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L’innocenza perduta. Razzismo e antirazzismo all’italiana

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 02:53 In Cultura,Letture | No Comments

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Nell’ottobre del 2019 la casa editrice People [1], fondata da Giuseppe Civati, Stefano Catone e Francesco Foti, porta alle stampe E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana, testo già arrivato oggi alla sua seconda ristampa. L’autrice, Espérance Hakuzwimana Ripanti, è una giovane bresciana (anche se attribuirle l’appartenenza ad una sola città italiana, una volta letto il libro, risulta decisamente riduttivo) afrodiscendente [2]. È con molta cautela [3] che uso le parole per presentare l’autrice, che ha scritto questo libro proprio al fine di sfuggire a qualsiasi tipo di definizione, precostituita e piatta, all’interno della quale giornalisti e media, ma anche gente comune, cercano da sempre di inquadrarla.

240 pagine, dense e polimorfe nella loro struttura (corrispondenze epistolari, diari, liste, analisi sociologica, etc.), che servono a chi scrive per autodefinirsi: nera sì, scrittrice sì, donna sì, ma anche molto altro in più; perché queste espressioni racchiudono in sé migliaia di sfumature e difformità che spesso vengono invece ridotte ad un unico colore, soprattutto se si riferiscono a qualcuno che fa parte di una minoranza. Come nel caso della scrittrice.

Ho avuto l’occasione di conoscere Hakuzwimana Ripanti qualche tempo fa a Palermo, in occasione di un festival tenutosi ai Cantieri Culturali alla Zisa nell’aprile 2019 [4]. Durante un breve incontro alcune persone, se non erro tutte donne, italiane di diverse origini, raccontavano la propria esperienza e le proprie storie di resistenza quotidiana o di attivismo, attraverso blog, libri, etc. Dopo quell’incontro ho iniziato a seguire questa giovane scrittrice che sembrava prendere a morsi la vita come un affamato a cui da tempo è stato negato il suo piatto preferito. I suoi profili social [5] sono pieni di riflessioni personali, di suoi interventi a manifestazioni pubbliche o programmi televisivi e di suggerimenti di lettura. Quando ho saputo della pubblicazione del suo primo libro ne sono stata incuriosita, ho anche letto altri suoi contributi [6], ma il libro è andato in coda, in fondo alla pila, sempre in aumento, di volumi che attendevano di essere letti.

Mi sono ritrovata a leggere E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno 2020, al termine del lungo periodo di lockdown dettato dalla pandemia. Proprio in quei giorni, il 25 maggio poco dopo le 20.00, dall’altra parte del planisfero, a Minneapolis, George Floyd, un uomo afroamericano di mezza età moriva soffocato da Derek Chauvin, agente di polizia bianco, che in seguito ad un controllo su segnalazione di un negoziante, sotto lo sguardo di diversi colleghi e passanti, lo immobilizzava premendo il ginocchio sul collo dell’uomo inerme per 8 minuti e 46 secondi, nonostante le suppliche e le sofferenze, che quest’ultimo manifestava dichiarando di non riuscire a respirare.

E proprio quel grido di sofferenza, “I can’t breathe”, è diventato il grido di centinaia di migliaia di afroamericani che hanno preso parte al movimento Black Lives Matter per manifestare contro le continue violazioni di diritti, la condizione di forte iniquità sociale e la violenza strutturale cui gli afrodiscendenti americani sono costretti ormai da secoli. La mobilitazione americana ha dato il via a numerosissime dimostrazioni in tutto il mondo, a sostegno della causa antirazzista americana e mondiale. Anche molte piazze d’Italia si sono mobilitate: il brutale episodio di violenza, avvenuto a 7 ore di fuso orario, ha scosso le coscienze di moltissimi. Da Roma a Torino, da Milano a Napoli, migliaia di persone, soprattutto giovani, neri e bianchi, sono scesi in strada per ribadire che non c’è pace senza giustizia, e per ricordare al mondo politico e mediatico che il razzismo esiste anche in Italia, con forme di discriminazione istituzionalizzata che raramente vengono menzionate tra le questioni irrisolte del nostro Paese: dal colpevole silenzio sul mancato ius soli, ai decreti sicurezza, rimasti in vigore nella totale indifferenza di forze politiche che si dichiarerebbero progressiste. C’è una porzione di popolazione in Italia che è rimasta invisibile per decenni, e che finalmente ha preso parola, senza chiedere permesso, o senza passare attraverso l’imprescindibile “filtro bianco” [7], che regna sovrano nel panorama mediatico e main stream.

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Espérance Hakuzwimana Ripanti alla manifestazione di Piazza Vittorio a Torino

Ciononostante le piazze del 6 e del 7 giugno, nella loro apprezzabilità, non hanno semplicemente fatto un gesto di solidarietà verso i neri d’Italia, hanno piuttosto scoperchiato un vaso di Pandora, portato alla luce tutta la polvere che per decenni era stata nascosta sotto il tappeto del patriottismo.

Anche Espérance Hakuzwimana Ripanti era presente a una delle manifestazioni, e nel bel mezzo di Piazza Vittorio a Torino, con un microfono in mano, dopo avere espresso la sua gioia nel vedere la grande partecipazione alla manifestazione antirazzista, ha chiesto a tutti i presenti dove fossero stati negli anni scorsi.

Dove eravamo quando il 3 febbraio 2018 un militante di estrema destra andò in giro per le strade di Macerata a sparare a tutte le persone nere che gli capitavano sotto tiro? Dove eravamo quando avremmo potuto e dovuto difendere le vite di Samb Modou, Diop Mor, Munkail Kailu Osman, Sacko Soumaila prima che fosse troppo tardi [8]? E dove saremo domani? Quando allo stadio qualcuno insulterà un calciatore di origine straniera invitandolo a mangiare banane? Quando un’altra ONG verrà bloccata nel Mediterraneo, e un altro barcone naufragherà? Dove saremo quando il prossimo parlamentare proporrà l’ennesimo decreto discriminatorio e incostituzionale?

I giovani afrodiscendenti, raccolti in piazza, hanno non solo manifestato una forte sofferenza collettiva, ma anche e soprattutto interrogato le nostre coscienze sui fondamenti della nostra società e sul nostro agire quotidiano, mettendoci davanti al fatto compiuto: il razzismo sistemico non è un problema lontano da noi, l’Italia è – in una certa misura e sotto alcuni aspetti – un Paese razzista, se penso all’ultimo episodio dell’agente di polizia che all’interno del commissariato, nell’indifferenza dei colleghi presenti, ha voluto ripetutamente umiliare e picchiare un giovane migrante; e non lo è diventato solo di recente con l’avvento di movimenti politici apertamente xenofobi. Riscoprirsi oppressori di una minoranza, detentori di un privilegio, il privilegio bianco, non è certo piacevole. Eppure è necessario se si vuole generare un cambiamento nella società.

Nel suo libro, con una scrittura molto concitata, che forse risulta a volte oltremodo orpellata [9], per quanto sincera, Hakuzwimana Ripanti racconta alcuni episodi o circostanze che sono macchiati di quel “male trasparente” [10] che appare innocente agli occhi di chi lo compie, ma che ferisce e lacera, anche in modo puntuale e rigoroso, chi ne è vittima. Quello stesso vezzo che non si trattiene dal giudicare “esagerata” una reazione rabbiosa o infastidita di colei che si trova ad essere bersaglio di frasi fuori luogo o di schernimento, espressione di un sottotesto inconsapevolmente razzista [11].  Ciò che ci sfugge è che il razzismo (come anche il sessismo o l’omofobia) sono delle strutture di pensiero all’interno delle quali sono imbricati i nostri rapporti interpersonali: un’azione che io posso considerare innocua o scherzosa, può essere percepita in modo brusco o offensivo dal mio interlocutore, perché quel gesto, aldilà della conversazione del momento o del legame relazionale che mi unisce  alla persona in causa, è radicato in una cultura discriminatoria (la galanteria quando non richiesta, così come l’apprezzamento del fascino esotico di un corpo, pur venendo elargiti come complimenti e apprezzamenti, si fondano su princìpi di iniquità sociale e culturale che pongono su un piedistallo l’uomo bianco europeo, reificando le donne o i “corpi neri”). Pur essendo noi stessi, bianchi italiani, a riprodurre modelli di discriminazione sociale, ci arroghiamo solo noi il diritto di decidere cosa è razzismo e cosa non lo è.

L’importanza della pubblicazione di un libro come questo sta nell’atteggiamento che inconsciamente, o forse anche apertamente, l’autrice richiede ai suoi lettori. Quello che chiede Espérance Hakuzwimana Ripanti è, per una volta, di essere ascoltata, di relazionarsi con un lettore che si pone in una condizione di empatia e di assimilazione e non di diffidenza, giudizio e inquisizione [12]. Di potersi raccontare senza che nessuno frapponga tra lei e la realtà il filtro degli stereotipi e dei luoghi comuni. L’invito è a interrogarsi dunque, e non ad interrogare. A chiedersi quali sono le radici delle nostre azioni, quali le etimologie o i significati reconditi delle parole che usiamo, quali le storie che si nascondono dentro l’onomastica delle nostre città.

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Bristol, manifestazione per abbattere la statua di Edward Colston

Il tema della toponomastica e del significato delle statue presenti nel tessuto urbano è tornato prepotentemente in auge in questi giorni di contestazione antirazzista. In molte città del mondo, anche europee, i manifestanti hanno divelto statue o le amministrazioni si sono trovate costrette a rimuoverle, rispondendo alle pressanti richieste dei cittadini. A Bruxelles e ad Anversa è stata imbrattata o è stata richiesta la rimozione della statua di Leopoldo II, noto per un passato coloniale di violento sfruttamento schiavista contro la popolazione del Congo; a Londra il monumento di Winston Churchill è stata danneggiato e le proteste di molti hanno condotto alla rimozione dell’effigie di Robert Milligan, politico e mercante di schiavi. In diverse città degli Stati Uniti, a Richmond e Boston, i simulacri di Cristoforo Colombo sono stati imbrattati o decapitati. La scena più “spettacolare”, dal punto di vista mediatico, è stata l’abbattimento della statua di Edward Colston. I manifestanti, nel corso della protesta, l’hanno abbattuta e l’hanno gettata poi nelle acque del fiume Avon. Il caso di Bristol e di Edward Colston è particolarmente significativo perché la statua in questione era da tempo al centro di un dibattito cittadino: dagli anni Novanta numerose petizioni avevano già sollevato controversie rispetto alla legittimità di un monumento che di fatto commemorava un benefattore della città, che aveva però elargito beni e finanziamenti alla comunità con i proventi ottenuti da decenni di commercio di schiavi dall’Africa. Pare infatti che Colston si sia reso «responsabile con i suoi traffici – anche di minori – della morte di circa 20mila persone»[13].

Anche in Italia la contestazione ha focalizzato la sua attenzione sulle statue: il 13 giugno a Milano una statua dedicata al giornalista Indro Montanelli è stata imbrattata con vernice rossa, e alla base vi è stata apposta la scritta “Razzista e stupratore”  [14].

Questi gesti sono stati condannati su più fronti come atti di rimozione storica, violenza e vandalismo [15], che hanno minato la quiete e il decoro dei centri urbani, danneggiando monumenti storici. Ciò che sfugge, in questo giudizio sommario e senza profondità storica, è che, come è già stato evidenziato da molti giornalisti ed intellettuali [16], l’abbattimento delle statue è un evento che fa parte della storia e non una rimozione della stessa. L’abbattimento delle statue dei dittatori comunisti nell’Europa dell’Est, come anche del Muro di Berlino o della statua di Saddam Hussein in Iraq non sono stati valutati in questi termini, ma per quello che rappresentavano politicamente e simbolicamente: la sovversione di un ordine costituito, la negazione di valori che venivano prima glorificati, rimossi anche attraverso la distruzione dei loro simboli.

Non è mia intenzione esprimere un giudizio di valore sulla ragione o sul torto di chi si è espresso in merito alla questione; tuttavia ciò che credo sia imprescindibile per una valutazione analitica dei fatti è chiedersi: qual è la funzione di una statua? Perché si intitola una strada ad un personaggio piuttosto che ad un altro?

La funzione di una statua o della toponomastica, generalmente, è quella di celebrare un personaggio storico e il suo operato. I posti a cui affidiamo l’approfondimento storico, la contestualizzazione e l’analisi a tuttotondo dei personaggi storici sono i musei e non le strade. Selezionando nomi e personalità, scegliamo dei simboli a cui decidiamo di delegare la rappresentazione dei valori in cui crediamo come collettività. Come ha egregiamente espresso Matteo Pascoletti in uno degli articoli più completi e complessi pubblicati di recente sull’argomento [17]:

«Chi scegliamo di celebrare attraverso i monumenti, o anche solo con i nomi delle vie, definisce i valori di quello spazio, traccia una mappatura di messaggi».

48872482_1592349888530434_rNessuno si sognerebbe mai in Sicilia di erigere una statua per commemorare Totò Riina, o di intitolare una piazza a Vito Ciancimino, perché sarebbe considerato oltremodo offensivo e privo di rispetto nei confronti dei principi e dei valori considerati fondanti della comunità.

In questo senso i movimenti che si battono per la rimozione e sostituzione della toponomastica coloniale o razzista nelle realtà urbane [18] svolgono un importante ruolo di critica storiografica, problematizzando la realtà storica e interrogando il presente. Ciò che raccontiamo, o scegliamo di raccontare del nostro passato, ci identifica oggi. Il modo in cui scegliamo di rappresentarci ci qualifica nella realtà.

Il negazionismo storico che l’Italia ha scientemente compiuto rispetto al suo passato coloniale [19] ha presentato oggi il conto. Una società che si professa antirazzista [20] ma non si mette in discussione, sta dando vita ad un “antirazzismo di facciata” o antirazzismo wannabe, come lo definisce Espérance Hakuzwimana Ripanti. L’antirazzismo non è un vessillo da esporre all’occorrenza, ma un processo che dobbiamo imparare e praticare.

Se vogliamo davvero lasciare il segno e concretizzare la solidarietà al movimento Black Lives Matter, dobbiamo smetterla di spiegare ai neri come dovrebbero comportarsi per essere accolti e integrati nella nostra società. Dovremmo piuttosto ascoltare storie e suggerimenti [21], interrogarci sul lessico che usiamo, sugli atteggiamenti che riproduciamo, spesso anche inconsciamente ma non meno colpevolmente, prendere atto che siamo detentori di un privilegio, quello bianco e suprematista, che ci precede socialmente e storicamente e che a volte ci schiaccia come individui ma di cui riproduciamo i meccanismi. Dovremmo ricordare. Dovremmo leggere di più e diversamente: ascoltare storie diverse, considerare autori stranieri e non solo occidentali [22].

È questo quello che in fondo ci chiedono le voci nere d’Italia, di essere prese in considerazione con pari dignità, di essere rappresentate in modo reale e di poter auto-rappresentarsi. È questo che ci chiede Espérance Hakuzwimana Ripanti, e lo fa in modo diretto e sincero.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] Sul sito, nella sezione “chi siamo”, si può leggere «Una casa editrice con una missione: raccontare e indagare il cambiamento nella società».
[2] Nata in Ruanda nel 1991, cresciuta a Brescia, oggi vive a Torino. Collabora con “Razzismo brutta storia”, un movimento che lavora con giovani, associazioni, scuole, carceri e biblioteche; lavora per Radio Beckwith Evangelica, conducendo il programma radiofonico su libri e attualità.
[3] Se non altro con un’attenzione ancora maggiore a quella che di solito sono abituata a riservare alle parole che uso, unico strumento che possiedo per narrare e creare gli immaginari che conosco o che vorrei far conoscere al lettore.
[4] Si trattava del Nuove Pratiche Fest – Comunità planetarie, una manifestazione organizzata dall’impresa sociale CLAC e dall’agenzia di creazione Pescevolante.
[5] È molto attiva sui suoi account Facebook e Instagram (@unavitadistendhal), che riscuotono molto successo.
[6] In particolare il racconto “Lamiere” all’interno di Future. Il domani narrato dalle voci di oggi edito per Effequ nel 2019.
[7] Con questa espressione si intende quel filtro o lente culturale, imposta dalla maggioranza, che razzializza un gruppo minoritario, definendolo per differenza attraverso precisi criteri che ne limitano opportunità, diritti e privilegi.
[8] Purtroppo la lista è molto più lunga, e Hakuzwimana Ripanti cita diversi nomi ed episodi nel capitolo “Corpi” del libro che qui presento. Cito solo l’ultima vittima, il caso di Adnan Siddique, giovane di origine pakistana residente a Caltanissetta, rimasto ucciso il 3 giugno 2020 per aver provato a ribellarsi (e sensibilizzare alcuni conoscenti alla denuncia) contro lo sfruttamento del caporalato.
[9] Il giudizio che esprimo è dettato esclusivamente dal gusto personale, che predilige una prosa più scorrevole e lineare.
[10] “Male trasparente”.
[11] Questo stesso tipo di reazione è quella con cui sono costrette a scontrarsi molte donne, che nel momento in cui reagiscono ad un complimento non gradito o percepisco con disagio e fastidio un gesto loro rivolto, vengono accusate di essere scortesi, insolenti o acide. Capita spesso anche a me.
[12] “E tu di dove sei?”
“Roma/Torino/Brescia/etc.”
“No, ma da dove vieni veramente?”
Questo è uno dei classici esempi, presentato anche dall’autrice nel testo qui in esame. Tuttavia questo stesso atteggiamento è, ancora una volta, riscontrabile nei casi di denuncia di molestie e stupri, quando le vittime vengono sottoposte a interrogatori assurdi, al fine di accertarne la credibilità (se non, eventualmente, la corresponsabilità o l’assenso).
[13]https://www.valigiablu.it/rimozione-statue-proteste-razzismo/
[14] La condotta di vita, nonché le posizioni politiche ed ideologiche apertamente espresse da Indro Montanelli sono oggetto di contestazione da molti anni. In particolare ciò che viene aspramente criticato fu il suo “matrimonio temporaneo” (in alcuni casi definito addirittura un leasing) con una dodicenne eritrea, Destà. Per maggiori informazioni: https://ilmanifesto.it/la-sposa-bambina-che-puzzava-di-capra/ .
[15] Quando non di iconoclastia (https://www.agi.it/estero/news/2020-06-11/furia-antirazzista-statue-abbattute-8868372/) e razzismo (https://www.fanpage.it/cultura/lo-storico-alessandro-barbero-abbattere-le-statue-e-una-forma-di-razzismo/ ).
[16] Per citarne solo alcuni: Christian Raimo, la sociologa Francesca Coin e il collettivo Wu Ming.
[17]Già citato in precedenza: “Da Bristol a Bruxelles, la rimozione delle statue come atto politico”, 11 giugno 2020, https://www.valigiablu.it/rimozione-statue-proteste-razzismo/
[18] Ne cito solo alcuni: Viva Menilicchi Guerriglia Odonomastica Anticoloniale, che ha mosso i suoi passi da Palermo, Toponomastica femminile (Tf), toppletheracists.org/ del movimento Stop Trump coalition. Cito qui anche l’importante lavoro di ricerca di Igiaba Scego e Rino Bianchi, Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, 2014.
[19] È forse pleonastico riportare la memoria al mito degli “Italiani, brava gente”.
[20] O meglio, che non si definisce razzista, che è cosa ben diversa.
[21] Uno dei capitoli del testo qui presentato si chiama “Antirazzista wannabe: suggerimenti”.
[22] Uno degli aspetti più apprezzabili del testo è il capitolo “I libri degli altri”, in cui l’autrice riporta una lista di 14 libri, di diversa tipologia, struttura, forma e origine, che sono stati importanti per la sua formazione e che l’hanno aiutata a conoscere le diverse sfaccettature del mondo e anche a porsi le giuste domande, più che a trovare delle risposte. La lista è introdotta da questa frase: «ecco a voi la mia famiglia di carta e libertà: corretele incontro, ha un sacco di cose da dirvi».

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Cinzia Costa, dopo aver conseguito la laurea in Beni demoetnoantropologici all’Università degli Studi di Palermo si è specializza in Antropologia e Storia del Mondo contemporaneo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia con una tesi sulle condizioni lavorative dei migranti stagionali a Rosarno, focalizzando l’attenzione sulla capacità di agency dei soggetti. Si occupa principalmente di fenomeni migratori e soggettività nei processi di integrazione. Collabora con l’Associazione Sole Luna – Un ponte tra le culture.

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