consideriamo gli OTD. Mentre questi ultimi (fra il 2019 e il 2022) sono addirittura in calo, fra gli stranieri crescono infatti di 246 unità. Secondo i dati INPS del 2023, la componente straniera dei lavoratori agricoli in regione ha superato la metà del totale, raggiungendo i 7.893, su un totale di circa 15.000 [8].

caporalato-1Stima dei lavoratori irregolari, mission impossibile?

I dati presentati nel paragrafo precedente riguardano ovviamente soltanto i lavoratori e le giornate regolarmente registrate. Ben più complessa risulta invece una stima del lavoro grigio e nero, per la quale bisogna inevitabilmente mettere in conto un certo margine di approssimazione, e notevoli variazioni da una fonte all’altra.

Sulla base di dati ISTAT la CGIA di Mestre stima che, nel 2021, in Friuli Venezia Giulia ci siano stati 46.400 lavoratori irregolari in totale, in calo rispetto ai 54.300 stimati all’inizio del 2019 [9]. Considerando una forza lavoro totale di quasi 520.000 persone, gli irregolari totali sarebbero l’8,9%. Sapendo poi che i lavoratori agricoli in FVG sono (sempre nel 2021)  un totale di 17.488 (Rapporto CREA 2021: 1), potremmo stimare in poco più di 1.500 il numero di irregolari (l’8,9% del totale). Tale cifra risulta però sottostimata per il fatto che il tasso di irregolarità in agricoltura è maggiore di quello riscontrabile nell’economia in generale. Lo stesso Ufficio studi CGIA lo situa infatti al 16,8%. Sarebbe dunque  più appropriato stimare il numero di irregolari in agricoltura nel 2021 a 3.000 scarsi (e cioè il 16,8% del totale). Secondo le stime dell’Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI-CGIL, i lavoratori irregolari sul territorio regionale sarebbero  invece fra i 4.000 e 5.500 [10].

Come si vede, le stime proposte variano fra loro in maniera considerevole, il che sta a testimoniare quanto sia ardua l’impresa di cercare di capire quanti siano in realtà i lavoratori agricoli irregolari, come ci ha ribadito uno dei sindacalisti intervistati: “è assolutamente illusorio tentare una stima quantitativa di questa categoria di invisibili” (int. 44).

media_post_hlh9lpb_ingredienti-sfruttamento-sliderI meccanismi dello sfruttamento. Le modalità di reclutamento

Fino a non molto tempo fa, l’agricoltura regionale impiegava manodopera locale stabile, mentre per determinati picchi (ad esempio la vendemmia), si faceva essenzialmente affidamento su studenti e pensionati. Diverse sono le cause che hanno favorito l’inaridimento di questa fonte di manodopera: non solo il declino demografico, ma anche le diverse aspirazioni dei giovani (“i miei figli hanno fatto l’università, uno ora è a Barcellona, l’altro in Inghilterra, a fare questo lavoro non ci pensano minimamente”, ci ha detto un produttore  di uve da vino  della provincia di Pordenone, int. n. 18). Per quanto riguarda i pensionati, i recenti casi di incompatibilità rilevati dall’INPS fra alcune tipologie di pensione e le prestazioni lavorative hanno sicuramente assestato un duro colpo alla loro disponibilità a lavorare in agricoltura per arrotondare le entrate [11]. Oltre a ciò, non va dimenticato che anche le esigenze della produzione sono mutate: “Oggi produciamo 20 volte le barbatelle che producevamo 90 anni fa, e questo influisce ovviamente anche sul fabbisogno di manodopera”, ci ha detto il presidente di un importante vivaio cooperativo di produzione di barbatelle (int. n. 22).

Con l’arrivo dei lavoratori stranieri, si modifica anche il sistema di reclutamento, che si evolve verso l’esternalizzazione di buona parte delle lavorazioni. Le difficoltà di comunicazione, insieme al ruolo tutto sommato marginale dei Centri per l’impiego, fanno sì che il reclutamento sia mediato da imprese individuali o cooperative che si presentano all’imprenditore agricolo offrendogli di portare a termine diverse lavorazioni con manodopera propria: il compenso viene pattuito a corpo o ad ettaro, a seconda dei casi. Secondo un imprenditore agricolo, “i lavoratori forensi, per potatura, stralciatura, vendemmia (manuale), li troviamo presso le cooperative. Ora non c’è più manodopera locale, il lavoro in campagna è poco attraente , e quindi ora ci sono immigrati, rifugiati. (…). Loro vengono a cercare noi, si avvicinano, si presentano, li provi, e li selezioni. Sono cresciuti soprattutto negli ultimi tre-quattro anni. Il tracollo della manodopera è stato con il COVID. È stato così per tutti” (int. n. 51).

Chi sono queste imprese, e come operano? Secondo le informazioni ricevute dalla Guardia di Finanza di Pordenone, “l’appaltatore si assume tutta la responsabilità e il proprietario si smarca da  qualunque tipo di coinvolgimento. Il proprietario del fondo dà per scontato che i contratti collettivi di lavoro vengano rispettati, anche se spesso non è così”. (int. n. 6). Che l’imprenditore agricolo chiuda volentieri un occhio sui rapporti fra il titolare dell’impresa terzista e i suoi lavoratori ci viene confermato anche da un imprenditore del Collio: “Noi abbiamo un controllo fino a un certo punto. Poi, cosa ci sia dietro, non è che andiamo ad approfondire più di tanto. Non c’è il tempo (…). Non entriamo neppure nei rapporti di lavoro interni fra di loro. Però si capisce dai prezzi che fanno: con 15-17 EUR/ora, vuol dire che i soldi gli arrivano (al lavoratore, N.d.A.), ma se costano 10 o 12 qualche domanda te la fai” (int. n. 51).

1690039619187_caporalatoLa galassia degli intermediari 

La maggior parte di queste imprese (in forma di cooperativa o di P. IVA individuale) è, sempre secondo la Guardia di Finanza, gestita da cittadini asiatici, che operano “con il supporto di una rete di professionisti (italiani) che li aiuta. Ma per ora non siamo ancora riusciti ad individuarla”.(…). Soltanto nel 2023 (in provincia di Pordenone, N.d.A.), sono nate 73 nuove partite IVA  intestate a cittadini stranieri”. Al primo posto fra i titolari troviamo i cittadini pakistani, che in soli cinque anni passano da 5 (nel 2018) a 95 (al 30.09.23), e per oltre due terzi hanno sede in provincia di Pordenone [12].  Per quanto riguarda la dimensione quantitativa del fenomeno, e “premesso che parliamo di sfruttamento di lavoro nero, quindi di persone sprovviste di permesso di soggiorno oppure con permessi di soggiorno che non consentono l’attività lavorativa, nel 2023 ne abbiamo trovate 20 di situazioni di questo tipo, e nel 2024 solo 4. (…). (int. n. 6).

Al 30 giugno 2024, in tutta le regione erano registrate 341 ditte individuali classificate con i codici ATECO 01.61.00 (Attività di supporto alla produzione vegetale) e 02.40.00  (Servizi di supporto per la silvicoltura). Il primo codice, di gran lunga il più “gettonato”, raccoglie oltre il 98% del totale. A livello regionale, la parte del leone la fa senza dubbio la provincia di Pordenone, con quasi due imprese su tre (59%). Il Paese straniero preponderante (luogo di nascita del titolare) è il Pakistan,  con il 34% di casi. I titolari nati in Italia sono invece il 43%. Anche in provincia di Pordenone sono i nati in Pakistan a rappresentare il gruppo più numeroso (77, seguiti dai nati in Italia, con 65). Il 2024 (solo fino al 30 giugno) ha visto un aumento totale del 3% rispetto al 31 dicembre dell’anno precedente, mentre fra il 2022 e il 2023 la crescita è stata del 19%. In particolare, sulla provincia di Pordenone, la crescita 2022/2023 ha sfiorato il 28%  [13].

Ovviamente, va detto che anche l’attività di controllo esercitata dall’Ispettorato del Lavoro potrebbe essere più intensa. Come si vede infatti dal  Rapporto annuale 2023 dell’INL, il totale delle ispezioni effettuate in Friuli Venezia Giulia è di 2.109, di cui soltanto 111 in agricoltura (poco più del 5%) [14]. La cosa non stupisce più di tanto, considerando che “oggi in Friuli Venezia Giulia operano solamente 48 ispettori del lavoro dei 108 previsti in organico” [15]. La situazione non si limita però al solo Friuli Venezia Giulia. Come fa notare Zaccarelli, infatti, “da un punto di vista statistico un imprenditore corre il rischio di subire una ispezione (in materia di lavoro) solo ogni venti anni” [16]

L’interposizione di un soggetto terzo fra il lavoratore e il datore di lavoro (che quasi mai hanno rapporti diretti) è di fatto  la circostanza che rende materialmente possibile  lo sfruttamento. In certi casi (come  confermatoci sia dalla FAI-CISL che dalla FLAI-CGIL) esiste anche un caporalato di secondo livello, con l’interposizione di una terza persona  (anche straniera) che mette in contatto chi organizza  e gestisce le squadre di lavoratori con l’imprenditore agricolo, in cambio di un pagamento una tantum che può andare dai 500 ai 1.000 euro. È ovvio che si tratta di un costo aggiuntivo che va a gravare sui conti dell’ intermediario, il quale sarà in un certo senso obbligato a rifarsi sul costo del lavoro delle proprie squadre, dato che non può certo fatturare al produttore agricolo il costo  del contatto. Se infatti l’imprenditore (soggetto contrattualmente forte) può facilmente cambiare intermediario, per il bracciante fare altrettanto non è così semplice. Un lavoratore marocchino, ad esempio, ci ha detto: “Se chiedo un aumento al capo, se rifiuto di fare un certo lavoro, o se provo ad andare a lavorare per un altro, vengo subito classificato come piantagrane, o come uno che fa casino, e nella zona nessuno mi fa più lavorare. E comunque – conclude il lavoratore – in caso c’è sempre un altro pronto a sostituirti” (int. n. 8). Quest’ultima affermazione ci riporta inevitabilmente alla sovrabbondanza di manodopera, che rende i lavoratori stranieri particolarmente esposti allo sfruttamento. Tanto più se, come accennato sopra, il reclutamento avviene in buona parte attraverso i CAS, che di fatto monopolizzano il sistema di accoglienza  regionale.

Le storie che abbiamo raccolto dai lavoratori si assomigliano tutte, almeno nei tratti principali. Lo stesso lavoratore marocchino, che in seguito è riuscito a lasciare l’agricoltura per un lavoro di pulizie ci dice che “in agricoltura ho lavorato sempre per lo stesso capo marocchino, ma sotto diverso nome, quello di un immigrato regolare,  quindi firmavo con un altro nome”. Questa pratica dello “scambio di identità” pare piuttosto frequente, ed è confermata anche da un produttore agricolo della provincia di Pordenone: “Quando dovevo tirar fuori il selvatico (per le barbatelle, N.d.A.), ho assunto sei di colore. Uno mi ha portato i documenti di questi sei, li ho assunti regolarmente (…), per un mese, tutto gennaio. (…) Alla fine del mese mi hanno detto “guarda che di quelli che hai assunto non ce n’era neanche uno, erano altri sei a lavorare. Come faccio io a sapere chi erano?” (int. n. 24). “Se arriva un controllo – continua il lavoratore marocchino – loro (i capi) fanno finta che noi non capiamo niente, “stai zitto, non parlare”, ci dicono. Non ho fatto neppure la visita medica, e lavoravo con i miei vestiti. Il trasporto era gratis, ma te lo danno non perché sia difficile raggiungere il luogo, ma solo per assicurarsi che tu arrivi in orario. Prendevo 7 euro/ora, ma altri prendevano anche meno, 5 euro. Pagamento in contanti, quando pareva a lui”. (int. n. 8).

Le associazioni dei produttori (Coldiretti e Confagricoltura in primis) confermano di mettere costantemente in guardia i propri associati da pratiche illegali. A questo proposito, ricordiamo un’importante iniziativa del “Tavolo tecnico-operativo interforze per il contrasto al fenomeno del “caporalato” e del sommerso di lavoro” coordinato dalla Prefettura di Pordenone, che nel giugno scorso ha pubblicato un “Vademecum” che evidenzia in maniera molto dettagliata tutte le «conseguenze gravanti sull’imprenditoria che ricorre alle prestazioni di manodopera ‘in nero’» [17].

c39ea2bf79_69242774L’indissolubile intreccio fra  lavoro e alloggio 

L’alloggio, poi, è uno dei poli principali dello sfruttamento, forse il più importante, ed è strettamente collegato al tema del lavoro. Nel quadro della generale difficoltà a reperire un appartamento in affitto, che si manifesta in termini sempre più drammatici anche per la componente autoctona della popolazione, il fenomeno si presenta in forme estremamente acute se il potenziale inquilino è un lavoratore straniero, non comunitario (e con l’“aggravante” della religione musulmana, come ci hanno fatto notare alcuni lavoratori intervistati), per di più con un impiego saltuario come è di fatto la gran parte del lavoro in agricoltura. “Oggi, cercare un alloggio, per un lavoratore, è quasi impossibile”, ci conferma Antonella Nonino, dell’associazione udinese “Vicini di casa”.  (Int. n. 27). Il progressivo inaridimento dei decreti flussi nel corso degli anni, e la collocazione geografica della regione, fanno sì che siano sempre di più i richiedenti asilo che si affacciano sul mercato del lavoro agricolo regionale.

La questione dell’alloggio si pone in termini diversi a seconda che la persona sia all’interno di un progetto di accoglienza, oppure che faccia parte di quel contingente in sovrannumero a cui il sistema dell’accoglienza non riesce ad assegnare un posto. Nel primo caso il fabbisogno alloggiativo è (almeno temporaneamente) coperto dal sistema dell’ accoglienza, a cui si accompagna molto spesso  la fornitura del trasporto (“a Udine esiste un vero e proprio servizio navetta, che la mattina alle cinque fa il giro di tutti i centri di accoglienza, e passa a prendere i lavoratori da portare in campagna, spesso ogni giorno in un luogo diverso”, ci ha detto un rappresentante della FAI-CISL del capoluogo friulano). Dato però che il richiedente asilo viene escluso dal sistema di accoglienza quando il suo reddito annuo raggiunge i 6.000 euro, in questo caso viene facilmente a crearsi una sorta di “alleanza perversa” fra il datore di lavoro (o l’intermediario) e lo stesso lavoratore, dato che anche per quest’ultimo sarà conveniente non oltrepassare la soglia. Se infatti venisse escluso dall’accoglienza,  andrebbe a ricadere nella seconda categoria, quella dei lavoratori che, in quanto privi di alloggio, si trovano esposti ad un duplice sfruttamento. “Ho un posto-letto in subaffitto da un connazionale in un appartamento – ci ha detto un lavoratore pakistano di Pordenone – a 200 euro al mese. Ma lui non può farmi la dichiarazione di ospitalità” (probabilmente a causa del sovraffollamento dell’alloggio subaffittato, N.d.A.), “e quindi questa me la dà un altro connazionale, sempre a pagamento. “A Udine – prosegue Antonella Nonino – esiste un vero e proprio mercato delle dichiarazioni di ospitalità, a cui il lavoratore straniero difficilmente riesce a sottrarsi,  e che possono arrivare anche a 350 euro (int. n. 27). In buona sostanza, 200 euro per un tetto (meglio detto: un letto), e altri 350 per poter rinnovare il permesso di soggiorno [18]. “Da parte degli intermediari, però, io credo che non ci sia consapevolezza, nel senso che sono dei benefattori, e sono visti così anche dai lavoratori” (int. n. 27).

La questione dell’alloggio è resa ancor più complicata  (e ricattatoria per il lavoratore) dal fatto che i braccianti al servizio di un intermediario hanno un rapporto forte e diretto con lui (in quanto parte della “sua” manodopera), e non certo con i vari datori di lavoro che spesso neppure conoscono, dato che vengono portati a lavorare ogni giorno in un posto diverso (circostanza confermata da molte interviste) che essi stessi non sarebbero neppure in grado di ritrovare autonomamente. In queste condizioni di completa dipendenza, è evidente che alloggio e lavoro tendono sempre più a costituire un binomio inscindibile. Data l’estrema difficoltà di muoversi autonomamente su un territorio completamente sconosciuto, i lavoratori sono spinti ad accettare il “pacchetto completo”, in cui il posto letto è altrettanto importante del lavoro: quest’ultimo finisce così quasi per diventare, paradossalmente, un accessorio della sistemazione abitativa, che è di fatto il problema più impellente da risolvere.

“In Italia – sintetizza in conclusione Nonino – è stato precarizzato il fenomeno migratorio con motivazioni becere, politiche (della serie “ci rubano il lavoro, etc.”), perché oggi si entra solo per fare richiesta di asilo, dato che quote per lavoratori non ce ne sono. Precarizzando le migrazioni si è precarizzato, guarda caso, anche il mondo del lavoro”, spianando di fatto la strada a situazioni in cui  approfittare della debolezza strutturale del lavoratore diventa un’opzione facilmente praticabile.

Il problema dell’alloggio è comunque drammatico per tutti i lavoratori stranieri, che si vedono rifiutare un appartamento in affitto anche quando hanno tutti i requisiti di stabilità e di solvibilità normalmente richiesti dai proprietari. “Guadagno 1.500 euro al mese, e ho un contratto di lavoro a tempo indeterminato – ci ha detto un lavoratore agricolo della provincia di Udine- non capisco perché gli italiani non vogliano affittarmi un appartamento, con il quale potrei far venire in Italia la mia famiglia. Il proprietario mi ha detto che è perché sono musulmano (…) Italians don’t like us”, conclude  (int. n. 11). Per questa tipologia di lavoratori (ma anche, beninteso, per altre tipologie più fragili) l’associazione “Vicini di casa” ha creato  nel 2021 una piccola “foresteria solidale”, composta di 22 stanze singole con bagno (più una cucina comune) affittate a chi ne ha bisogno al costo di 300 Euro al mese (comprensivi di spese). Questa foresteria l’abbiamo riempita nel giro di 20 giorni – nota Nonino – e se ne avessimo altre otto sono sicura che avrebbero lo stesso successo”.  È chiaro che si tratta di un esempio che ha un’incidenza limitata sulla realtà dei grandi numeri. Ma è altrettanto vero che si potrebbe immaginare una sua estensione, con il coinvolgimento dell’istituzione che governa il territorio regionale, che potrebbe impiantare strutture simili in zone strategiche delle varie province, ed eventualmente affidarne la gestione, sulla base di regole comuni, ad organizzazioni del privato sociale.

caporalato-1200La questione della filiera 

Un’autentica filiera agroalimentare, intesa come insieme di soggetti (e di operazioni) più o meno stabilmente legati fra di loro (con ritorni economici definiti, sui quali ognuno degli attori ha voce in capitolo) con l’obiettivo di portare un prodotto dal produttore al consumatore finale, nell’agricoltura regionale si fa fatica ad individuarla. Secondo Cristina Micheloni, presidente dell’Associazione Italiana Agricoltura Biologica (AIAB) regionale, più che di una filiera strutturata, in Friuli Venezia Giulia si può parlare di  “contratti di conferimento…una situazione in cui ognuno fa il suo, e cerca di guadagnarci il più possibile… In una filiera degna di questo nome, dovrebbe esserci un peso equamente distribuito fra tutti gli attori nelle decisioni, un condivisione nella definizione del prezzo… Con la globalizzazione dei mercati e la facilità dei trasporti (i cui costi vengono peraltro artificiosamente tenuti bassi, a scapito dell’impatto ambientale), gli accordi si ridefiniscono costantemente in base alla convenienza economica del momento ( “non mi vendi il grano al prezzo che ti propongo? Nessun problema, vado a cercarmelo altrove”) .

In questa dinamica,  il soggetto perdente è il piccolo produttore isolato, che non ha la “potenza di fuoco” necessaria a far accettare la propria richiesta. Se prendiamo il caso di alcuni seminativi (ad esempio, mais, soia, grano, girasole), il piccolo produttore è di fatto obbligato a venderli allo stoccatore più vicino, che poi li rivende ad uno stoccatore più grande, fino ad arrivare alla trasformazione in olio (girasole, soia) oppure in mangimistica (mais e ancora soia). Il produttore vende, per così dire, “al buio”, sulla fiducia, senza conoscere il prezzo che gli verrà corrisposto, e che verrà definito dal compratore solo dopo che egli stesso avrà venduto il prodotto. In molti casi dunque il produttore non è in grado di prevedere il ritorno economico del proprio raccolto. Ma non ha alternative. “In agricoltura – ci ha detto un produttore di vino e mele della Bassa friulana (int. n. 43) – serve il prezzo minimo garantito del prodotto. Questo bisogna urlarlo ad alta voce. Facciamo un collegamento col Prosecco: perché il Prosecco funziona? Perché c’è un controllo del prezzo minimo (1 EUR/kg di Glera) e l’azione del coltivatore è parametrata su quello. (…) Questo regime dovrebbe essere applicato a tutti i prodotti agricoli. Questo è molto più importante di tutti i sussidi (…) È fondamentale che il produttore abbia un prezzo in cui può starci dentro, pagare tutte le spese, e avere un guadagno”.

Quest’analisi della problematica del ritorno economico del produttore non tiene però conto – secondo altri (continua Micheloni) – della “forte resistenza dei produttori a formare aggregazione. Se tu vai in ordine sparso non riuscirai mai ad avere un potere contrattuale. In Friuli occidentale, ad esempio, c’è una forte tradizione cooperativistica, come mostra l’esempio di San Giorgio della Richinvelda, e c’è stata anche nella bassa friulana, anche se ora si è andata disgregando, e anche, ricordiamolo, in montagna, per la produzione di latte e derivati. Però questa resistenza, direi quasi diffidenza (dei produttori), è dura a morire, non si fidano a lavorare con gli altri. E questo rende impossibile fare filiera. Come produttore, infatti, o conti perché sei enorme, oppure ti devi mettere assieme e diventarlo”.

Questo insieme di circostanze fa sì che in molti (piccoli) produttori si noti una certa mancanza di prospettive per il futuro, che ha dato luogo, fra l’altro, alla conversione del proprio fondo in produzione di energia elettrica. Sentiamo a questo proposito ancora Micheloni: “Se hai 65 anni, e l’azienda non ti rende niente da un tot, i figli non vogliono saperne del tuo lavoro perché vedono che tipo di vita fai tu, allora molti si risolvono ad affittare il proprio terreno per 25 anni ad una “big company” di produzione di energia elettrica per 5.000 EUR l’anno, senza fare nulla, rischio zero. L’impresa provvede all’installazione dei pannelli e a tutto il resto. La disponibilità di terra, in Friuli, non è un problema, c’è un sacco di terra abbandonata, appartenente a qualcuno che non la usa. Questa mancanza di ricambio generazionale è molto pesante”. Questa affermazione trova puntuale riscontro nei dati: fra le cd. “attività remunerative connesse” menzionate dal 7° Censimento regionale dell’Agricoltura troviamo  infatti la “produzione di energia rinnovabile solare” (22,1%), seconda solo all’attività agrituristica, con il 37,4% [19].

Quello di mettersi insieme per avere maggiore forza contrattuale in un certo senso richiama il tentativo fatto nei decenni passati dal movimento cooperativistico dei consumatori, soprattutto dalla COOP. Più di recente sono però spuntati altri attori nella GDO, che non sono necessariamente  mossi dallo spirito cooperativistico, ma semplicemente dalla logica del proprietario, quella di massimizzare i profitti. “Però anche da qui – in un certo senso paradossalmente – vengono fuori idee e progettualità innovative”.

Un esempio in questo senso ci viene proprio da ASPIAG e dalla sinergia lanciata con la fondazione Agrifood, e con la stessa Regione Friuli Venezia Giulia. Il progetto “Sapori del nostro Territorio”, attivo da circa un anno, mira a garantire ai produttori della regione (membri del marchio “Io sono FVG”, promosso dalla fondazione Agrifood) un canale di vendita garantito nel prezzo e nei tempi, che ha anche il vantaggio di bypassare gli intermediari fra produttore e GDO. Il produttore può conferire il proprio prodotto direttamente al supermercato più vicino, senza doverlo consegnare alla centrale di raccolta in Veneto. Secondo quanto riferito da Agrifood, i produttori all’inizio hanno mostrato una certa ritrosia, dovuta anche al fatto che, in una regione come il Friuli Venezia Giulia, “la maggior parte delle aziende agricole vende a bordo campo”, direttamente al consumatore finale. Ovviamente, l’iniziativa presenta luci ed ombre: per non diventare un concorrente di se stesso, il produttore sarà invogliato a lasciare la tradizionale vendita a bordo campo, e a privilegiare il rapporto con il supermercato, presumibilmente accettando un prezzo meno remunerativo, in cambio di un rapporto commerciale stabile, che gli permette di  piazzare tutto il proprio prodotto, cedendo però di fatto il controllo dei propri prezzi alla GDO.

Il  discorso sulla filiera, oltre ad essere complesso e ricco di variabili, è soprattutto legato al prodotto, e anche al suo posizionamento sul mercato in termini di nome e di qualità. Anche il rapporto con la GDO, che in determinati comparti agroalimentari è decisivo nella formazione del prezzo al consumatore, nel settore vitivinicolo dipende essenzialmente dal valore del prodotto sul mercato e dalle modalità di commercializzazione dell’uva da vino. Come ci ha detto un produttore di vini pregiati della zona del Collio, “noi non vendiamo alla GDO, il nostro prodotto non finisce sugli scaffali dei supermercati: noi apparteniamo al segmento medio-alto, vendiamo solo a clienti Ho.re.ca. [20] e imbottigliamo il nostro vino a partire dalle nostre uve (non vendiamo sfuso). Controlliamo tutta la filiera,  curiamo personalmente lo sviluppo della nostra clientela” (int. n. 51). “Il prezzo – aggiunge l’imprenditore – lo fanno il brand e il suo posizionamento sul  mercato”.

Ben diversa – come si vedrà meglio più avanti – è la situazione che troviamo fra le aziende del Friuli occidentale (la cd. destra Tagliamento, in prov. di Pordenone), che fanno affidamento su un forte movimento cooperativistico, che aggrega centinaia di piccoli produttori, conferendo loro sbocchi di mercato cui difficilmente potrebbero aspirare: una delle maggiori cooperative di produzione locali, ad esempio, imbottiglia e vende direttamente solo il 5% del suo prodotto, mentre il 95% è destinato ad acquirenti vari, che lo acquistano sfuso, e poi lo imbottigliano. Si tratta di grandi imbottigliatori posizionati sui mercati internazionali, che dispongono di una rete di commercializzazione che il piccolo produttore non potrebbe mai permettersi, che etichettano il vino con centinaia di etichette diverse, ciò che consente loro  di differenziare il prodotto per Paese, fascia di prezzo, etc. e raggiungono i mercati di tutto il mondo.

Nonostante il ruolo importantissimo che questi imbottigliatori hanno nella filiera, la parte del leone, nella determinazione del prezzo, la fa la Grande distribuzione organizzata. “Noi siamo sempre portati a pensare in termini di domanda e offerta – ci dice il presidente – ma quando il prodotto va nella GDO, il prezzo lo fa la GDO. Mentre prima c’erano decine di negozi  che vendevano, oggi tre/quattro grandi catene di distribuzione fanno il mercato americano, o quello europeo. Questi hanno una forza contrattuale mica da poco”. Per quanto riguarda il prezzo al produttore/socio, questi, quando conferisce l’uva, non sa quanto gliene verrà. “No, ma questa è la caratteristica delle cooperative. Si saprà con la chiusura del bilancio dell’anno seguente. Questo è pacifico nelle cooperative di qualsiasi settore”. Le cooperative, nel Friuli occidentale, nascono per un insieme di cause socio-economiche, riconducibili soprattutto al fatto che, prosegue il presidente, “di qua erano terreni poverissimi, ciottoli e ghiaia, senza irrigazione. La gente si aggrega quando ne ha bisogno. Di là forse erano terreni più fertili, più vocati.” (int. n. 48).

caporalatoEttaro di vigneto, quanto mi costi? E quanto mi rendi? 

Per avere un quadro più completo della situazione economica del comparto vitivinicolo, abbiamo cercato di ricostruire i costi di produzione del vino, con particolare riguardo al costo della manodopera. In mancanza di studi specifici (almeno a livello regionale) al riguardo, ci siamo rivolti alle università e ai centri di ricerca. “Scomporre il prezzo del vino è un’impresa disperata – ci ha detto un docente del Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche dell’Università di Udine –  perché si tratta di una materia assolutamente polverizzata. E inoltre, bisognerebbe farlo separatamente da varietà a varietà”. Una risposta analoga abbiamo avuto anche dalla responsabile regionale dell’INEA , secondo cui “si tratta di una domanda che potrebbe dar luogo ad uno studio a sé stante” [21].

Abbiamo quindi chiesto aiuto ad un produttore di uva da vino della zona pianeggiante (Grave) a sud di Udine, che ci ha fornito la seguente stima, basata unicamente sulla propria esperienza di coltivatore, e sulle seguenti premesse metodologiche:

Þ   il ricavato in termini di vino da un kg di uva viene stimato nel 75% (in altre parole: 1 kg di uva = una bottiglia di vino), ma è evidente che si tratta di un valore soggetto a considerevoli variazioni sia a seconda della denominazione (IGP, DOC, DOCG) e della resa in termini di q.li/ha;

Þ   la vendemmia si intende meccanizzata (come  è d’uso nelle zone di pianura);

Þ   i costi dei trattamenti fito-sanitari possono variare anche in considerazione dell’andamento climatico della stagione. Se questa è particolarmente difficile (come appunto il 2024), i costi possono crescere anche del 20%;

Þ   il costo dell’assicurazione è soggetto a trattativa, ed è comunque calcolato in base alla produzione dell’anno precedente;

Þ   per semplificare il calcolo, è stato considerato un produttore-tipo, che coltiva i suoi campi al 50% a Glera e al 50% a Pinot grigio;

Þ   nella stima non viene considerato il prezzo di acquisto dell’ettaro di terreno. 

Tab. 3. Stima costi di produzione vino

COSTI
Vendemmia (meccanizzata) 700 (=500 per il macchinario, 200 per il trasporto)
Fito-farmaci e concimi 2.500
Sfalci, potutature, cimature, irrigazioni 1.000
Manodopera totale 2.500
Ammortamento impianto 2.000 (=30.000 di spese/15 anni di amm.to)
Ammortamento  macchinari 1.000 (=150.000 di investimenti, durata 15 anni)
Assicurazione 987 (=7% del valore prodotto finale, cioè 14.100)
TOTALE 10.687
RICAVI
Prosecco (180 q.li/ha, prezzo 1,10 al kg) 19.800
Pinot grigio (140 q.li/h, prezzo 0,60 al kg)  8.400
TOTALE 28.200 (per 2ha)
Ricavo totale/ha (stimando 50% prosecco e 50% Pinot grigio) 14.100

Si tratta di “costi reali, ma soggettivi”, come li ha definiti lo stesso imprenditore che ce li ha forniti, che potrebbero essere soggetti a variazioni fino al 30%. Al primo posto, in percentuale, notiamo il costo del lavoro, insieme con i costi legati ai trattamenti fito-sanitari (ciascuno dei quali supera di poco il 23% del totale). 

caporalato-friuli-venezia-giulia-3Le colture vitivinicole del Friuli occidentale. La provincia di Pordenone e la sua attività agricola/vitivinicola

In questo lavoro abbiamo scelto di concentrarci principalmente sulla produzione vitivinicola, non solo in quanto questa rappresenta senza dubbio il comparto  più rilevante (in termini di valore aggiunto) di tutto il settore primario regionale, ma anche perché costituisce una produzione (almeno in parte) di eccellenza, tradizionale, e come tale, non priva di una sua dimensione identitaria, sicuramente ben più di altre colture. Va notato che il comparto vitivinicolo ha un ruolo rilevante  anche nell’impiego di manodopera: le colture arboree (per il 97% vite) [22] impiegano quasi la metà della manodopera agricola in regione, e sono anche il comparto che occupa oltre il 53% di quella straniera.[23]

La provincia di Pordenone (creata nel 1968, separando la “destra Tagliamento” dalla provincia di Udine) ha una solida tradizione di produzione vitivinicola, che la pone saldamente al primo posto nell’esportazione regionale di bevande (in gran parte vino) nel 2023, con il 54% del valore totale. Nel territorio provinciale, nonostante un calo generale dell’export nel 1° semestre del 2023 (-3,5%), le vendite all’estero di alimenti e bevande sono cresciute del 10,1% nello stesso periodo, valore superiore a quello fatto registrare su base regionale [24]. Su un totale di 2.202 sedi di impresa vitivinicole registrate in regione,  il 41,1% si trova in provincia di Pordenone [25].                                

11Il regno della barbatella: territorio, economia, forza-lavoro 

La provincia di  Pordenone (e precisamente la frazione di Rauscedo, nel comune di San Giorgio della Richinvelda) è fortemente caratterizzata dalla produzione vivaistica delle barbatelle, base imprescindibile di ogni vigneto. Anche in questo caso, la produzione è prevalentemente organizzata su base cooperativa. Iniziata circa un secolo fa,  la produzione è ormai arrivata ai vertici del mercato mondiale, sia su base quantitativa che qualitativa, e il mercato è dominato da una realtà (i Vivai Cooperativi Rauscedo – VCR), che da sola produce oltre 100 milioni di barbatelle l’anno, con 4.000 combinazioni di innesto, esportate in 38 Paesi del mondo. L’economia delle barbatelle e la coop. VCR sono due realtà che, almeno nel territorio locale, tendono a coincidere [26]

Già nel primo dopoguerra, gli agricoltori di Rauscedo danno vita alla prima barbatella innestata in terra friulana, e nel 1933 si arriva alla fondazione dei Vivai Cooperativi Rauscedo [27]. Allo scopo di  preservare e mantenere nei propri confini il know-kow appena sviluppato, lo statuto di VCR prevede che «per poter rientrare nella cooperativa, bisogna essere di Rauscedo o essersi sposati con qualcuno di Rauscedo, nonché produrre interamente nel territorio del Comune» [28]. Gli oltre 200 soci della cooperativa costituiscono la vera spina dorsale del processo produttivo, in quanto assicurano, nelle proprie rispettive aziende, le lavorazioni riguardanti le barbatelle. Buona parte del processo produttivo avviene infatti nelle aziende dei soci (che, molto di frequente, sono anche coltivatori di uva da vino). “Il socio – nelle parole del presidente dei VCR – è la parte produttiva, mentre la Cooperativa è la parte che ha la visione, che fa ricerca,  che fa la commercializzazione, e l’assistenza tecnica ai soci” (int. n. 22). Attualmente VCR è anche all’avanguardia mondiale nella selezione di piante resistenti perché “oggi l’innesto è normale per quasi tutte le specie frutticole, e la vite in questo senso è stata l’antesignana (…); adesso l’innesto serve anche per migliorare la produzione, e abbassare la taglia della pianta per facilitare la raccolta…” (int. n. 22).

“Questi sono sicuramente gli aspetti positivi – osserva la fondatrice /presidente di una cooperativa sociale della provincia, che conosce bene il contesto locale. La Cooperativa (VCR) è corretta, dal punto di vista dei lavoratori che impiega, sono in regola; il problema è nelle aziende socie, aziende del territorio. Lo scambio mutualistico è nel fatto che il socio conferisce lavoro alla Cooperativa, si impegna a erogare lavoro. Nel periodo di picco (1.000-2.000 lavoratori) quando raccolgono il “matto“, o “selvatico“ (vite americana), lo sezionano, lo innestano (lavori che si fanno in Cooperativa) i lavoratori dipendono dalle aziende socie della VCR. Io vorrei che facessero un passo avanti: certifica la filiera,  visto che tu sei corretto, visto che sei un passo avanti. Il comune  (San Giorgio della Richinvelda, N.d.A.) risulta tra i comuni più poveri, ancora oggi“ [29]. 

media_post_9p39778_ingredienti-caporalato-sliderL’impiego della forza lavoro nel settore primario

Salvo poche eccezioni (i vigneti della zona pedemontana a nord del capoluogo), nelle colture vitivinicole della provincia di Pordenone si praticano sia la vendemmia che la potatura meccanizzate, pratiche che ovviamente riducono l’incidenza della manodopera saltuaria. Ciò detto, anche nella Destra Tagliamento il ricorso alla manodopera straniera si è notevolmente diffuso in tempi relativamente recenti, anche a causa della penuria di forza lavoro locale disponibile.  

In provincia di Pordenone, nel 2022, il numero totale degli operai agricoli era di 6.443, di cui l’87% a tempo determinato (OTD), per un totale di oltre 730.000 giornate di lavoro. Rispetto al 2020, gli operai agricoli totali sono cresciuti del 4,7%, e le giornate di lavoro di quasi il 7%, indice di un maggior numero di giornate pro-capite. 

Tab. 4: Provincia di Pordenone: numero OTD e relative giornate. 2017-2022 

Gruppo

2017

2020

2021

2022

Diff.  2017 -2022
  Numero Giornate Numero Giornate Numero Giornate Numero Giornate Numero Giornate
UE (escl. ITA) 1.974 171.850 1.488 145.654 1.400 140.048 1.274 136.254 -700 -35.596
Extra-UE 1.251 114.403 1.886 173.928 2.188 196.765 2.340 213.867 +1.089 +99.464
Tot. STRA. 3.225 286.253 3.374 319.582 3.588 335.813 3.614 350.121 +389 +63.868
Italiani 1.938 146.778 2.003 163.463 1.985 169.106 1.982 166.995 + 44 +20.217
Tot. generale 5.163 433.031 5.377 483.045 5.573 504.919 5.596 517.116 +433 +84.085

Fonte: Elaborazioni su dati forniti dal dott. D. Casella (CREA)

La tabella n. 4 mostra l’evoluzione degli OTD (che rappresentano la quasi totalità della manodopera agricola) nel quinquennio 2017-22, in cui si assiste ad una crescita sia dei numeri degli operai che delle giornate lavorate. Se si osservano però le dinamiche all’interno dei macro-gruppi di provenienza, si noterà che gli aumenti interessano soltanto gli stranieri non-UE (+87%, sia in termini di numero di lavoratori che di giornate lavorate) e, in misura molto minore, gli italiani (+2,3% in termini di lavoratori e +13,8% in termini di giornate lavorate). L’unico gruppo in forte decrescita è quello degli stranieri comunitari, che perde il 35,4% in termini di numeri e il 20,7%  in termini di giornate lavorate. 

Tab. 5:  Provincia di Pordenone. Numero OTD e relative giornate (Italia, Romania, Pakistan, India)

Gruppo 2017 2020 2021 2022 Diff.  2017 -2022
  Numero Giornate Numero Giornate Numero Giornate Numero Giornate Numero Giornate
ITALIA 1.938 146.778 2.003 163.463 1.985 169.106 1.982 166.995 -44 +20.217
ROMANIA 1.707 151.045 1.311 128.722 1.238 124.528 1.115 121.766 -592 -29.279
PAKISTAN 25 878 380 16.852 569 33.120 634 40.765 +609 +39.887
INDIA 191 21.995   29.200 289 33.119 390 39.687 +199 +17.692

Dalla tabella n. 5, in cui abbiamo evidenziato lo sviluppo degli OTD di provenienza romena e pakistana (le due principali nazionalità presenti fra i lavoratori agricoli del Friuli Venezia Giulia) si vede chiaramente che, mentre i primi  sono diminuiti, nel complesso, di oltre il 34%, i secondi sono cresciuti di ben 25 volte. La predominanza (almeno tendenziale) dei lavoratori pakistani nell’agricoltura, anche a livello regionale, è evidenziata anche dalla forte progressione con cui sono cresciute le ditte individuali di servizi all’agricoltura intestate a cittadini pakistani (v. supra).

Il sostanziale “sorpasso” dei lavoratori pakistani rispetto ai romeni (e, in generale, agli est-europei) è confermato da quanto raccolto nelle interviste: “fino a 4-5 anni fa, erano  in gran parte polacchi, romeni, albanesi, poi molto rapidamente è diventato preponderante il lavoratore asiatico, soprattutto pakistano. Forse il neocomunitario non trovava più interessanti le condizioni, e si è spostato in altri Paesi (come ad esempio la Germania), più convenienti economicamente” (int. n. 15, rappresentante organizzazione dei produttori agricoli).  “Prima gestivo l’azienda io e mia moglie, ogni giorno dalle 5 di mattina alle 9 di sera. I primi immigrati, negli  anni ’90, sono stati gli albanesi, poi sono arrivati i romeni, e poi ancora i pakistani, che hanno anche fatto impresa per conto proprio. Se vai a S. Vito, vedi 12 ha di zucchine e 8 di altri ortaggi, sono loro, i pakistani, e hanno i camion frigo, portano il prodotto a Padova, Milano, Torino. La manodopera in nero sono quelli lì.” (int. n. 18).

caporalato-1-1Metodi di reclutamento e condizioni di lavoro

I metodi di reclutamento sono in buona parte riconducibili a quelli già descritti a livello regionale, attraverso un intermediario che, con la sua ditta individuale, forma squadre di lavoratori con le quali offre servizi in appalto agli imprenditori agricoli. “Qui da noi, nel Friuli occidentale – ci dice un intervistato – non è diffuso il sistema della cd. cooperativa senza terra, ma si tratta piuttosto di P.IVA individuali” (int. n. 15). Ovviamente quest’ affermazione va contestualizzata alla luce delle dimensioni ridotte della regione, che rendono ogni angolo del territorio raggiungibile in massimo due ore di strada: “Si parte in pulmino ogni mattina alle 4.30” – ci dice un lavoratore straniero residente a Udine (int. 24). È dunque ben possibile che cooperative con sede a Udine spostino i loro lavoratori, se necessario, anche nella Destra Tagliamento, o perfino nel vicino Veneto. Il reclutamento avviene soprattutto con il passaparola,  attraverso conoscenti che già lavorano, oppure, per quanto riguarda i richiedenti asilo in progetto, si viene direttamente contattati presso il centro di accoglienza. “I posti di accoglienza su Pordenone – ci dice  la presidente di un ente gestore – non arrivano al migliaio. La questione dello sfruttamento non è più macroscopica come in passato,  quando ad essere colpito era più che altro l’impiego di manodopera irregolare (dal punto di vista del soggiorno). Ora lo sfruttamento si è fatto più sfuggente, si tratta soprattutto di lavoro grigio, dato che spesso le persone una qualche forma di contratto ce l’hanno. Le modalità  dello sfruttamento sono, se vogliamo, più blande, ma alla fine di quello si tratta: mancato rispetto degli orari di lavoro,  orari massacranti, mancata consegna dei DPI (dispositivi di protezione individuale), degli strumenti di lavoro. Piuttosto diffuso, ad esempio, è il fenomeno del finto pagamento attraverso bonifico, seguito dalla restituzione di parte dell’importo dopo un prelievo al bancomat” (int. n. 13).

Anche il trasporto, spesso indispensabile per raggiungere i campi, fa parte delle tecniche di sfruttamento, con modalità molto variabili, e spesso è di fatto scalato dalla paga oraria, anch’essa molto variabile. O qualche volta si configura come un “avanzamento”: “Per il trasporto pagavo 5 euro al giorno per il primo anno, dopo il primo anno no”, ci dice un lavoratore pakistano (int. 38). Paga e orari sono quanto meno aleatori: la prima varia in media fra i 3 e i 7 euro orari, ma con modalità molto poco trasparenti, e i secondi tendono a cambiare di continuo, con la giustificazione che non c’è lavoro: “Lavoro 6 giorni la settimana,  a meno che non piova. Il capo mi dà 40 euro al giorno, pagamento in contanti”, ci dice un lavoratore. E un altro: “lavoro almeno 9 ore al giorno, ma me ne registrano 2” (int. 24). 

Un’altra caratteristica comune dello sfruttamento del lavoro agricolo è l’estrema variabilità delle destinazioni, anche se la squadra tende a rimanere la stessa. “Si parte alle 5,  due ore e più di strada. Sia pianura che collina. Portogruaro, Codroipo, Udine, Pordenone, con pulmino. Ogni giorno vengono a prendermi, col pulmino, e mi portano in un posto diverso. L’autista è sempre lo stesso, e nel pulmino siamo in 8, 10, 11. Hanno 4 pulmini” (int. 24). Tutti gli intervistati raccontano di non conoscere i veri datori di lavoro, ma di avere rapporti solo con il “capo”, quasi sempre un connazionale. Ma qualche volta il lavoro diurno  in agricoltura non è sufficiente, e ai braccianti viene richiesto un “supplemento” notturno per il carico della casse di polli vivi sui camion che li trasportano al macello. “Il lavoro si svolge dalle 23 fino alle 4-5 del mattino, e poi alle 7 si va subito nei campi a fare altri tipi di lavori” riferisce al Gazzettino un lavoratore intervistato [30]. Un lavoratore marocchino ci ha confermato questo racconto: “Ho lavorato anche di notte per caricare la casse di polli su un camion. Se al capo viene proposto un lavoro, lui accetta. Poi va a cercare chi lo fa. Dove portavano i polli? No, non conoscevo il luogo. Quando poi risalivo sul pulmino, cercavo solo di dormire. Anche per i polli pagavano 7 euro/ora. È un lavoro sporco. Alcuni che facevano questo lavoro più spesso di me andavano ad abitare dal capo, perché così, appena c’è bisogno, lui ti trova subito (int. n. 8).

arton245341-480x384Le condizioni abitative

Per quanto riguarda l’alloggio, la situazione è estremamente frammentata. Secondo i datori di lavoro intervistati, la situazione in buona sostanza non desta preoccupazioni, o meglio, tendono a non occuparsene troppo: “l’alloggio, se il socio riesce, tendenzialmente cerca di darlo come benefit, perché ha interesse a trattenere il lavoratore, evitando la rotazione (…) Però io sinceramente non lo so, non vedo contratti di affitto (int.  26)”. In realtà, nei piccoli paesi della zona è presente un’edilizia di tipo residuale, non di rado fatiscente, che viene ristrutturata e adibita ad alloggio per i lavoratori agricoli. “Questo è un tema che andrebbe approfondito – ci dice la rappresentante di una cooperativa sociale – Non c’è un incremento degli affitti nel periodo (di massima affluenza degli stagionali, N.d.A.), perché altrimenti a San Giorgio ci sarebbe un incremento del reddito. Si dice che vengono ficcati nelle case fatiscenti dei nonni, e l’affitto dedotto dalla paga. Sono in centro dei paesi. Poi ci sono le roulottes in mezzo al campo, invisibili, lontano dagli occhi, lontano dal cuore“ (int. 17). “Abbiamo visto casi di persone a cui viene messo a disposizione un appartamento – ci dice una sindacalista – a un euro al giorno a persona. Sembra poco, ma moltiplicato per le otto persone che hanno messo nelle quattro stanze, fa pur sempre 240 euro al mese. Hai visto un contratto, tu? Noi no“ (int. 7).

Parzialmente diversa è la situazione, anche alloggiativa, dei lavoratori romeni che, seppur in calo, continuano ad avere il maggior numero di giornate lavorate. “A San Giorgio vengono molti pendolari comunitari, che alloggiano in immobili del datore di lavoro, perché questi sono paesi che si sono spopolati. Hanno comprato le case, le hanno sistemate, anche bene. Sono soprattutto romeni, stagionali di lungo corso, che arrivano a ottobre e rimangono fino a maggio, e si portano la famiglia. I pendolari tornano sempre tramite un intermediario. Il datore di lavoro, spesso, interagisce attraverso intermediari. Donne e uomini lavorano nella stessa impresa, quindi sono “ostaggio“ del datore di lavoro (sia per la casa che per il lavoro) e sono molto ricattabili. L’alloggio si paga (uno di quelli carini, anche 600 euro). Magari anche grande, perché ci si sistemano in tre famiglie. Il pagamento dell’affitto è misto: una parte in nero, una parte regolare. Lo stipendio, a testa, si aggira sui 1.100 euro, più il costo della casa. (…) È vero poi che queste persone ospitano connazionali a pagamento, per alleviare il costo dell’affitto (“Ho garantito per un appartamento in affitto per tre di loro, e dopo due settimane, torno e li ritrovo in otto”, int. 18). C’è molto abuso di alcool, e, come risultante, un alto tasso di violenza familiare. La gente beve perché non si inserisce, non sa cosa fare. È vero che loro spendono e non risparmiano, ma è anche vero che le amministrazioni non offrono molto a queste persone. Non hanno l’idea che sono cittadini, che se si trovano bene ritornano, che ti conviene inserirli” (int.  26, assistente sociale).

Come si vede da queste testimonianze, in definitiva, la condizione dei lavoratori stranieri nell’agricoltura, non soltanto regionale, ma anche specificamente del Friuli occidentale, è sicuramente riconducibile al concetto di sfruttamento, sotto vari profili, in un sistema che non si limita al lavoro grigio, ma ricomprende anche la gestione delle altre due esigenze fondamentali del lavoro stagionale, il trasporto e l’alloggio. Sicuramente si tratta di una percentuale minoritaria rispetto alla grande maggioranza di datori di lavoro che rispettano le regole, ma è di certo un fenomeno di proporzioni non trascurabili, soprattutto quando riguarda rilevanti afflussi di manodopera concentrati nello spazio e nel tempo.

La percezione (e finanche l’esistenza stessa) dello sfruttamento è ovviamente molto diversificata fra gli interlocutori, ma è difficile sfuggire  alla sensazione che in alcuni casi l’antica povertà di questi territori abbia un certo ruolo nella minimizzazione del fenomeno e in un atteggiamento venato di paternalismo, che ben si coglie nelle parole, riferite al lavoro sulle barbatelle, di questo imprenditore: “A tutte le mamme si dà l’opportunità di avere un lavoro per 9 mesi l’anno, in concomitanza col periodo scolastico, da ottobre fino a giugno, con la flessibilità degli orari di lavoro.  In cernita, normalmente si inizia alle 7.30, ma tu vedrai mamme che arrivano fino anche alle 9.  (…). Per cui queste mamme, che possono prendere anche 1.200-1.300 euro/mese, per nove mesi hanno un’opportunità di lavoro che offre un’integrazione di salario che con questa flessibilità non te la offre nessuna altra possibilità. Domani il bimbo sta male, ma nessuno ti manda la lettera di licenziamento.  Solo che non ti conteggiano la giornata di lavoro, certo. Ma chi altro ti tiene, un giorno non vieni per un bimbo, un giorno per l’altro, per questo territorio è stata un’opportunità enorme, enorme. Questo perché anche le famiglie monoreddito, tu moltiplica 1.200, il minimo, per 9 mesi, sono 11.000 euro, che in reddito familiare è una bella cifra, interessante, che diversamente non avresti nessuna possibilità di avere” (int. 18).

locandina-articoli-ebinconf-22Come se ne esce?

Ovviamente la domanda è troppo vasta per tentare una risposta articolata ed esaustiva in questa sede, ma è comunque necessario tentare di formulare alcune proposte embrionali per iniziare ad affrontare seriamente la questione. Innanzitutto è da sottolineare che si può considerare definitivamente obsoleta la vecchia narrazione secondo la quale il fenomeno dello sfruttamento della manodopera agricola riguarda soltanto il Meridione [31]. Come si è potuto vedere fin qui, il fenomeno dello sfruttamento della manodopera nel settore primario (e, in particolare, nel comparto vitivinicolo) regionale non solo esiste, ma è anche caratterizzato da intensità, frequenza e meccanismi diversificati. È quindi ovvio che vada adeguatamente perseguito e combattuto. 

Allargando lo sguardo oltre la specificità regionale, l’obiettivo finale è quello di «scardinare il sistema dello sfruttamento, ormai divenuto un fattore endemico del nostro apparato produttivo. I dati empirici e le analisi sociologiche convergono, infatti, nell’evidenziare che, nella più gran parte dei casi, lo sfruttamento del lavoro non costituisce semplicemente l’espressione di comportamenti prevaricatori – ancorché diffusi e ripetuti nel tempo (…). Piuttosto, tale fenomeno è assurto a vero e proprio “modo della produzione” che lega insieme diverse filiere e rappresenta un dato strutturale della nostra economia» [32]. La sola repressione, in mancanza di soluzioni costruttive che investano tutta la filiera agroalimentare, è destinata a fallire. Proporre, o addirittura imporre “un prezzo minimo garantito per i prodotti agricoli” come affermato da un imprenditore intervistato, non è una misura applicabile con facilità. Oltre a ciò, non è affatto detto che l’aumento dei margini di profitto tenga i produttori agricoli lontani da pratiche quali la sottoremunerazione della manodopera impiegata.

Il cuore del problema risiede soprattutto nella progressiva frammentazione della filiera produttivo-commerciale, che tende a spostare il potere contrattuale dal  produttore agricolo sempre più verso l’anello finale (ed economicamente più potente) della filiera, la GDO che, con la sua posizione dominante nella catena del valore, ha acquisito un ruolo fondamentale nella formazione del prezzo finale al consumatore. Come è facile intuire, l’obiettivo di riequilibrare le quote di profitto all’interno della filiera (o, ancor di più, di «responsabilizzare la grande distribuzione» [33]) è tutt’altro che a portata di mano. Decisamente preferibile sarebbe invece  cercare e proporre alternative che possano “tagliare l’erba sotto i piedi” di quanti  tentano di monetizzare la debolezza della manodopera agricola (soprattutto straniera) e allontanare gli imprenditori agricoli dalla tentazione di ricorrere a scorciatoie al limite (e spesso al di là) della legalità. Fra l’altro, spesso tali scorciatoie non si traducono neppure in un risparmio, se non in termini di tempo e di adempimenti amministrativi. In regione esistono già da tempo alcune buone pratiche che vanno nella direzione giusta, spesso pensate e realizzate nell’ambito della cooperazione sociale e del non profit, che avrebbero bisogno di supporto e ampliamento per diventare prassi comune. In questa sede sarebbe probabilmente troppo lungo elencarle tutte, e preferiamo quindi soffermarci su una serie non esaustiva di obiettivi da perseguire, a nostro avviso, in via prioritaria [34]:

Sistematizzazione dell’azione pubblica per contrastare i fenomeni di sfruttamento lavorativo. Dal 2023 è attivo in Friuli Venezia Giulia (e in altre quattro regioni italiane) il progetto Common Ground, che, grazie ad un finanziamento del Fondo Sociale Europeo, lavora per creare un modello, a trazione pubblica e in un’ottica di intervento multi-agenzia, che favorisca l’emersione delle vittime e potenziali vittime di sfruttamento. Fra le iniziative finora sviluppate, ricordiamo le attività informative (sia attraverso unità mobili sul territorio che con incontri collettivi, anche presso i CAS) per sensibilizzare i soggetti vulnerabili, e la presa in carico delle vittime di sfruttamento (in regione, circa 100 al mese) attraverso la messa a disposizione immediata di un alloggio, l’accompagnamento legale alla denuncia, i corsi di lingua italiana. Come spesso accade nelle iniziative progettuali, l’elemento di debolezza è costituito dal fattore tempo, e dunque dalla naturale conclusione del progetto, che incombe su tutte le sue attività, impedendo che diventino un servizio permanente offerto dalla pubblica amministrazione. Anche nel caso di Common Ground, dunque, sarebbe auspicabile che il progetto, che ha dimostrato di saper incidere sulla realtà dello sfruttamento, venisse trasformato in un servizio regionale permanente a carico dell’ente pubblico che governa il territorio. Attualmente il progetto, che era in scadenza il 31 marzo di quest’anno, è stato prorogato di sei mesi [35].

Rafforzamento e diffusione sul territorio della Rete del Lavoro Agricolo di Qualità. L’imprenditore onesto, che non di rado subisce la concorrenza sleale di chi si avvale dell’intermediazione illecita, necessita (e merita) la necessaria visibilità e riconoscibilità sul mercato, anche per attrarre i consumatori più attenti e consapevoli. La Rete del Lavoro Agricolo di Qualità, istituita inizialmente dalla l. 116/2014, e rafforzata dalla “legge anti-caporalato” n. 199 del 2016, raccoglie in uno specifico registro (affidato alla gestione dell’INPS) le imprese agricole in regola con le norme in materia di lavoro, legislazione sociale e fiscale. L’adesione alla Rete,  che comporta una lunga serie di controlli dal punto di vista burocratico (come ci è stato confermato in più di un’intervista), non prevede purtroppo, per le aziende “sane”, un “bollino etico” che le renda chiaramente riconoscibili, né altri vantaggi. L’adesione è quindi stata, almeno finora, tutto sommato modesta. Forse non è un caso che, delle oltre 6.500 aziende agricole presenti nella Rete nel 2024, solo 34 si trovano in Friuli Venezia Giulia (su un totale di 16.400). Sarebbe dunque ora che la Rete, oltre ad essere migliorata e rafforzata sul piano nazionale, venisse finalmente realizzata compiutamente anche in Friuli Venezia Giulia, attraverso la creazione di sezioni territoriali in tutte le province, come recentemente sottolineato dai rappresentanti della FAI-CISL in un recente convegno regionale[36], e prevedendo per «chi si iscrive una priorità nell’accesso ai bandi per la concessione di contributi finanziari e a gare per appalti pubblici di forniture» [37].

Alloggio, trasporto, formazione: si tratta di tre aspetti strategici di tutta la questione caporalato, che sono emersi molto spesso nel corso delle interviste. Affrontare seriamente la questione dell’alloggio dei lavoratori è essenziale per il contrasto dello sfruttamento, soprattutto per quanti non sono all’interno di un progetto di accoglienza per richiedenti asilo, e dipendono dai caporali per trovare un posto letto. L’esempio della “foresteria solidale” creata da Vicini di Casa  (v. supra) a questo proposito è illuminante, ma è ovvio che una singola associazione non è in grado di farsi carico dell’organizzazione dell’alloggio per migliaia di lavoratori ogni anno. Imprescindibile, in quest’ottica, è l’intervento dell’ente di governo del territorio, che potrebbe pianificare ed organizzare la realizzazione di un adeguato numero di alloggi temporanei da gestire in prima persona o, meglio, da affidare alla gestione di enti del privato sociale [38]. Oltre a ciò, la Regione potrebbe creare una sorta di “meccanismo di responsabilizzazione” dei datori di lavoro, incentivando la ristrutturazione e il riutilizzo di immobili limitrofi alle zone di lavoro da mettere a disposizione dei lavoratori a condizioni stabilite in apposite convenzioni con i  proprietari (spesso gli  stessi datori di lavoro).

22361848_small-1080x675Il trasporto verso i luoghi di lavoro (spesso fuori dalle rotte dei mezzi pubblici) costituisce un altro dei nodi da sciogliere per liberare i lavoratori dalla dipendenza nei confronti degli intermediari, e dal rischio costituito dal muoversi in bicicletta lungo strade trafficate e poco illuminate. Il problema va affrontato stimolando la collaborazione fra le imprese agricole che necessitano di manodopera, i comuni e il sindacato, come ad esempio è stato fatto, in via sperimentale, dal progetto Common Ground in alcune zone del Piemonte [39]. La formazione (sia linguistica che tecnico-professionale) e la conoscenza dei propri diritti sono ulteriori elementi che possono contribuire a proteggere il lavoratore dal rischio sfruttamento. Una manodopera consapevole e informata sarà infatti molto più al sicuro dai tentativi -da qualsiasi parte essi provengano- di lucrare sulle condizioni di vulnerabilità, bisogno e isolamento in cui spesso viene a trovarsi [40]. È necessario a questo proposito mobilitare le risorse delle scuole di formazione professionale e agricola della regione, mettendole in grado di offrire corsi pensati specificamente per discenti stranieri, abbinandoli a percorsi formativi sulla lingua italiana, in collaborazione con i Centri per l’impiego e con i Centri Provinciali per l’ Istruzione degli Adulti (CPIA) presenti in regione.

In definitiva, abbiamo voluto indicare queste poche proposte di intervento (rispetto a tutte quelle che si potrebbero formulare e che sono state concretamente formulate) per mettere in evidenza che il problema dello sfruttamento lavorativo (in agricoltura come in altri settori) non è di per sé insolubile, ma che si possono individuare misure concrete in grado di incidere sulla realtà senza per questo necessariamente rovesciare l’ordine economico, ma restituendo al lavoro la sua dignità e riportando il profitto di ciascuno degli attori della filiera nell’ambito della legalità. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
[*] Una versione sintetica di questo saggio è stata pubblicata in “Associazione Terra!, Gli ingredienti del caporalato”, disponibile su https://www.associazioneterra.it/cosa-facciamo/filiere-e-caporalato/gli-ingredienti-del-caporalato.
Note
[1] 7° Censimento generale dell’Agricoltura Italiana, 2020.
[2] All’art. 3.5 della nuova legge regionale sull’immigrazione (LR 3 marzo 2023, n. 9, Sistema integrato  di  interventi in materia di immigrazione) si trova un accenno alla problematica dello sfruttamento lavorativo (in verità piuttosto generico), nei termini seguenti: «La Regione si attiva per prevenire e contrastare ogni forma di distorsione del mercato del lavoro, con  particolare riferimento al lavoro irregolare, lavoro sommerso, caporalato, sfruttamento  lavorativo, promuovendo, in tutti i settori economici, la cultura della legalità e della sicurezza e assicurando interventi per favorire l’integrazione sociale, sanitaria, abitativa e lavorativa di cittadini di paesi terzi vittime e potenziali vittime di sfruttamento lavorativo, in conformità  alla normativa statale».
[3] Si veda ad esempio  il Gazzettino, che in un’inchiesta del 25 giugno scorso, scrive che «nessun caso gravissimo come quello di Latina, per fortuna, ma a sentire quello che è capitato in alcuni frangenti, viene da pensare che anche nella civilissima città sul Noncello Pordenone, N.d.A.) sarebbe potuta accadere una storia come quella successa al migrante indiano Satnam Singh».
[4] Ministero dell’Interno, Cruscotto statistico giornaliero, 15 settembre 2024.
[5] Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, Censimento Generale dell’agricoltura in Friuli Venezia Giulia, ottobre 2023: 4.
[6]https://esploradati.istat.it/databrowser/#/it/dw/categories/IT1,DATAWAREHOUSE,1.0/UP_ACC_TERRIT/IT1,93_1227_DF_DCCN_TNA1_1,1.0, consultazione dell’ 11 settembre 2024.
[7] Sempre in termini di confronto, si noti che nel 2020 il valore aggiunto dell’agricoltura in Calabria era del 4,0% in Basilicata del 3,6% (F. Carchedi, a cura di,  Il lavoro dignitoso e il suo contrario, Maggioli editore, 2023, tab. 4.1: 125)
[8] Dati forniti dal segretario regionale della FAI-CISL al convegno sul caporalato in Friuli Venezia Giulia, tenutosi al Centro Ernesto Balducci di Zugliano (UD) il 24 e 25 gennaio 2025.
[9] CGIA Mestre, Ufficio Studi, Newsletter del 29 giugno 2024
[10] Osservatorio Placido Rizzotto, FLAI CGIL, Agromafie e Caporalato, sesto rapporto, Futura Editrice, Roma, 2022: 144.
[11] Si, vedano, in particolare:
https://www.leggo.it/italia/cronache/pensionato_guadagna_900_euro_inps_vuple_53mila_suicidio_romano_gaiero_oggi_4_7_2024-8219063.html e https://www.unionemonregalese.it/2024/02/07/e-in-pensione-ma-va-a-vendemmiare-linps-gli-chiede-60-mila-euro-la-storia-va-in-tv-su-la7/ . Per quanto riguarda la penuria di manodopera in agricoltura, v. il Corriere della sera del 23 aprile scorso: 
https://corrierefiorentino.corriere.it/notizie/cronaca/23_aprile_04/per-la-vendemmia-servono-5-000-stagionali-l-appello-di-coldiretti-a-studenti-e-disoccupati-34762a9f-72f4-4b17-97a4-72282b03exlk.shtml: “a Vinitaly Coldiretti ha condiviso una preoccupazione generale con la premier Giorgia Meloni parlando di circa ventimila lavoratori stagionali ancora da trovare su tutto il territorio nazionale.” 
[12] V. nota n. 8.
[13] Dati forniti dalla dott.ssa E. Qualizza, Camera di Commercio Udine-Pordenone
[14] Ispettorato nazionale del Lavoro, Risultati attività di vigilanza anno 2023, p. 51. In termini di ispezioni, la parte del leone la fanno le Costruzioni, con 632,  seguite dalle Attività servizi alloggio e ristorazione, con 518.
[15] Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, Consiglio Regionale, Lavoro. Conficoni-Pozzo (PD): contro incidenti rafforzare ispettorato, 11.04.2024,
in https://www.consiglio.regione.fvg.it/pagineinterne/Portale/comunicatiStampaDettaglio.aspx?ID=841860. 
[16] L. Zaccarelli, La efficacia delle ispezioni in materia di lavoro, in Variazioni su Temi di diritto del lavoro, 2/2018, 493 ss., citato in A. Merlo, I mandarini non cadono dal cielo, Lo sfruttamento dei lavoratori nell’agroindustria fra responsabilità individuali e questioni sistemiche, in Osservatorio Placido Rizzotto, FLAI CGIL, Agromafie e Caporalato, settimo rapporto, Futura Editrice, Roma, 2024: 99.
[17] Prefettura di Pordenone, INPS, INL, INAIL, Guardia di Finanza, Azienda Sanitaria Friuli Occidentale, Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, Vademecum, Il “caporalato” agricolo, digitale e grigio. Contesto di riferimento, misure di contrasto, condotte e soggetti attivi”
[18] Le cifre sono indicative, e possono variare anche del 20%.
[19] Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, Censimento Generale dell’Agricoltura in Friuli Venezia Giulia, ottobre 2022: 16.
[20] Si tratta di un acronimo che si riferisce all’industria alberghiera nel suo complesso (Hôtellerie, restaurants, cafés).
[21] Colloquio telefonico del 8.10.2024.
[22] Regione autonoma Friuli Venezia Giulia,  Censimento generale dell’agricoltura, ottobre 2022, tab. 4: 10.
[23] Osservatorio Placido Rizzotto, op. cit., p. 141. Ad ogni modo va comunque notato che l’agricoltura in regione impiega il 2,8% dei lavoratori italiani e il 2,6% degli stranieri (elaborazioni Centro Studi e Ricerche IDOS, su dati ISTAT.
[24] Camera di Commercio Udine e Pordenone, Osservatorio sull’economia del Friuli Venezia Giulia, settembre 2023: 6.
[25] Camera di Commercio Udine e Pordenone, Il cluster agroalimentare in Friuli Venezia Giulia, giugno 2024: 7.
[26] Oggigiorno, l’impianto di un nuovo vigneto non può prescindere dall’innesto, per evitare di essere attaccato  della fillossera, insetto infestante originariamente  proveniente dal Nord America, che nel 19° secolo ha completamente distrutto i vigneti europei. La soluzione adottata è stata dunque quella di innestare le gemme di vite europea su un impianto radicale (di origine nordamericana, ma oggi prodotto localmente) resistente alla fillossera. Il processo (che dura grosso modo da novembre a giugno-luglio) inizia con la coltivazione delle piante-madri (i cd. portainnesti), seguita dall’innesto vero e proprio (con un procedimento oggi in gran parte meccanizzato), che viene effettuato tra febbraio e marzo. La piantina innestata viene poi rimessa in terra, e seguita nel suo sviluppo fino al momento della vendita. Per un confronto, si pensi che il secondo attore sul mercato locale della barbatella, la coop. Vitis (fondata, sempre a Rauscedo, nel 1985), ha 7 sedi produttive (corrispondenti a 12 soci), e commercia circa 6 mln di piante l’anno. (Int. n. 14).
[27] V. sito ufficiale della cooperativa: www.vivairauscedo.com
[28] Intervista con  Davide Sordi, Area Manager Nord Ovest e Sardegna dei Vivai Cooperativi Rauscedo, in https://sommelierwinebox.com/blogs/curiosita-sul-mondo-del-vino/cos-e-una-barbatella-ce-lo-spiega-davide-sordi-dei-vivai-cooperativi-rauscedo (accesso: 12.10.2024).
[29] Secondo i dati sulle dichiarazioni dei redditi 2022, San Giorgio della Richinvelda, con 16.927 euro di imponibile medio, risulta all’ultimo posto fra i 50 Comuni della provincia di Pordenone. V. https://www.friulioggi.it/friuli-venezia-giulia/dichiarazioni-redditi-classifica-comuni-ricchi-poveri-friuli-venezia-giulia-25-aprile-2024/#:~:text=Il%20reddito%20imponibile%20medio%20. Accesso: 13.10.2024
[30] Il Gazzettino, 25 giugno 2024: III.
[31] A questo proposito si rimanda alla già citata pubblicazione dell’Associazione Terra!, che comprende saggi su Piemonte, Lombardia e Veneto, oltre che sul Friuli Venezia Giulia.
[32] A. Merlo, I mandarini non cadono dal cielo. Lo sfruttamento dei lavoratori dell’agroindustria fra  responsabilità individuali e questioni sistemiche, in Osservatorio Placido Rizzotto, FLAI CGIL, Agromafie e Caporalato, settimo rapporto, Futura Editrice, Roma, 2024: 100.
[33] A. Merlo, op. cit, p. 107.
[34] L’elenco che segue è in parte ripreso e riadattato da un ”policy brief” elaborato dall’associazione Terra! nel contesto lombardo, ma estensibile  per analogia ad altre realtà regionali (Associazione Terra!, “Caporalato e sfruttamento in Lombardia: come governare i fenomeni”).
[35] Le informazioni sul progetto Common Ground sono tratte  e rielaborate da: https://www.regione.fvg.it/rafvg/cms/RAFVG/cultura-sport/immigrazione/FOGLIA23/; intervento di Giorgio Morsut (funzionario della regione FVG) al convegno regionale su “La tratta e lo sfruttamento lavorativo, normativa, best practices, l’esperienza del FVG”, Udine, 13 giugno 2024; dall’intervista a Daniela Mannu (project manager).
[36] V.  https://www.faicislfvg.it/noi-siamo-friuli-venezia-giulia-storie-di-uomini-e-caporali-un-focus-sul-caporalato-e-lo-sfruttamento-lavorativo/
[37] Proposta ripresa dal “policy brief” dell’Associazione Terra!”, citato in nota 34: 19.
[38] Si veda in proposito l’esempio della provincia autonoma di Bolzano (https://www.ipes.bz.it/it/case-albergo-per-lavoratori), che ha realizzato oltre 500 mini-unità abitative da affittare a canone controllato a lavoratori/trici esterni.
[39] SI veda a questo proposito Associazione Terra!, Gli ingredienti del caporalato, il caso del Nord Italia, Terra! 2024:  21 e ss.
[40] L’approffittamento dello stato di bisogno costituisce fra l’altro l’asse portante della l. 199/2016, recante “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”.                           
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Paolo Attanasio, dopo quindici anni di lavoro in Italia e all’estero nel settore della cooperazione internazionale, si dedica ormai da diversi anni allo studio del fenomeno migratorio e all’attività di ricerca e consulenza nel settore. Dal 2002 è redattore del Dossier statistico immigrazione, e dal 2007 referente regionale del Centro Studi e Ricerche IDOS, prima per la provincia autonoma di Bolzano, e attualmente per il Friuli Venezia Giulia. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni e rapporti di ricerca, come pure la partecipazione a numerosi progetti di integrazione economica e sociale degli stranieri. Nel 2018 ha pubblicato, con Antonio Ricci, il volume Partire e Ritornare, uno studio sulle migrazioni fra Italia e Senegal.

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