Stampa Articolo

Libri che parlano di libri

tuzzi-la-letteratura-come-una-delle-arti-equestridi Alberto Genovese 

I libri che parlano di libri lo fanno ognuno a loro modo: libri aneddotici sulla nascita di quel tal libro (ad esempio, S. Winchester, L’assassino più colto del mondo, circa un “curioso” collaboratore dell’Oxford English Dictionary); dispensando a piene mani consigli per scrivere libri (qui troppi titoli, e però fra gli scaffali, curiosamente, Stephen King, On Writing); libri di memorie di librai e bibliofili (fra le mani, Alberto Vigevani, La febbre dei libri); libri scritti da editori intorno al mestiere di far libri (acquistato da tempo, ma non ancora letto, Roberto Calasso, L’impronta dell’editore); libri sulla lettura dei libri (imperdibile: Alberto Manguel, Una storia della lettura); libri sulla storia dei libri (Hans Tuzzi – di cui andiamo a parlare – Libro antico, libro moderno); libri che raccolgono incipit e frasi memorabili tratte da altri libri (a cura di Paolo Mauri, Aforismi sulla lettura); libri di corrispondenze fra autori (o consulenti) e case editrici a proposito di libri da pubblicare o meno (corposo e di lussureggiante linguaggio le Estrosità rigorose di un consulente editoriale, di Giorgio Manganelli);  quando non addirittura libri, o  iconici brani di essi, che, infine, sconsigliano i libri, come nel Fedro (275 d-e) di Platone: «E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato e offeso oltre ragione, esso ha sempre bisogno che il padre [intendi: l’autore] gli venga in aiuto, perché esso da solo non può né difendersi né aiutarsi». Con la massima incoerenza possibile, l’accademico per antonomasia non disdegnò di mettere nero su bianco i suoi dialoghi (ma, diffidente com’era, di suo proprio pugno), generando a sua volta una messe immensa di commenti, cioè di altri libri, di cui andrebbe disperato.

 I libri che parlano di libri sono libri che costeggiano la letteratura e ne ammirano i profili e gli approdi; sono come un’infilata di interminabili corridoi, una biblioteca parallela, una mise en abyme, un genere a sé stante, che non ha sin qui trovato un nome che lo designi (“letteratura parallela”? “letteratura di costa”? o più semplicemente, ma scipitamente, “letteratura bibliografica”?), ma molti lettori sì, e non dozzinali, curiosi di scrutare oltre il sipario delle righe.

Nel novero di questa nobile teoria di pubblicazioni si inscrive, fresco di inchiostro, il libro di Hans Tuzzi, La letteratura come una delle arti equestri (“Biblioteca di letteratura inutile”, 49, Italo Svevo, Trieste-Roma, 2025). Hans Tuzzi (ormai noto pseudonimo di Adriano Bon, scrittore di ascendenze friulane, meneghino ma con scarso entusiasmo) non è nuovo a pubblicazioni del genere. Nella sua impressionante bibliografia, che conta ad oggi oltre quaranta titoli, suddivisi fra romanzi polizieschi, romanzi-romanzi (come Simenon chiamava i suoi, per distinguerli dai gialli del commissario Maigret), saggi di bibliofilia, libri di viaggio e altro ancora, una buona decina di essi sono dedicati a lunghe passeggiate fra i libri altrui e ad argomenti di colta cucina letteraria. Il libro riunisce gli “elzeviri” (termine che ben si attaglia alla “disappetenza al moderno”, secondo una bella espressione di Cesare Garboli, usata in altri contesti, di un autore misantropo delle sorti attuali, come Tuzzi) comparsi su “Agorà”, l’inserto culturale di “Avvenire” nell’arco di poco più di due anni (dal 2022 al 2024).

Si tratta di diciotto brevi e meditati testi che contano ciascuno – a esclusione del capitolo che funge da introduzione, inedito dal periodico e redatto per l’occasione  - 5.000 caratteri circa (venti in più, venti in meno).

alberto-manguelChiunque pratichi la scrittura, magari giusto per accorgersi che non fa al caso proprio e patire saltuaria sofferenza, sa bene come sia difficile conciliare brevità e pensiero, stile e misura, stravaganza e continenza. Hans Tuzzi, che ha oltretutto saldi trascorsi di redattore editoriale (e qui, appunto, risalta l’antico mestiere), sembra aver fatta propria, in questa raccolta, una massima dei gesuiti, secondo cui “Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo divinum est”. Che, laicamente tradotto, vale grosso modo così: è cosa eccelsa che la grandezza non disdegni di farsi contenere nella piccolezza. Come, appunto, riesce alla complessità degli argomenti trattati da ciascuno di questi articoli, complessità declinata con enciclopedici riferimenti, suffragata da vaste letture, arricchita da citazioni che urge trascrivere e, infine, questo tutto – irridente, per le sue erranze, a muffe cattedre e pavesate accademie – va sposo a un italiano di rara raffinatezza e di evidente contiguità a classici lungamente frequentati, come ben sanno gli habitués di Tuzzi.

Ma, ecco, che varrà la pena di riportare qualche brano di questo libello, protestante e di frequenti valichi di soglie, alla stregua della poetica sottesa ai romanzi dell’autore.

Molto vien detto lungo il procedere degli elzeviri sulla necessaria trasgressione delle inafferrabili regole della scrittura, affinché ne venga nuova bellezza, che consegue alla «differenza [di stile] nella ripetizione [della sostanza della letteratura]», come recita la quarta di copertina, facendo eco al titolo di un testo capitale di Gilles Deleuze. E si può dire che “l’eversione”, quando non esplicita, ne sia un ricorrente motivo. Esemplare il titolo (quasi un’epigrafe) di uno degli elzeviri: “Si deve osare, per essere scrittori”. Che significa osare? 

«Il vero scrittore osa – tanto nella frase quanto nell’opera come nella propria stessa riconoscibilità, come sapeva Italo Calvino. Il vero scrittore si dichiara nella capacità di evertere con esatta misura […] La novità desta sempre sconcerto. E un vero scrittore non ama la solita zuppa, nella quale si adagiano coloro che guardano a vendite e soldi». 

Osare come sinonimo di innovazione, purché nella scrittura rimanga imprescindibile, qualunque sia il suo volto, una triade non negoziabile di principi: 

 «[…] pensiero, rilevanza culturale e complessità del linguaggio. Perché tutto si gioca sul linguaggio, lì è la differenza, più che nella forza della trama: nelle metafore e nei dialoghi, nel descrivere, nello stile, insomma». 

estrosita-rigoroseSì, perché uno scrittore può dirsi tale quando ha un proprio stile. Laddove “proprio”, per definizione, non è appiattito sulle ‘convenzioni’ e sulle esigenze mercantili dell’editoria, ma conseguito, quello stile, per ‘convinzioni’, perché «[…]uno scrittore sa che le convinzioni sono più importanti delle convenzioni».

E tuttavia: è lecita una ‘convinzione’ a tal punto innovativa da risultare edibile per i soli lettori di buona cultura e un involontario sberleffo per il lettore medio?

Il conservatorismo rivoluzionario di Hans Tuzzi (sentimento non estraneo a molti suoi romanzi) non ha dubbi: 

«L’arte non è democratica o egualitaria, e un autore dovrebbe aver sempre presente l’apodissi di Dostoevskij: “Un giorno l’idea di eguaglianza sarà così diffusa che non si potranno dire cose intelligenti per non offendere gli stupidi”». 

Ricorrendo a una similitudine (molto) azzardata fra il βίος e la letteratura, potremmo tutti convenire che l’evoluzione non si è fatta scrupolo di stupire il già esistente con il sopravveniente, perché è l’insolito, nella sua improvvisa “differenza”, ad assicurare la “ripetizione”. Ma è un discorso, questo, per recensori di aristocratica penna, e lettori di altrettanto censo speculativo.

Date queste premesse, si può intuire in quale benevola considerazione Hans Tuzzi tenga le scuole di scrittura, sul cui frontone il nostro apporrebbe la seguente epigrafe: 

«Se non hai talento nessuno potrà mai insegnartelo e, come dice un mio amico, un talento trova da solo la sua strada, mentre una strada non farà mai un talento». 

La lezione più incoraggiante che si sentirebbe di ammannire a un aspirante discepolo di suddette scuole è la seguente: 

«[…] lo condurrei per mano nella selva ombrosa della scrittura, mostrandogli che non c’è strada maestra ma intrecci di sentieri, e nessuno di essi conduce alla meta sicura del romanzo. Men che meno alla pubblicazione […»]. 

Però poi, sulla scorta di quello stesso amico di cui sopra, diventa più permissivo: 

«[…] Ma allora le scuole di scrittura non servono a nulla? Sì, un compito lo possono svolgere: incoraggiare un talento incerto facendogli risparmiar tempo nell’evitare quegli errori che comunque, proprio perché talentuoso, scoprirebbe da solo». 

Permissivo, sì, ma non troppo, sino a mutare in tristezza la sua “convinzione” (si badi che Tuzzi è uno scrittore di celata malinconia, che forse non gli piace ammettere, per asburgica riservatezza del cuore, ma che i suoi romanzi tradiscono): 

«Ma nessuna scuola può insegnare l’ineffabile alchimia del nostro stile. Quella la si conquista in solitudine lavoro e silenzio. Qualcosa di ignoto a questi nostri tempi di socialità virtuale». 

roberto-calasso-limpronta-delleditoreIl recensore, spalleggiando il recensito, azzarda (‘osa’) l’opinione che le scuole di scrittura non preparino alla diversità e all’eversione, ma alla omologazione delle necessità industriali dell’editoria, che raramente scommette su esordienti corsari. Lo fanno ancora i piccoli e i medi editori (manto di misericordia dei ‘trasgressori’), e anche i grandi, è vero, ma con parsimonia, giusto per creare una riserva indiana di difettivi. E del resto, basterebbe liquidare la questione ricorrendo alla citazione di un aforisma: «Somerset Maugham, disse: “Ci sono tre regole per scrivere un romanzo. Purtroppo nessuno sa quali sono”». (La conversazione colta è peculiarità dello stile di Hans Tuzzi, e anche questo piccolo libro non difetta di succose citazioni, che fanno parte della sua officina di letterato).

Non senza aggiungere, subito dopo, il venenum in cauda: 

«Sappiamo però quale non può figurare nella triade: scrivere come si parla – specie per chi parla come mangia, se si nutre di surgelati precotti». 

Di mio, ‘osando’, per la seconda volta, e procacciandomi nemici eterni presso le scuole che vorrebbero insegnare a scrivere, aggiungerei che lo stile è muto se non ha una storia da raccontare, storia che precede lo stile. A meno che non dovremmo ipotizzare che sia il sentimento impellente di uno stile a cercarsi una storia, come un pulcino che becca il suo guscio per venire alla luce (di una pagina).

11L’invenzione è indispensabile per ‘concepire’ un romanzo o un racconto. Lo sa bene lo stesso Tuzzi, che nel suo romanzo Curiosissimi fatti di cronaca criminale sciorina una fantasia mirabolante, a cui il lettore, deliziato e ilare, fa fatica a tenere dietro. E chi ti insegna a inventare? È, questo, un sapere inattingibile da qualsivoglia aio letterato. E comunque, procedendo a ritroso alla ricerca dell’attimo zero della creazione letteraria, ci imbatteremo, come primum movens, nel bisogno di scrivere, nell’urgenza di dare un senso al nostro quotidiano esserci. Un bisogno che può durare una stagione, essere intermittente, o accompagnare lo scrivente – dico scrivente, e non scrittore, perché qui non importa l’esito nella pubblicazione – per tutta un’esistenza. E dove si trova il maestro di un tale desiderio? Quale scuola può accendere un bisogno così intimo e segreto, che nemmeno gli scrittori laureati sanno spiegarsi del tutto (e forse non vogliono, perché temono che nel darsi una spiegazione smetterebbero per ciò stesso di scrivere).  Ne tiene debito conto Hans Tuzzi quando ci avverte che l’arte della scrittura è

«risposta lacerante al brusio informe reiterato da ombre assiepate dietro le quinte della vita, coro invisibile che chiede ragione del nostro esistere, che nutre il fuoco della ricerca di un senso». 

La parte destruens, dedicata all’ossimoro di insegnare il talento, occupa, in maniera diretta e indiretta, solo alcuni degli elzeviri. E il recensore, preso da insana e irata passione per l’argomento, ha abusato del pedale di risonanza: ne fa ammenda, dicendo d’altre cose che v’ha lette.  Come del capitolo dedicato agli incipit, perché “Chi bene inizia prende all’amo il lettore”.  

«Come prendere all’amo il lettore facendo letteratura, non marketing? […] Una buona risposta a questa seconda domanda può darla un racconto di Lord Dunsany, Perché il lattaio rabbrividisce quando avverte l’alba». 

Il Lord in questione era un barone irlandese, Edward John Moreton Drax Plunkett (1878-1957), autore di romanzi di genere fantastico, oggi conosciuto dalle nostre parti da un manipolo di lettori congiurati. È nello stile di Tuzzi, che non dimentica di essere un bibliofilo, conversare di letteratura addentrandosi in vicoli e vanelle, perché quel tal libro e quel tale autore importano quanto la sorpresa della parola esatta in una frase.

E quando esorta a rileggere (“Miglior lettore è colui che rilegge”), si serve di una citazione da Roberto Longhi sulla qualità della pittura di Caravaggio. Il rimando vale più di qualsiasi metafora sul non detto di una frase, di cui fummo ciechi durante la prima lettura: «Non tanto il rilievo dei corpi, quanto la forma delle tenebre che li interrompono». È meglio astenersi dalla glossa, per non imbrattare l’aforistica bellezza del pensiero.

In Una storia, i personaggi e la voce narrante, Hans Tuzzi non disdegna un affondo narratologico sulla convenzione che tiene avvinti, nella buona e nella cattiva lettura, l’autore che strologa fandonie e la correità del lettore. 

«Apparentemente l’autore sottoscrive con il lettore un patto, un pactum ludi, più o meno in questi termini: io, autore, ti racconto una storia, in una forma che la renda foriera di novità a te che mi leggi; e tu, lettore, consapevole della finzione, sospendi l’incredulità affinché si giochi sino in fondo questo gioco. Che non è passatempo ma vita, e richiede all’autore piena consapevolezza di scelta». 

immagine-libro-antico-libro-moderno‘Oso’ (di nuovo!), da recensore, uno scolio. Lo dicevano già gli antichi che ars est celare artem, e in romanzi che hanno un fondale di fantasia, l’arte dello scrittore è di condurre il lettore in una terra di confine, là dove il plausibile si contamina con l’inverosimile, lo adesca e ne tenta la cittadinanza. Giusto il pactum ludi pensato dall’autore. E ancora, per voce (citata) di Franco Cordelli, convocato da Tuzzi: «Il romanzo non è un metodo di conoscenza, ma un metodo per rimuovere la conoscenza, un metodo di offuscamento».

Ci piace soffermarci, in questa raccolta di elzeviri, che si ripetono e si differenziano sul ‘fenomeno’ della letteratura, e in ispecie del romanzo, sull’intensità dell’introduzione (“Da quale pulpito razzolo male?”), con la sua temperatura di confessione autobiografica. Ha, nel seno delle righe, una domanda accorata rivolta a sé stesso, quasi un redde rationem di una vita da scrittore: «E allora, perché la letteratura? Perché parlare di letteratura?».

Qui l’autore, toccato nell’intimo, e come sospettoso della colpa di uno scialo di anni dedicati a ombre, scrive quasi un’arringa in difesa del suo mestiere di scrittore, che è anche, e soprattutto, un proclama sulla necessità della letteratura. Poche righe di luminosa eleganza, di cui non anticipiamo ai lettori la felicità della lettura. Così come li invitiamo a scoprire da sé la ragione del titolo di questo libro da chevet (sì, la qualità è quella): La letteratura come una delle arti equestri. Di mio, ho già osato troppo. Ora tocca ai lettori. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2023

______________________________________________________________

Alberto Genovese,  nato a Trapani, dove vive, è laureato in Filosofia. Ha collaborato  con la casa editrice “Novecento” di Palermo, per la quale è stato co-curatore della prima edizione italiana (1989) del Nachsommer (Tarda estate) di Adalbert Stifter. Come scrittore ha esordito nel 2022 con la casa editrice Manni (L’alternativa del cavaliere), segnalato nell’edizione 2019 del Premio Calvino, e finalista alla VI edizione del Premio letterario “Città di Erice” (2024). Collabora per la recensioni di libri con “tuttatoscanalibri” e “Azioni Parallele”.

______________________________________________________________

 

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>