Un sogno incompiuto
Non è stato Trump a mettere in crisi l’Europa. Già prima del suo insediamento, il quadro che si poteva fare dell’Unione Europea era quello di un sogno incompiuto. Pur nella loro diversa ispirazione intellettuale, i suoi “padri” ideali – i cattolici De Gasperi, Adenauer, Schuman, gli autori del Manifesto di Ventotene (Altiero Spinelli, ex Pci; Ernesto Rossi, azionista; Eugenio Colorni, socialista) – convergevano nel concepirla come un nuovo soggetto internazionale, che avrebbe dovuto superare la logica dei vecchi nazionalismi integrando le identità nazionali in una unità politica.
Le cose non sono andate così. L’inizio era sembrato promettente. Si era partiti con un’intesa economica, che istituiva la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), col Trattato di Parigi, del 1951 – sottoscritto da Belgio, Francia, Germania Occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi –, e poi la CEE (Comunità Economica Europea), col Trattato di Roma, firmato dagli stessi sei Stati, nel 1957, a cui aderirono poi anche Danimarca, Grecia, Irlanda, Portogallo, Regno Unito e Spagna.
Col tempo l’integrazione si fece sempre più stretta, cominciando ad allargarsi alla sfera politica. Fu così che il 7 febbraio 1992 gli Stati facenti parte della CEE firmarono il Trattato di Maastricht che, a decorrere dal 1993, ha dato vita all’Unione Europea. Veniva istituita una cittadinanza europea e i Paesi membri si impegnavano a rispettare alcune regole vincolanti in politica economica e nel rispetto dei diritti. Nasceva la BCE (Banca centrale europea). Questo salto di qualità veniva poi confermato dall’adozione, a partire dal 1 gennaio 1999, di una moneta unica, l’euro.
Poco dopo (1995) entravano a far parte dell’Unione anche Austria, Svezia, Finlandia, seguite, nel 2004, da Cipro, Ungheria, Polonia, Estonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Malta, Slovacchia, Lettonia, Lituania, nel 2007, da Romania e Bulgaria, e nel 2013 dalla Croazia.
Ma, mentre aumentava il numero degli aderenti, trovava sempre più difficoltà la realizzazione del progetto finale di una piena unità politica. In questo senso nel 2000 veniva firmato il Trattato di Nizza, che allargava i poteri del Parlamento europeo, e istituiva la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Ma si sentiva l’esigenza di una Costituzione e, al vertice di Laeken del 14 e 15 dicembre 2001, fu istituita una Convenzione col compito di redigere un testo, sottoscritto poi dagli Stati membri dell’Unione il 29 ottobre 2004 col Trattato di Roma. La sua entrata in vigore, però, era subordinata alla ratifica parlamentare o elettorale da parte di tutti gli Stati membri. Perciò la sua bocciatura nei referendum svoltisi in Francia e nei Paesi Bassi l’anno successivo bloccò il processo di approvazione. Anche se in seguito diverse norme in essa contenute sono state incluse nel successivo Trattato di Lisbona, firmato nel 2007 ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009.
Ma lo scacco della mancata approvazione della prima stesura era in realtà solo la punta dell’iceberg di una situazione in cui gli Stati membri resistevano alla prospettiva di rinunciare alla propria sovranità nazionale e, su alcune materie, mantenevano gelosamente il diritto di veto con cui bloccare eventuali decisioni comuni contrarie ai loro interessi.
Così, malgrado i passi avanti, l’Europa è rimasta una aggregazione di Stati indipendenti politicamente l’uno dall’altro. Questa frammentazione ha avuto anche una sua espressione ideale con il rifiuto, da parte della Convenzione incaricata di redigere il testo costituzionale (in particolare del suo presidente, il francese Valéry Giscard d’Estaing), di inserire un riferimento alle “radici cristiane” del continente, come insistentemente chiedeva il papa Giovanni Paolo II. Al suo posto c’era un generico richiamo «alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, e dello Stato di diritto», formula poi ripresa e confermata nel testo di Lisbona.
Un’Europa senz’anima
Il punto è che l’Europa attuale sembra incapace di trovare un’anima che l’accomuni e che possa giustificare la rinunzia da parte dei singoli Stati alla loro autonomia. La scristianizzazione dilagante rende poco plausibile che quest’anima possa venire dalla tradizione cristiana, ma questa era l’unica che veramente avesse contribuito in modo decisivo al passaggio, nel medio evo, dalla civiltà mediterranea di Roma ad una identità non solo geografica del continente europeo, integrando l’eredità del mondo classico e gli apporti dei popoli germanici e di quello islamico.
Venuto meno il rapporto con questa tradizione, l’unica filosofia che sembra attualmente imporsi, anche istituzionalmente, nella società europea sembra quella di un individualismo possessivo, che promuove un concetto di libertà incompatibile con la ricerca del bene comune. L’idea sottostante è che ognuno è proprietario del suo corpo e può fare di sé quello che vuole, senza doverne rispondere, finché non invade la sfera altrui. Ad essa si ispirano l’introduzione della libertà incondizionata di aborto nella Costituzione francese e la votazione del Parlamento europeo a favore del suo inserimento nella Carta dei diritti, nonché l’apertura alla maternità surrogata e all’eutanasia.
Fermo restando il rispetto per i drammi personali che spesso stanno dietro queste rivendicazioni, da questa prospettiva non può derivare altro che una visione insulare della vita associata, che esclude la possibilità di una vera comunità e conferma la sua riduzione a criteri puramente formali, senza un vero fine in cui tutti si possano ritrovare. Da qui il grande rischio del progetto di unità europeo di ridursi alla costruzione di un’entità più burocratica e tecnocratica che valoriale, con la conseguente difficoltà di arrivare all’unità politica, la cui base è la convergenza su un’idea di bene comune.
Di questo vuoto può essere un segno anche la genericità e l’ambiguità delle proposte con cui si cerca di riempirlo, come quella del ministro degli esteri italiano Tajani, che recentemente, nel ribadire il suo incrollabile europeismo, l’ha definito «il grande sogno di Alcide De Gasperi e Silvio Berlusconi», accomunando disinvoltamente due modelli opposti e incompatibili di umanità e di politica.
Si deve probabilmente anche a questa sclerosi se nel gennaio 2020 il Regno Unito, in seguito a un referendum, ha abbandonato l’Unione Europea, avvertita ormai più come una gabbia di regole soffocanti che non come una opportunità di crescita comune.
La mancanza di una reale sintonia è stata ulteriormente evidenziata dal fatto che l’apertura, negli ultimi anni, ai Paesi dell’Est, legati a una cultura molto diversa da quella delle nazioni inizialmente coinvolte nel progetto, ha determinato delle profonde divergenze nel modo stesso di concepire la democrazia. Emblematico il caso dell’Ungheria, il cui modello è sicuramente democratico – la presidenza di Orbán ha un solido fondamento a livello elettorale –, ma non liberale, puntando sul primato indiscusso del premier ed escludendo una effettiva divisione dei poteri.
La mancanza di un orizzonte ideale ed etico condiviso, peraltro, fa sentire i suoi effetti anche nella delicata questione del confronto con altre culture, come quella islamica, che mantengono una connotazione identitaria ben più spiccata di quella degli europei. Da qui il senso di una minaccia incombente, sottolineata ed enfatizzata dai partiti di destra, che agitano lo spettro dell’invasione islamica per invocare l’innalzamento di muri contro i migranti, senza rendersi conto di evidenziare, in questo modo, lo svuotamento della tradizione cristiana, centrata sulla fraternità e l’accoglienza, e di favorire, indirettamente, la penetrazione dell’islamismo.
Sta di fatto che, con l’avanzata delle destre, questa è diventata la linea di molti governi e della stessa Commissione europea, sensibili all’esempio del governo italiano. Così è accaduto che, progressivamente, la principale linea comune che si è andata sempre più affermando è stata quella difensiva nei confronti dei migranti. Incapaci di aprirsi gli uni agli altri, i Paesi europei si sono trovati uniti nel chiudersi verso l’esterno, istituendo barriere e campi di deportazione.
Più coerente con i valori europei è stato un altro fronte condiviso – con l’eccezione dell’Ungheria – e cioè il sostegno all’Ucraina nella sua resistenza all’invasione russa. Solo che anche questa occasione di convergenza, purtroppo, si è trasformata in una ulteriore svalutazione del sogno europeo, perché la rottura dei rapporti con la Russia ha portato l’economia europea ad una maggiore dipendenza dagli Stati Uniti e la politica dell’Europa ad una subordinazione alla Nato, che della guerra in Ucraina è diventata il soggetto fondamentale. Così, nel nuovo «ordine mondiale» di cui in quel momento parlavano sia Putin che Biden, per l’Europa non c’era più posto.
Il ciclone Trump
Su questo quadro, già tutt’altro che entusiasmante, si è abbattuto, con le elezioni americane del novembre 2024, il ciclone Trump, i cui effetti dirompenti si sono progressivamente manifestati soprattutto dopo il suo insediamento, nel gennaio 2025. «Siamo sinceri», ha detto il presidente nella prima riunione del nuovo gabinetto, «l’Unione Europea è stata creata per fregare gli Stati Uniti. E hanno fatto un buon lavoro ma ora io sono il presidente». È qui il nocciolo della sua posizione verso l’Europa. Gli europei, secondo Trump – che ha ripreso la definizione di «parassiti» usata dal suo vice Vance – sarebbero vissuti finora alle spalle dell’America, sia scaricando su di essa le spese militari per la sua difesa, sia esportando i propri prodotti oltre l’Atlantico molto più che importandoli.
Da qui, innanzi tutto, la richiesta ai Paesi europei di elevare le spese militari al 5%, sottolineando che da ora in poi gli Stati Uniti non potranno più essere i garanti della loro sicurezza. Richiesta unita ad una drastica svalutazione del ruolo politico dell’Europa nella ricerca della pace in Ucraina e a un atteggiamento, al contrario, molto conciliante verso la Russia, al punto da escludere gli Stati europei dai negoziati avviati in Arabia Saudita a questo scopo. Giustificando l’impressione di molti che in realtà in questi negoziati si stesse preparando una spartizione di zone di influenza, in cui il continente europeo verrebbe abbandonato alle mire espansionistiche russe. Secondo il detto: «Se non sei tra gli invitati a tavola, sei nel menù».
In realtà questa presa di distanze, che contraddice radicalmente la linea fino ad allora seguita sia da Biden sia dai suoi predecessori, paradossalmente potrebbe costituire per l’Europa un’opportunità, costringendola ad emanciparsi dal tutorato americano e a recuperare la propria soggettualità politica e militare.
Tanto più che la presa di posizione di Trump è stata un’occasione per il Continente di ritrovare la propria unità politica, al di là dei confini giuridici della UE. Infatti il Regno Unito, abbandonato dagli Stati Uniti, il suo storico alleato di sempre, si è in questa situazione ritrovato in piena sintona con gli altri Paesi europei, anzi è diventato, insieme alla Francia, la punta di diamante di un’iniziativa, detta dei “volenterosi”, che mira a garantire la presenza di una forza miliare europea di interposizione tra Russia e Ucraina, a guerra finita.
Certo, questa svolta pone all’Europa il duplice problema di un accresciuto sforzo economico e militare, sia per compensare il venir meno dell’appoggio americano all’Ucraina, sia per provvedere fin da ora a un autonomo sistema di difesa europeo, capace di scoraggiare eventuali iniziative ostili da parte della Russia. Un’occasione storica per promuovere una vera e propria unità politica, facendo diventare l’Europa un soggetto in grado di far fronte allo strapotere di Stati Uniti e Russia e di sedere con loro, da pari a pari, non solo al tavolo dove si decidono le sorti dell’Ucraina, ma in tutti i consessi internazionali.
E a questo era finalizzato il piano ReArm Europe (poi ribattezzato, per motivi di immagine, Readness 2030) proposto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che il Consiglio europeo ha approvato all’unanimità all’inizio di marzo 2025, anche se con la dissociazione dell’Ungheria per quanto riguarda l’appoggio all’Ucraina.
Un’occasione mancata
Ma proprio questo documento rivela il riemergere delle antiche e mai superate resistenze dei singoli Stati – anche di quelli non dichiaratamente sovranisti – nel rinunziare alla propria sovranità nazionale. Esso, infatti, non fa altro che autorizzare gli Stati membri dell’Ue a sforare, per spese militari, fino a 650 miliardi di euro, il tetto previsto dal patto di stabilità e ad avere prestati fino a 150 miliardi di euro. Un progetto che in realtà non mira a creare le condizioni per una difesa comune europea, ma a stimolare un riarmo dei singoli Paesi dell’Unione confermando la linea sostanzialmente nazionalista/sovranista che finora ha impedito il passaggio dall’unità economica dell’Europa a quella politica. Nessuno Stato vuole rinunziare al suo esercito.
Le conseguenze negative sono evidenti. A fronte di un solo modello di aereo di combattimento oggetto sviluppato negli USA (JSF-F35), in Europa ce ne sono tre (Tempest, Gripen, e Rafale), con una duplicazione dei costi. E in Europa si producono diciassette tipologie differenti di carro armato, rispetto agli Stati Uniti, muniti del solo M1 Abrams. Per non parlare delle inevitabili disfunzioni derivanti dalla mancanza di un comando unificato. L’Europa non spende poco per le armi, spende male.
Da qui anche le ragioni di chi sostiene che un piano per il riarmo è superfluo e costituisce una festa solo per le industrie e i mercanti di armi, le cui azioni in borsa infatti sono salite alle stelle. E che il problema dell’Europa è di recuperare quella prospettiva unitaria che, mantenendo le spese al livello attuale, la renderebbe più competitiva. Certo, creare un esercito europeo non è compito che possa essere realizzato dall’oggi al domani. Ma, allo stato attuale, non si vede neanche la volontà di muoversi in questa direzione.
C’è anche un secondo problema, ed è la mancanza in questo progetto di un piano che consenta di redistribuire i costi di questa operazione senza scaricarli, come sempre, sulle fasce più deboli, riducendo i finanziamenti ai servizi essenziali. Perché è chiaro che le uscite aggiuntive, a cui si sta dando il via libera, saranno tutte a debito e, prima o poi, dovranno essere compensate nei bilanci nazionali aumentando le tasse o tagliando la spesa sociale. Si tratta di sacrificare, insomma, settori vitali come la sanità o l’istruzione, tanto più in un Paese come l’Italia dove si preferisce ridurre i servizi ai poveri che “mettere le mani” nelle tasche dei ricchi.
La svolta che la nuova realtà internazionale esigeva, dunque, non c’è stata veramente. L’opportunità offerta, paradossalmente, dalla rottura voluta da Trump, finora sembra essere stata sprecata, confermando piuttosto l’affermarsi di nazionalismi che, come quello rappresentato in Germania dal movimento neonazista in ascesa, aggravano la minaccia della frammentazione e il rischio di futuri conflitti armati. Non è detta però l’ultima parola. Saranno i fatti a dire se un sussulto di orgoglio e di istinto di conservazione potrà portare i governi europei a rispondere in modo più adeguato alla sfida in atto.
Il problema dei dazi e il viaggio della Meloni
Il secondo ambito in cui la rivoluzione di Trump sta costringendo l’Europa a ritrovare se stessa e a porsi come soggetto autonomo è quello dei dazi. Anche qui si tratta di una svolta che si presenta a prima vista catastrofica, ma che costringe suo malgrado l’Europa a trovare una propria linea comune. Fin dall’inizio si è insistito unanimemente sulla necessità di non disperdersi in scelte nazionali separate e di fronteggiare l’attacco che viene da oltreoceano in modo unitario. La stessa relazione privilegiata della premier italiana col presidente americano – è stata l’unica leader europea invitata al suo insediamento – , che prima sembrava destinata solo ad offrire privilegi, ha assunto il significato di una rappresentanza comunitaria con il viaggio della Meloni negli Stati Uniti.
In realtà, il quadro in cui questo viaggio è maturato è stato in anticipo delineato spregiativamente da Trump, col suo famoso riferimento a coloro che venivano a baciagli il cu… per fare accordi sui dazi. Per di più, l’obiettivo dichiarato della mediazione – l’accordo sull’azzeramento dei dazi su entrambe le sponde dell’Atlantico – è stato vanificato proprio alla vigilia quando il governo americano ha decisamene respinto l’analoga richiesta espressa dal commissario europeo per il commercio Sefovic.
Se, tuttavia, la missione della Meloni è stata per lo più considerata un grande successo, sia in Italia che a livello internazionale, è stato per il clima di grande stima e cordialità che ha caratterizzato l’accoglienza da parte di Trump e della stampa degli Stati Uniti, evidenziando l’esistenza di un rapporto privilegiato fra la nostra premier e il presidente americano.
Se, però, si va oltre la spessa cortina fumogena dei media, il bilancio è assai meno roseo. Da parte sua, Meloni ha offerto a Trump quello che chiedeva: la promessa di aumentare gli acquisti di gas liquido americano, la garanzia di grossi investimenti di aziende italiane negli Stati Uniti – si parla di dieci miliardi di euro – e l’aumento fino al 2% del Pil delle spese militari.
Se ci si chiede cosa abbia realmente ottenuto in cambio di questi impegni concreti, la risposta è assai deludente. Trump ha colmato la Meloni di complimenti, rafforzando indubbiamente la sua immagine personale, ma non certo le prospettive italiane ed europee; si è detto sicuro che un accordo sui dazi con l’Europa sarà possibile – senza però dire a quali condizioni –; infine ha promesso di venire in Italia a trattare col governo italiano e, senza però un preciso impegno per questo, con quelli europei.
Già dal punto di vista degli interessi italiani, questo sembra più configurare il tributo pagato unilateralmente da un vassallo al suo signore. Se poi si passa ad un’ottica europea, è evidente che, come mediazione tra le due sponde dell’Atlantico il viaggio della premier italiana non ha avuto affatto quel significato storico che molti quotidiani – a dire il vero soprattutto quelli destra – gli hanno entusiasticamente attribuito. Al di là dell’illusione ottica determinata dal suo successo personale, con la sua verve Meloni non ha realmente creato un ponte tra l’Europa e gli Stati Uniti. È significativo che, nel rallegrarsi del successo del suo viaggio, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, abbia sentito il bisogno di precisare che comunque il compito di rappresentare l’UE nel negoziato con Trump spetta a lei. E sull’esito di questa trattativa continua a gravare un grande punto interrogativo.
La vera posta in gioco
Ma c’è un problema più radicale. Per il presidente americano i dazi sono uno strumento politico per dividere il mondo in due campi, quello dei Paesi che accettano di dipendere interamente dagli Stati Uniti e quello di coloro che si schiereranno con la Cina. Per la Meloni, che condivide le logiche di Trump sul rispetto dei diritti umani, sul modo di trattare le differenze e le opposizioni, sulla divisione dei poteri, sull’atteggiamento verso i migranti, sul rapporto con Israele, questo non è un problema. Il solo punto di frizione è il problema dell’Ucraina, ma il contesto è la sintonia in una visione autoritaria e sovranista della democrazia. Questo, per entrambi, è il progetto. Così, per lei il tycoon sta lavorando a «rendere di nuovo grande l’Occidente» ed essere partner fidata di questo progetto la rende, come ha detto, orgogliosa. La sua mediazione mira ad avvicinare le due sponde dell’Atlantico facendole convergere su di esso.
Ma l’Europa ha una visione democratico-liberale che è incompatibile con questa prospettiva. Lo dimostrano le sue tensioni con l’Ungheria di Orbán, dove essa si è già pienamente attuata e che, per l’America di Trump e l’Italia di Meloni, è in sostanza un modello, sia pure ancora in via di realizzazione. Potrà accettare l’Europa di condividere il rapporto privilegiato della nostra premier con un personaggio come Trump, emblema del totale stravolgimento della tradizione culturale e politica occidentale? Potrà far suo il significato dello slogan meloniano «rendere l’Occidente di nuovo grande» accettando il nuovo contenuto che esso assume alla luce della repressione della libertà di pensiero nelle Università, della cancellazione del diritto alla diversità sessuale, della occupazione indiscriminata di tutti i posti pubblici di potere, del misconoscimento delle sentenze dei giudici, delle deportazioni poliziesche degli immigrati ?
Purtroppo non sono interrogativi retorici. Per resistere alla tentazione di seguire la Meloni nel suo viaggio a senso unico verso l’appiattimento su Trump l’Europa deve ritrovare l’anima di cui si parlava prima, o almeno sforzarsi di farlo. Per non trovarsi alla fine riassorbita in quel «grande Occidente» che sarebbe la negazione di tutti i suoi valori.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
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Giuseppe Savagnone, dal 1990 al 2019 è stato direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale della cultura di Palermo, di cui oggi cura il sito «www.tuttavia.eu, pubblicandovi settimanalmente un editoriale nella rubrica “Chiaroscuri”. Scrive per quotidiani e periodici e collabora con «Tv2000», «Radio in Blu», «Radio Vaticana» e «Radiospazionoi». Nel 2010 ha ricevuto il premio «Rocco Chinnici» per l’impegno nella lotta contro la mafia. Tra le sue pubblicazioni, Quel che resta dell’uomo. È davvero possibile un nuovo umanesimo?, Cittadella Editrice, Assisi 2015; Il gender spiegato a un marziano, Edizioni Dehoniane, Bologna 2016; Cercatori di senso. I giovani e la fede in un percorso di libertà, Edizioni Dehoniane, Bologna 2018, Il miracolo e il disincanto. La provvidenza alla prova, Edizioni Dehoniane, Bologna 2021.
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