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Lo scrittore come sociologo implicito: Pirandello e “il fischio fuori dalle gabbie”

1000256891di Claudio Gnoffo 

La novella: Il treno ha fischiato

Vita e Forma sono elementi riscontrabili praticamente in tutte le opere di Pirandello, come due danzatori costantemente fissati l’uno sull’altro nelle loro voluttuose acrobazie, senza però mai unirsi veramente. Il contrasto tra la Vita e la Forma è uno dei temi centrali nell’opus pirandelliano, frutto sì della sua indagine sulla problematicità dell’essere umano (tanto dell’identità di ogni individuo quanto della sua percezione della realtà) ma anche del suo sofferto vissuto, a partire da un matrimonio lacerato e lacerante a causa dell’odio di una moglie malata che vedeva in Pirandello, innamorato devoto, un traditore seriale: un altro che non era lui.

Se la Vita e la Forma sono in perenne contrasto, può però intervenire l’Arte a cercare di restituire un senso, o almeno una consolazione. Perciò lo scrittore di Girgenti, partendo anche dal proprio dolore, conferisce “parlabilità” a questo groviglio complesso e amaro che è la perenne tensione tra l’essenza mutevole e inafferrabile delle cose, che lui appunto chiama Vita, e la necessità umana di definirle e contenerle in strutture stabili, appunto la Forma.

L’Arte, nel mezzo, si sbizzarrisce.

Pirandello esplora questo contrasto perenne tramite personaggi che a un certo punto si trovano in crisi (o la cercano volutamente, una crisi) perché accade qualcosa che li fa scoprire incapaci di conciliare il proprio intricato cosmo interiore con le gabbie della società, gabbie che, fino a quel momento, sembravano abitare bene. Da questa crisi nasce un conflitto dalle svariate conseguenze, che spesso sono la tragedia, l’isolamento, la sconfitta, la morte.

Spesso ma non sempre. Talvolta, il finale è una possibile, (cautamente) ottimistica riuscita.

È il caso della novella Il treno ha fischiato. È utile fare prima un inquadramento storico-biografico. Il treno ha fischiato appare per la prima volta nel Corriere della Sera del 22 febbraio 1914, viene ristampato nel volume La trappola edito da Treves l’anno dopo, e nel 1922 viene inserito nel quarto volume della serie Novelle per un anno, dal titolo L’uomo solo, per Bemporad. Svariate le ristampe successive.

Chi è Luigi Pirandello, in questa domenica 22 febbraio 1914? Ha quarantasei anni e va per i quarantasette, da dieci anni ha ottenuto quella fama cui ambiva da una vita grazie al suo terzo romanzo, Il fu Mattia Pascal (successo di pubblico e critica clamoroso), ed è autore di cinque romanzi, tre saggi, tre opere teatrali e diverse novelle.

Non è ancora scoppiata la Grande Guerra, conflitto immane che porrà Pirandello, fervente patriota figlio di un garibaldino, in un lacerante conflitto (l’ennesimo) con sé stesso: il primogenito Stefano sarà fatto prigioniero dagli austro-ungarici. Frattanto, in questo 22 febbraio 1914 che vede Il treno ha fischiato pubblicato sul Corriere della Sera, Pirandello è un autore ormai affermato presso i lettori ma non presso i critici, perché le sue opere non riescono a bissare il clamore de Il fu Mattia Pascal, e l’effetto dirompente di Sei personaggi in cerca d’autore è ancora di là da venire.

La fama fintanto ottenuta ha il classico rovescio della medaglia: la moglie Antonietta, che soffre di nervi dal 1903 a causa di un tracollo finanziario che aveva devastato le loro vite, e mai ha dato segni di una vera ripresa, vede anzi aumentare, a causa della notorietà del marito, la propria ansia patologica con crescente aggressività, giacché ha il terrore costante che Luigi, ormai affermato, possa tradirla con altre donne. Sembra la stessa gelosia morbosa che il padre di Antonietta riservava alla figlia, come un tragico schema che si ripete. Fatto sta che Pirandello, benché integerrimo e iper-controllato, non sa più cosa fare con la paranoia della povera donna, che inesorabilmente scivola lungo l’abisso della follia. Ed ecco che Il treno ha fischiato può aprirci diversi spiragli di riflessione. 

2023-11-11-08_39_15-pirandello-il-treno-ha-fischiato-in-novelle-per-un-anno-mndadori-1937-ricerIl treno, il fischio e le gabbie

La novella inizia in medias res: il povero Belluca è impazzito. Da contabile remissivo e mite, avvezzo a ricevere umiliazioni e soprusi sul posto di lavoro, il giorno addietro è uscito fuori di sé e di senno: prima si è preso gioco del tirannico capo-ufficio, il “signor Cavaliere”, e poi ha reagito ferocemente alla sua riprensione. Ora Belluca sta così male, nei suoi deliri febbricitanti, che andrà incontro a morte certa: è quel che pensano i colleghi. L’innominato io narrante della vicenda è qualcuno che conosce così bene il protagonista da poter garantire agli sprezzanti colleghi del pover’uomo – compiaciuti di portare infauste nuove dall’ospizio dove il presunto folle è ricoverato dalla sera prima – che in realtà è tutto nella norma: se conoscessero la vita privata di Belluca come lui, capirebbero che non c’è nulla di anomalo in questa “improvvisa follia” che ha colpito il disgraziato, e che anzi non si tratta di follia bensì della naturale conseguenza dello stato di cose di quell’infelice. Il narratore continua a rifletterci quando rimane solo, tra sé e sé:

«Cammin facendo verso l’ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio:
A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita “impossibile”, la cosa piú ovvia, l’incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d’un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell’uomo è “impossibile”. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per sé stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà piú tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro.
«Una coda naturalissima». (Pirandello: 1955: 38).

L’aggettivo “naturale” nelle sue varianti (“naturalissimo”, “naturalissima”, “naturalmente”, “naturalissimamente”) ricorre ben otto volte in questa breve novella: come fa spesso nelle sue opere, Pirandello vuole calcare un concetto affinché il lettore ce l’abbia ben impresso e possa, così, seguirlo nel suo ragionamento. Il punto è che non c’è nessuna follia in atto, bensì la naturale conseguenza della vita impossibile che finora il povero Belluca era riuscito a condurre.

Ecco l’esistenza vissuta dal presunto folle, premessa di quella che, come la chiama l’innominato narratore-testimone, è “una coda naturalissima”:

«Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l’altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; pàlpebre murate.
Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.
Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa.
Letti ampii, matrimoniali; ma tre.
Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi tra le vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch’esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta.
Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.
Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, piú intontito che mai» (Pirandello: 1955: 39-40).

Nulla da meravigliarsi che, prima o dopo, Belluca smettesse di condurre questa vita e che arrivasse al proprio limite. Occorreva solo un fattore scatenante, un evento catalizzatore. Avviene l’analessi: il narratore si fa dire qual è stato questo evento catalizzatore proprio dal protagonista, che all’ospizio glielo racconta con lucidità.

«Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.
Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati.
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno.
S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte.
C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava… Firenze, Bologna, Torino, Venezia… tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sí, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato piú!» (Pirandello: 1955: 39-40).

Il fischio di un treno lontano è la sirena improvvisa di tutte le possibilità che giacciono altrove, nel mondo fuori, mentre lui langue nel suo mondo dentro, prigioniero di due gabbie ben distinte ma intersecate, come se le sbarre dell’una sfumassero nelle sbarre dell’altra.

1000256899L’ufficio è una gabbia fatta di scartoffie e partite da registrare in un lavoro ripetitivo e senza creatività. Una “gabbia d’acciaio”, una stahlhartes Gehäuse come direbbe Max Weber, poiché per la rigidità strutturale del suo apparato burocratico riduce Belluca a una funzione, a un ingranaggio di un meccanismo più grande (Weber: 1905). Però ciò che rende tale gabbia davvero intollerabile è la cattiveria gratuita dei colleghi e del capo-ufficio, questo “signor Cavaliere” che incarna non solo l’autorità gerarchica che controlla e limita esigendo disciplina assoluta, ma anche la crudeltà inutile che spesso i capi hanno verso i sottoposti.

La famiglia è l’altra gabbia dove, invece di ristoro, trova un tormento persino peggiore: famigliari che sono non solo malati e bisognosi, ma anaffettivi e feroci anch’essi. Travolti dalle proprie rispettive sofferenze che sembrano metterli in competizione fra loro, essi non vedono più Belluca, non si danno alcuna cura di lui, se non come di colui che deve garantire a ciascuno la sopravvivenza.

Quindi il protagonista è ingabbiato in ruoli prefissati quale impiegato umile e ligio da un lato, e uomo di casa responsabile di tutti dall’altro lato. Riprendendo Weber e osservando come Belluca cambia dopo il fischio del treno, potremmo dire che quest’uomo prima agiva mosso (o forse, si lasciava agire passivamente) da una pragmatica Verantwortungsethik, ossia un’etica della responsabilità, piuttosto che da una sincera Gesinnungsethik, ossia un’etica della convinzione (Weber: 1919). Era la necessità di sfamare i suoi cari a renderlo disponibile a tutti quegli abusi, e non l’aspirazione alla santità o la gioia di immolarsi per una causa. Al contempo fa riflettere come, secondo ciò che ci dice il narratore-testimone, Belluca avesse in pratica interiorizzato l’ineluttabilità di quegli abusi:

«S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse piú, avvezzo com’era da anni e anni alle continue e solenni bastonature della sorte» (Pirandello: 1955: 34-35).

Al di là del senso del dovere ed escludendo il masochismo, come spiegare tutta questa remissività?

Pierre Bourdieu parlerebbe di habitus e vincoli sociali interiorizzati. Belluca accettava, senza metterli in discussione, non solo i vincoli imposti dalle necessità economiche (marito, genero e nonno responsabile, nonché impiegato obbediente), ma tutti gli abusi perpetrati su di lui in nome di questi vincoli (Bourdieu: 1980).

1000256823Émile Durkheim evidenzierebbe come questo inter-sistema fra lavoro e famiglia, che schiacciava Belluca, era un fait social coercitif, un “fatto sociale coercitivo” (Durkheim: 1895), la cui eccessiva regolamentazione lo ha limitato fino a provocare in lui il fatalismo, che è un tipo di suicidio opposto all’anomia (Durkheim: 1897) tanto che nel tempo, potremmo aggiungere, è sfociato in un burnout.

Michel Foucault vedrebbe nel capo-ufficio e nei famigliari figure di sorveglianza disciplinare, simili a un panópticon: infatti il controllo era costante da parte di ciascuno di loro, fino a essere, appunto, interiorizzato da Belluca (Foucault: 1975).

Il risultato di tutto ciò è che ogni suo sforzo verso le proprie responsabilità è sprofondato in un buco nero, giacché non solo lui non ha avuto mezzi né libertà economica per evadere concretamente, ma nemmeno un vero desiderio di farlo, non ancora almeno. Belluca non ha avuto neanche il lusso di un’evasione mentale, immaginaria, almeno finché non ha sentito il fischio del treno fare breccia nel suo isolamento.

Henri Lefebvre parlerebbe di moment ossia di un momento di rottura temporanea nella monotonia della vita quotidiana. Questi momenti intesi da Lefebvre sono eccezionali e carichi di significato, offrendo la possibilità tanto di un’esperienza autentica quanto di un rinnovamento della società: nel caso personale di Belluca, è avvenuto proprio questo (Lefebvre: 1947).

1000256851Ne consegue che il pover’uomo finalmente torna a desiderare, e Zygmunt Bauman forse parlerebbe di desiderio di mobilità in contrasto con una società di inizio XX secolo che è ancora rigida e “solida”, pre-moderna rispetto alla modernità liquida in cui oggi, un secolo dopo, siamo immersi (Bauman: 2000).

Dunque Belluca inizia un’evasione che non è fisica ma mentale e, si potrebbe azzardare, morale. Ma dov’era diretto il treno? Chissà. Forse in Siberia, o nelle foreste del Congo. Ma è importante saperlo? No. Il fischio è stato sufficiente a creare un varco nella mente dell’uomo, che vi sbircia e ritrova il sé dei propri ricordi, quando anche lui aveva viaggiato e visto altri luoghi, altre possibilità di vita. Ciò è stato sufficiente a far entrare (o a far tornare di nuovo?) la mente di Belluca nel cosmo della poiein, dove il linguaggio è costruzione, produzione, creazione, in una maniera così inventiva che per i suoi colleghi, abituati a sentirlo parlare solo di cifre, registri e cataloghi, è qualcosa di necessariamente folle:

«Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto piú stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s’era mai occupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite» (Pirandello: 1955: 37).

Quest’apparente “alienazione mentale” è, piuttosto, un ritorno alle infinite possibilità del reale dopo la concreta alienazione esistenziale che l’uomo aveva vissuto fra le sue due gabbie. Un’alienazione esistenziale frutto tanto del sistema lavorativo quanto di quello famigliare che lo avevano imprigionato; in tale stato possiamo trovare quella che Karl Marx avrebbe definito Entfremdung, l’alienazione che nasce dal processo attraverso il quale un lavoratore diventa estraneo al proprio lavoro, al prodotto che crea, alla propria essenza umana e agli altri (Marx: 1932).

Come il luogo di lavoro, anche la famiglia di Belluca, concausa di quest’alienazione, è un sistema così chiuso che forse, in modo azzardato, potremmo paragonarlo a quella che Erving Goffman ha definito total institution, intendendo un luogo di residenza e lavoro dove un gran numero di individui, tagliati fuori dal resto della società per un periodo importante di tempo, conducono un’esistenza amministrata formalmente (Goffman: 1961).

1000256848Belluca dunque viveva recluso in un inter-sistema costituito dall’abbraccio mortale di questi due sistemi, il lavoro e la famiglia, che, come due gabbie comunicanti, costituivano un’unica prigione.

Infatti, sebbene sia lui il perno fondamentale di entrambi questi sistemi, paradossalmente ne viene parassitato e svuotato. In anni recenti, un’immagine contemporanea di tale parassitario svuotamento è il modo in cui gli esseri umani fanno da batterie viventi nella saga e media franchise di Matrix (1999-2021).

Non sorprende allora che il pover’uomo abbia vissuto un’alienazione che lo ha portato all’annullamento di sé e alla perdita di ogni aspirazione.

Chiaramente la situazione di Belluca non è imputabile solo a meccanismi, sistemi e forze sociali, ma anche a circostanze personali e variabili esistenziali: possiamo auspicare che un capo-ufficio non debba essere necessariamente un tiranno sadico con tanto di colleghi antipatici, né che sia comune il doversi occupare di ben tre donne cieche e due figlie vedove con prole al sèguito nello stesso nucleo famigliare. Lo scrittore esaspera volutamente tale quadro con immagini iperboliche per darci l’idea di quanto la Vita sia incontrollabile e impietosa, a dispetto di tutti i tentativi della Forma di contenerla. Qui possiamo ricollegarci a quel vissuto personale dell’autore che avevamo richiamato: l’abisso della follia che, in questo 1914, sta risucchiando sua moglie, avvelenando la vita di Pirandello.

Tra meccanismi sociali, dinamiche famigliari e tragedie personali, ecco che Belluca, da uno stato di mera sopravvivenza nutrita dal senso del dovere, ode un fischio che si delinea come una crepa sul muro del suo quotidiano, fessura dalla quale sbircia il mondo là fuori, dove la vita non ha smesso di scorrere lungo infinite possibilità e la fantasia può essere un atto di resistenza.

Abbiamo menzionato il burnout: tale termine, che esordirà sei decenni dopo (Freudenberger: 1974) e oggi è di uso comune, potrebbe descrivere bene l’evento che Belluca ha vissuto e che all’inizio della novella i comprimari cercano di spiegarsi come “frenesia”, “encefalite”, “infiammazione della membrana” o “febbre cerebrale”; infatti il burnout inizia a manifestarsi come risposta emotiva a uno stress cronico, con una graduale implosione (calo di energia, perdita di motivazione, svuotamento crescenti) finché, in alcuni casi, può degenerare in reazioni incontrollate, come «esplosioni di collera ingiustificate» (Castiglia: 2006: 9).

locandinaUna pellicola interessante che parla di alienazione con un profondo svuotamento psicologico è “Cinque pezzi facili” (Five Easy Pieces) di Bob Rafelson con Jack Nicholson nel ruolo di Bobby Dupea (del 1970, quindi prima dell’esordio del termine burnout). Ancor più centrato rispetto al tema, è il film “Un giorno di ordinaria follia” (Falling Down) di Joel Schumacher con Michael Douglas nel ruolo di William “D-Fens” Foster (1993), focalizzato su un concetto cruciale che è il medesimo su cui Pirandello vuole far riflettere i lettori: chiunque può avere un collasso emotivo, nessuno è immune ai colpi della vita, crollare non è prerogativa dei folli.

In àmbito fumettistico, The Killing Joke di Alan Moore e Brian Bolland (1988), graphic novel ritenuto un capolavoro di fondamentale importanza per il genere, vede il Joker ripensare alle proprie origini e commettere atrocità per dimostrare a Batman e al Commissario Gordon proprio questo: lui non è un mostro, i folli non sono una categoria a sé, e chiunque a causa di una brutta giornata, anche l’uomo più assennato del mondo, può diventare un pazzo – questa convinzione sarà fatta propria dall’incarnazione del Joker fatta da Heath Ledger in The Dark Knight di Christopher Nolan (2012).

Belluca non cambia a causa di una singola brutta giornata ma grazie a un’epifania giunta dopo una serie infinita di brutte giornate, né si ritiene un pazzo ma anzi si vede all’apice della propria lucidità, però anticipa questo concetto che sarà mostrato da altre storie e altri personaggi: il confine tra noi e il nostro crollo è fatalmente labile.

La crepa sul muro della quotidianità di Belluca si estende fino alla sua stessa maschera, tanto che decide di rinunciarvi completamente fino a provocare la lite col suo insopportabile capo-ufficio. «Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d’una improvvisa alienazione mentale» (Pirandello: 1955: 35). Questa crisi ha un esito all’inizio disastroso ma, forse, positivo in sèguito, come vedremo nel finale.

5000000178144_0_0_536_0_75Ci vorranno dodici anni prima che Pirandello, nel romanzo Uno, nessuno e centomila (1926), dia ai lettori Vitangelo Moscarda, un uomo talmente scosso dalla dolorosa realizzazione della sua identità frammentata nelle infinite percezioni altrui, che si auto-annulla nella propria lotta disperata per liberarsi dalle Forme e abbracciare la Vita.

Per Belluca, invece, non è così: riesce a tenere banco, con la complicità dell’innominato testimone-narratore che assicura tutti, compresi noi lettori, della naturalezza del cambiamento del pover’uomo.

Per Moscarda, la ricerca di un’identità autentica si rivela impossibile, non riesce a sbarazzarsi dei tentativi continui della società di farlo negoziare tra la sua individualità e le costruzioni che essa ha realizzato, finché egli non si cala totalmente nel ruolo del pazzo dopo una graduale discesa nell’abisso. Per Belluca, è l’opposto: dopo un exploit di apparente follia, in cui in realtà non ha mai perso la lucidità, ritorna in sé in modo nuovo, aiutato dal narratore-testimone.

Queste lotte dentro i personaggi sono esacerbate dall’incomunicabilità umana e dalla conseguente incapacità di capirsi, ma la fortuna di Belluca è che ha un narratore-testimone a mediare e reggergli il gioco; Moscarda, che narra tutto in prima persona, no. Entrambi comunque diventano istrioni e, così, autori di sé stessi su quel palco che, in fondo, calchiamo tutti, ogni giorno.

Totus mundus agit histrionem. Questa la premessa, dal vago sapore shakespeariano, delle azioni dei personaggi di Pirandello, una volta che decidono di togliersi la maschera imposta dalla società e indossarne una fatta da loro.

Ma alla fine come termina questa epifania di Belluca, che sembra anticipare le epifanie di Joyce?

«Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti… Sí, sí, le vedeva, le vedeva, le vedeva cosí… c’erano gli oceani… le foreste…
E, dunque, lui — ora che il mondo gli era rientrato nello spirito — poteva in qualche modo consolarsi! Sí, levandosi ogni tanto dal suo tormento per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo.
Gli bastava!
Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.
Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui, come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sí, in Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo:
— Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato… »(Pirandello, 1955: 42). 

Ecco quella possibile, (cautamente) ottimistica riuscita finale che Pirandello ci prospetta: un possibile compromesso tra la sua nuova consapevolezza e la sua vecchia vita.

Belluca non può abbandonare la sua quotidianità, ma la può gestire diversamente. Lui non se ne va e non cambia vita, non è Mattia Pascal, ma ora ha una nuova prospettiva che trae linfa dai ricordi della vita passata in cui vedeva il mondo, ricordi usciti dall’abisso in cui erano sprofondati. Questa epifania non è una rottura totale, ma la consapevolezza che il mondo, con altre infinite possibilità, esiste, e che lui – anche con l’aiuto del narratore-testimone – può affrontare persino quell’incomunicabilità con gli altri esseri umani che Pirandello dipinge così bene, e può essere finalmente visto.

Concretamente, il “signor Cavaliere” dovrebbe concedergli pause e smetterla di maltrattarlo, così come i suoi famigliari, capendo, tutti, quanto lui sia indispensabile per loro.

Il treno ha fischiato, Belluca ha guardato fuori dalle sue gabbie, e ora può tentare una sorta di riconciliazione tra la sua vita interiore e quella esteriore.

Non è affatto poco.

 Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025
Riferimenti bibliografici
Bauman, Z., Modernità liquida [2000]. Trad. di S. Minucci. Laterza, Bari 2011.
Bourdieu, P., Il senso pratico [1980]. Trad. di M. Piras. Armando Editore, Roma 2022.
Castiglia, S., Il burnout, S.C. Psicologia ASL 15 di Cuneo. Documento PDF online, 2007, in http://www.uocp.it/public/documenti/corsi/2006_7/Il%20Burnout.pdf?hl=es-ES (ultimo accesso il 18-6-2025).
Durkheim, É., Le regole del metodo sociologico [1895]. Trad. di M. Prospero. Editori Riuniti, Roma 2019.
Durkheim, É., Il suicidio [1897]. Trad. di R. Scramaglia. Rizzoli (BUR), Milano 2014.
Foucault, M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione [1975]. Trad. di A. Tarchetti. Einaudi, Torino 2014.
Freudenberger, H.J., “Staff Burn-Out”, in Journal of Social Issues, vol. 30, n. 1 (1974: 159–165.
Goffman, E., Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza [1961]. Trad. di F. Basaglia. Einaudi, Torino 2010.
Lefebvre, H., Critica della vita quotidiana. Volume I [1947]. Trad. di V. Bonazza. Dedalo, Bari 1993.
Marx, K., Manoscritti economico-filosofici del 1844 [1932]. Trad. di N. Bobbio. Einaudi, Torino 2004.
Moore, A. (testi), Bolland, B. (disegni). Batman: The Killing Joke [1988]. Panini Comics, Modena 2024.
Pirandello, L., “Il treno ha fischiato”, in Novelle per un anno, vol. IV [1922]. Arnoldo Mondadori Editore, Verona 1955: 33–42.
Weber, M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo [1904-1905]. Trad. di A.M. Marietti. Rizzoli, Milano 1991.
Weber, M., La scienza come professione. La politica come professione [1919]. Trad. di H. Grunhoff, P. Rossi, F. Tuccari. Einaudi, Torino 2004. 

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Claudio Gnoffo, dottorando in “Scienze Umanistiche” presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi di Roma e cultore di “Storia dell’Arte Medievale” presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo, è stato coordinatore nel 2022 del convegno internazionale “Realtà mediali. Sociologia, semiotica e arte negli immaginari e nelle rappresentazioni” e co-curatore del 1° volume tratto da esso, Realtà mediali. Medialità, arte e narrazioni, per UniPa Press; è inoltre autore di diversi articoli scientifici, fra cui, con regolarità dal 2019, per “Le nuove frontiere della scuola” de La Medusa Editrice.

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