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L’indifferenza: una parola chiave da Antonio Gramsci a Papa Francesco
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2018 @ 00:13 In Cultura,Letture | No Comments
di Francesco Virga
Nel febbraio del 1917, mentre è ancora in corso la prima guerra mondiale, il giovane socialista Antonio Gramsci, allora studente di Lettere al’Università di Torino, scrive un celebre articolo dove, in un suo passo centrale, si afferma:
Chi scrive è rimasto particolarmente colpito dal fatto che, in uno dei suoi primi interventi pubblici, subito dopo la sua imprevista elezione al soglio pontificio, Francesco, il papa argentino di origini italiane, abbia ripreso una parola chiave del pensiero di Antonio Gramsci denunciando la “globalizzazione dell’indifferenza” di fronte ad un problema epocale del nostro tempo, come quello delle migrazioni, di cui la sua famiglia d’origine aveva fatto diretta esperienza:
Naturalmente diversi rimangono il lessico e la visione complessiva del mondo tra Gramsci e il Papa argentino. D’altra parte, dal momento in cui in cui vengono scritte le parole del sardo ad oggi, è trascorso più di un secolo segnato da due guerre mondiali, grandi rivoluzioni che hanno tradito le loro originarie promesse e tante dolorose tragedie. È indubbio che il tema dell’indifferenza viene assunto da Francesco con una connotazione diversa rispetto a Gramsci. Eppure, tra i due diversi punti di vista esiste una convergenza che cercheremo di mostrare, anche per mettere in discussione alcuni luoghi comuni duri a morire.
La religione nella visione gramsciana del mondo
Il giovane Gramsci è stato fortemente attratto dal pensiero di Benedetto Croce. Anche per questo ha riconosciuto che la religione è «un bisogno dello spirito. Gli uomini si sentono spesso così sperduti nella vastità del mondo, si sentono così spesso sballottati da forze che non conoscono, il complesso delle energie storiche così raffinato e sottile sfugge talmente al senso comune, che nei momenti supremi solo chi ha sostituito alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo». Così scrive il venticinquenne Antonio Gramsci nella rubrica “Sotto la Mole” dell’edizione torinese dell’Avanti! il 4 marzo 1916 [1].
Il sardo – che mostra persino di seguire la miriade di fogli e riviste parrocchiali che, pur sfuggendo ad ogni controllo critico, continuano a circolare in tutte le case – è particolarmente colpito dalla capacità della Chiesa cattolica di creare consenso attorno a sé, riuscendo a mantenere costantemente un rapporto tra intellettuali e semplici. Scriverà infatti nei Quaderni:
Su questo punto Asor Rosa, nel suo Scrittori e popolo del 1965, prese un incredibile abbaglio, mai abbastanza stigmatizzato, considerando populista la ben più complessa nozione gramsciana di nazionale-popolare. Gramsci non ha mai mitizzato il popolo e non l’ha mai considerato naturaliter progressista. Il sardo, con il suo spiccato realismo critico, ha semplicemente osservato che senza la partecipazione popolare nessun cambiamento può essere realizzato.
Ma proprio qui il Gramsci maturo prenderà le distanze da Benedetto Croce, la cui influenza, comunque, ha sempre lealmente riconosciuta:
Religione e serenità è il testo crociano sull’argomento prediletto da Gramsci. Lo ritroviamo assunto a modello di analisi critica del fenomeno religioso, in modo singolarmente continuo e costante, dai suoi primi scritti agli ultimi anni di vita. Croce lo aveva pubblicato nel 1915. Gramsci vi si riconosce immediatamente e, nel febbraio del 1917, oltre a proporlo nel numero unico «La Città Futura», lo usa come pungolo nei dibattiti in cui impegnava i giovani socialisti torinesi nel suo Club di vita morale. Lo stesso saggio verrà riproposto nel 1920 su «L’Ordine Nuovo. Rassegna settimanale di cultura socialista».
Ma è in una famosa pagina dei Quaderni che il testo crociano torna ad essere discusso, nel contesto di una più ampia ed articolata riflessione critica sul filosofo napoletano:
Segue un’accurata analisi delle differenti posizioni assunte dal Croce e dal Gentile nei confronti della religione cattolica, con una punta polemica rivolta particolarmente a quest’ultimo che aveva introdotto l’insegnamento confessionale della religione nella scuola elementare. La nota si conclude con un significativo riconoscimento di Croce quale “vero riformatore religioso”, soprattutto per aver capito che «dopo Cristo siamo diventati tutti cristiani», poiché «la parte vitale del cristianesimo è stata assorbita dalla civiltà moderna». Una straordinaria traduzione del testo crociano si trova nella memorabile lettera che Gramsci scrive nel 1931 alla madre. In essa infatti si trova riassunto, in forma toccante e personalissima, lo stesso punto di vista storicistico del filosofo napoletano:
In una delle più originali pagine dei Quaderni, dedicate alla riflessione intorno alla “storicità” della “filosofia della prassi” – termine col quale, secondo una certa tradizione italiana, Gramsci designa il pensiero di K. Marx, che distingue nettamente dall’economicismo e dal materialismo volgare – il Cristianesimo viene presentato come «la più gigantesca utopia […] apparsa nella storia, poiché è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica – e si tenga presente che la figura del “mito” nel pensiero gramsciano non ha sempre connotazione negativa – le contraddizioni reali della vita storica». Infatti, affermare come fa la religione cristiana che «l’uomo ha la stessa natura in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perciò fratello degli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, pur ammettendo che tutto ciò non è di questo mondo e per questo mondo, ma di un altro, utopico» ha contribuito per Gramsci in modo decisivo a diffondere nel mondo «le idee di uguaglianza, fratellanza e libertà». Queste ultime infatti
Gramsci e la tradizione biblica nella teologia della liberazione
Quest’ultimo pensiero di Gramsci si ritrova, espresso con parole diverse, in molti esponenti della teologia della liberazione sorta e sviluppatasi in America Latina nel corso degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso. D’altra parte l’opera di Antonio Gramsci aveva trovato terreno fertile nei Paesi latinoamericani e i suoi scritti, seppure in modo parziale, circolavano già in quei Paesi. Non può sorprendere, pertanto, che l’opera fondativa di questa corrente teologica, pubblicata da Gustavo Gutiérrez nel 1971, si apra proprio con una citazione dei Quaderni del carcere:
In particolare, il teologo peruviano, tra gli iniziatori di questa corrente teologica, ha contribuito in modo decisivo a diffondere nella Chiesa cattolica latinoamericana la cosiddetta “opzione preferenziale per i poveri”. Gutiérrez e Leonardo Boff, per superare le resistenze che il loro pensiero incontrava tra i settori più conservatori del mondo cattolico, hanno più volte ribadito che l’uso originale che proponevano di alcune categorie marxiste, utili per la comprensione del sottosviluppo e delle disuguaglianze prodotte dal sistema di produzione capitalistico, non comportava automaticamente l’assunzione della filosofia marxista. Una cosa è la critica del neocolonialismo che regna nell’America Latina, frutto della divisione internazionale del lavoro che caratterizza l’odierno neocapitalismo; altra cosa la filosofia marxista – così come viene comunemente intesa e non fu sicuramente interpretata da Antonio Gramsci – come una forma di materialismo e/o di economicismo intriso di ateismo, ovviamente incompatibile con la visione del mondo cristiana. Boff, in specie, è stato particolarmente esplicito al riguardo:
Ora non c’è alcun dubbio che il Cardinale argentino Bergoglio, ben prima di diventare Papa Francesco, avesse fatto propria questa opzione. Non può sorprendere, pertanto, che il nuovo Pontefice, fin dal suo primo incontro con la stampa, abbia svelato il suo sogno di una Chiesa povera e per i poveri. E, in una recente ricerca sul lessico usato da Papa Francesco è stata rilevata la centralità che vi hanno i termini poveri, povertà, lavoro, capitalismo.
Ma Francesco si sofferma in modo più organico sul tema delle ingiustizie, prodotte dalla globalizzazione neocapitalistica, nella sua prima esortazione apostolica del novembre 2013. In uno dei passi della Evangelii gaudium, che ha suscitato tante discussioni, si prendono di mira alcuni dei luoghi comuni del pensiero economico dominante contemporaneo:
Successivamente, in una intervista al quotidiano catalano La Vanguardia del giugno 2014, Francesco si mostra ancor più radicale:
Di fronte a parole simili, che non si udivano da decenni, non può sorprendere che il settimanale britannico The Economist abbia gridato al lupo, accusando Francesco d’essere addirittura un leninista:
Com’era prevedibile, le parole pronunciate dal nuovo Pontefice hanno creato disagi crescenti nei settori più conservatori del mondo cattolico che difendono l’antico connubio tra capitalismo e Cristianesimo e persino la funzione storicamente positiva della speculazione finanziaria.
Ma i difensori di Francesco hanno avuto buon gioco a ricordare che la critica al sistema di produzione capitalistico non è una novità assoluta nella tradizione cattolica. Fin dall’Ottocento Leone XIII, con la sua Enciclica Rerum Novarum, ha criticato il capitalismo. Naturalmente il gesuita Bergoglio non poteva non aggiornare il magistero sociale della Chiesa alla luce della storia più recente dei disastri provocati dalla finanza virtuale alimentata dalle politiche neoliberiste.
È certo comunque che l’origine argentina di Francesco abbia contribuito a far assumere alle sue parole un carattere e uno stile diverso dal consueto. Bergoglio viene dall’America latina e ne rappresenta perfettamente lo spirito, la cultura, persino il linguaggio, compreso un certo populismo. Non è un caso che esponenti storici della teologia della liberazione, fin dall’inizio del suo Pontificato, l’abbiano accolto con simpatia e favore. Leonard Boff ha sostenuto da subito il Cardinale Bergoglio divenuto Papa con il significativo nome di Francesco. E non è stato certamente casuale l’incontro in Vaticano tra Francesco e l’anziano teologo peruviano Gustavo Gutiérrez che condusse la Chiesa latinoamericana a fare propria “l’opzione preferenziale per i poveri”. Del resto era lo stesso Osservatore Romano a far presente, nel settembre del 2013, che «con un Papa latinoamericano la teologia della liberazione non poteva rimanere a lungo nel cono d’ombra nel quale è stata relegata da anni, almeno in Europa».
Francesco, in questo primo lustro del suo Pontificato, non si è stancato di ripetere che la Parola di Dio e la Buona Novella di Gesù Cristo non sono proprietà esclusiva della Chiesa Cattolica. Anche per questo si è impegnato a fondo nel rilancio del dialogo interreligioso con le Chiese protestanti, con quella ortodossa e con le comunità islamiche.
Di recente Raniero La Valle ha scritto che, così come si è parlato agli inizi degli anni ‘60 del secolo scorso di “mystère Roncalli”, alludendo al mistero o carisma del papa che aveva convocato il Concilio, un “segreto” simile porta con sé Bergoglio che va interrogato e svelato. Quello di Francesco appare ogni giorno di più un pontificato profetico.
Ma l’opera di Francesco, pur se agli occhi di tanti ha assunto l’aspetto dirompente del ciclone, anche per via del linguaggio nuovo usato, ad una analisi più attenta rivela una profonda continuità con la Tradizione. Non per nulla Francesco ha citato le parole del suo predecessore, Benedetto XVI, il quale ha più volte ricordato come essa non è trasmissione di cose o di parole morte: «La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti» (Francesco, La luce del Vangelo, Milano: Mondadori 2016: 196).
E non per nulla, proprio in questi ultimi giorni, è stata resa pubblica una lettera del dimissionario Ratzinger, Pontefice emerito, che, pur riconoscendo «le differenze di stile e di temperamento», difende il successore Francesco dalle accuse e dai pregiudizi infondati, riconoscendogli una «profonda formazione teologica». («La Repubblica», 13 marzo 2018:16).
Francesco ha respinto nettamente l’opposizione tra i cosiddetti “pastoralisti” e “accademisti”:
Per concludere, questo sommario profilo di problematiche che avrebbero bisogno di ben altro spazio per essere adeguatamente trattate e comprese, vorrei accennare ad un tema che fin dai suoi primi passi è stato al centro del pontificato di Francesco: l’attenzione costante verso i poveri e gli ultimi. Nel luglio del 2015, nel corso di un incontro con alcuni rappresentanti della società civile del Paraguay, Francesco, nel ribadire il dovere primario che ha la Chiesa di accogliere il grido dei poveri, ha precisato:
La tragica storia del 900 sembra dare ragione a Bergoglio. Occorre però riconoscere che gli stessi Marx e Gramsci hanno sempre diffidato di tutte le “ideologie” e si sono sempre ben guardati dal presentare i loro studi in forma ideologica. Basti ricordare che il giovane Marx, nel 1845, scrisse un ampio saggio contro i principali esponenti della “ideologia tedesca” del suo tempo (Cfr. K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, Roma: Editori Riuniti, 1975). E in quest’opera, come nell’altra scritta due anni dopo e intitolata significativamente Miseria della filosofia, Marx ha parole molto dure contro il sapere ideologico arrivando a definire ogni forma di ideologia una forma di «falsa coscienza». La sistemazione ideologica del pensiero critico e aperto di Karl Marx è iniziata negli ultimi anni di vita del pensatore tedesco che, non a caso, di fronte alle falsificazioni del suo pensiero, ebbe più volte a ripetere di non essere un “marxista”: «moi, je ne suis pas marxiste!» Né tanto meno può essere addebitato al barbuto ebreo tedesco il successivo ingabbiamento del suo pensiero nel cosiddetto «marxismo-leninismo» di marca sovietica dopo l’iniziale successo della Rivoluzione del 1917.
Da parte sua, Antonio Gramsci, pur senza aver avuto il tempo di conoscere direttamente la terribile piega stalinista presa da quella stessa rivoluzione che da giovane socialista aveva salutato con tanto entusiasmo, intuì genialmente la deriva a cui era destinata. Così nel chiuso del carcere fascista, nei suoi Quaderni, attraverso la sua serrata critica de La teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia (1921) del sovietico Nikolaj I. Bucharin, prende nettamente le distanze dall’interpretazione economicistica e deterministica del pensiero di Marx e afferma decisamente la necessità di liberarsi dalla «prigione delle ideologie» (nel senso deteriore di «cieco fanatismo ideologico» (Quaderno 10, La filosofia di B. Croce, 1932-1935, Quaderni del carcere, ed. cit., vol. II: 1263).
Mi rendo perfettamente conto che i problemi affrontati in questo articolo avrebbero bisogno di tante precisazioni e ulteriori approfondimenti che non posso svolgere in questo spazio. Spero comunque che la mia riflessione possa essere ripresa e servire da stimolo per tutti.
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