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L’emigrazione italiana in Belgio: da minatori emarginati a cittadini e funzionari europei

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2022 @ 02:11 In Migrazioni,Società | No Comments

Minatori italiani in Belgio, anni 50

Minatori italiani in Belgio, anni 50

di Franco Pittau [*]

Alcuni aspetti di rilievo nell’esperienza italiana in Belgio

Il Belgio fu il primo Paese con il quale, subito dopo la Seconda guerra mondiale, il governo italiano inviò i suoi lavoratori nell’ambito di un accordo di emigrazione programmata con un accordo bilaterale. Il Belgio divenne il primo Paese di accoglienza per gli italiani, sottoposti comunque a pesanti condizioni nell’ambito lavorativo e al di fuori. Ciò fu un chiaro indicatore della scarsa simpatia verso un Paese che aveva combattuto la guerra insieme ai nazisti che avevano invaso il Belgio.

Tuttavia, dopo la tragedia di Marcinelle del 1956, il Belgio, che da tempo si avvaleva del loro prezioso apporto, iniziò a rendersi conto del sistema emarginante riservato agli italiani e diede inizio a un ripensamento che, portato avanti nonostante la grave crisi petrolifera del 1973, a partire dagli anni ‘80 sboccò nella revisione della propria politica migratoria. Anche nel portare a compimento questo processo il Belgio, ancora una volta, precedette gli altri Paesi europei, prestando una maggiore attenzione all’integrazione l’aspetto sociale, culturale e politica degli immigrati e andando oltre il mero livello economico.

Questa sensibilità interculturale si sviluppò mentre la linea seguita in altri Paesi europei portava a chiedere l’identificazione con la cultura del posto, oppure a prestare attenzione alla cultura dei Paesi di origine per favorirvi il rientro degli immigrati, il cui soggiorno continuava a essere considerato temporaneo o, ancora, ad accettarne la presenza connotata però da una certa separatezza, nell’ambito di politiche multiculturali non convergenti ma parallele.

Notevoli furono, in Belgio, anche i passi in avanti compiuti per favorire il protagonismo politico degli immigrati, perché si passò dal semplice coinvolgimento consultivo in appositi comitati (dei quali questo Paese fu pioniere) alla concessione del voto amministrativo [1]. Questi obiettivi, da tempo fatti propri dalla politica migratoria belga, ancora non sono stati conseguiti in diversi Stati membri e, per giunta, risultano essere ancora più lontani nell’attuale fase socio-politica, in cui per molti la rivalutazione dell’identità nazionale dovrebbe portare a essere più cauti nell’accettare queste aperture.

Non è rilevante evidenziare che la politica migratoria belga andò di pari passo con il consolidarsi della presenza italiana, diventata nell’immediato dopoguerra (e tale rimasta per molti decenni) la più numerosa. Non è infondato ritenere che l’evoluzione del processo d’integrazione degli italiani abbia esercitato un effetto positivo, utile anche all’inserimento delle altre collettività immigrate. Dopo, quando il protagonismo è passato dagli italiani emigrati nell’immediato dopoguerra ai loro figli, il dinamismo delle seconde generazioni è stato più vivace, come reso evidente dalla partecipazione alle elezioni amministrative.

Un’altra annotazione importante consiste nel porre in evidenza che la dimensione interculturale è storicamente intrinseca al Belgio. Dove solo un orientamento impegnato a unire le differenze senza confonderle, alla fine si è rivelato come l’unico in grado di evitare la frammentazione del Paese nelle sue diverse parti. Anche altri aspetti aiutano ad affrontare con la dovuta attenzione il tema di questo saggio. Questo piccolo Paese ha posseduto fino al 1960 l’immensa e ricca colonia del Congo belga e, inoltre, prima di attrarre gli immigrati, è stato esso stesso un’area di forte emigrazione in Francia fino alla fine dell’Ottocento.

Nei confronti degli immigrati italiani il Belgio è stato anche il Paese simbolo dell’integrazione europea e delle sue garanzie giuridiche, non solo perché figura tra quelli firmatari del Trattato di Roma ma anche perché ospita le strutture della costruzione comunitaria, presso le quali opera un folto gruppo di funzionari italiani. In particolare, tra i principi fondamentali della Comunità Economica Europea era inclusa la libera circolazione dei cittadini comunitari, che è, comprensibilmente, l’esigenza più profonda del fenomeno migratorio. È interessante osservare che l’Italia, da un lato con i suoi cittadini emigrati ha sollevato il problema della loro tutela e, dall’altro, ha contribuito alla sua soluzione, essendo stato tra gli Stati sottoscrittori del trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, firmato a Roma nel 1957, e fortemente voluto dalla maggioranza della classe politica italiana nonché modellato nei suoi contenuti da un illustre uomo politico belga come Paul Henri Spaak [2].

Questi aspetti contribuiscono, nel loro insieme, a rendersi conto sia della positiva evoluzione della politica migratoria belga e dell’integrazione della collettività italiana, passata da una situazione di forte emarginazione al tempo del duro lavoro in miniera, a ben diversi standard di inserimento, reso possibile dalla normativa belga e dal diritto comunitario. Riassumendo a grandi linee quanto verrà esposto nei dettagli, si può dire che, dopo l’accordo bilaterale del 1946, per quasi due decenni, furono massicci gli arrivi in Belgio dei lavoratori italiani, che poi continuarono ad arrivare a seguito di decisioni individuali. Questi spostamenti così rilevanti risposero, come si vedrà nel dettaglio, alle esigenze dei due Paesi, rispettivamente per sviluppare l’attività produttiva e per abbassare il livello della disoccupazione.

All’inizio i flussi furono esclusivamente monosettoriali, unicamente indirizzati al duro lavoro in miniera, senza possibilità per i lavoratori di spostarsi in altri settori. Questa emigrazione “assistita” (più esattamente, “concordata” tra i due Stati) non fu agevole per i lavoratori, che lasciarono l’Italia attirati da una propaganda scarsamente conforme alla realtà. La miniera come luogo di morte nel 1956 fu drammaticamente portata all’attenzione delle autorità belghe e di quelle italiane. L’accordo bilaterale fu disdetto e, anche se i problemi non cessarono d’incanto, iniziò una fase di ripensamento tra i politici belgi, che si prolungò per tutti gli anni ‘60 e ‘70, promuovendo infine la consapevolezza (precocemente rispetto agli altri Paesi europei) del carattere stabile della presenza immigrata e della necessità di riservare alle collettività immigrate, come fortemente richiesto dalle seconde generazioni della comunità italiana (e non solo di essa), l’accettazione della diversità di origine e l’offerta di pari opportunità nell’inserimento a livello socio-culturale e anche politico.

Questa maturazione culturale (che coinvolse naturalmente anche la società civile) si tradusse in misure concrete e la collettività italiana poté così intraprendere con decisione la via dell’integrazione e conseguire affermazioni di prestigio. Il Belgio si presenta, quindi, come un apripista rispetto agli altri Paesi europei, più lenti nel superare il concetto di temporaneità dell’immigrazione e nel riconoscere gli immigrati come nuovi cittadini protagonisti all’interno delle loro società.

Su quanto avvenuto si tornerà più diffusamente, attingendo a una copiosa bibliografia sugli aspetti storici, statistici e sociologici (senza trascurare alcuni apporti provenienti da organizzazioni sociali vicine al mondo dell’emigrazione), per passare poi a tratteggiare la situazione attuale della collettività italiana e ipotizzare il suo futuro: un futuro da ritenere sempre più intrinseco al Paese di accoglienza, ma anche non privo di legami con quello di origine. È questo il delicato dibattito sulla “italianità” dei connazionali all’estero (o della “identità italiana” per riprendere il termine utilizzato dal Presidente Mattarella nel discorso di insediamento per il suo secondo mandato tenuto nel Parlamento il 3 febbraio 2022, da trattare con una estrema concretezza). 

cartinaUn Paese istituzionalmente complesso come il Belgio 

In via preliminare torna utile fornire alcuni cenni sulla storia di questo Paese e su alcune sue caratteristiche, che possono avere influito sulle politiche migratorie, per poi passare a riferire sinteticamente sui flussi intervenuti prima della Seconda guerra mondiale [3]. Questa terra, conquistata nel 58-61 a. C. da Giulio Cesare e diventata la Provincia Gallia Belgica, già nel V secolo iniziò a essere esposta a una serie d’invasioni da parte dei più potenti vicini (oltre che da parte dei Franchi), con una ricorrenza continua di questi eventi per tutto il Medioevo e anche nell’epoca moderna. Nel 1482 i Paesi Bassi, che allora comprendeva anche l’attuale territorio belga, erano schiacciati tra il Sacro Romano Impero e il Regno di Francia. Il casato di Borgogna, che vi esercitava il potere, a seguito del matrimonio di una loro discendente con un membro della casata degli Asburgo, trasferì l’Olanda (le Fiandre) nella loro orbita, mentre questo potere poi passò alla Spagna.

Dopo un lungo periodo di lotta, le province settentrionali dell’Olanda, di confessione calvinista, ottennero l’indipendenza, alla chiusura della “guerra di religione” con la pace di Vestfalia del 1648; mentre le province meridionali, di confessione cattolica, rimasero sotto gli spagnoli e da questi passarono, poi, nuovamente alla casa d’Austria. Nel 1791, a seguito della “rivoluzione brabantina”, al territorio belga fu possibile ottenere l’indipendenza e costituirsi come Stati Belgi Uniti, ma dopo quattro anni vi fu, nonostante una tenace resistenza, l’annessione all’impero napoleonico, perdurata fino al 1814.

Caduto l’impero napoleonico in base agli accordi del Congresso di Vienna del 1815, fu costituito il Regno dei Paesi Bassi, in cui fu incluso anche il Belgio, poco propenso, come nel passato, a questa convivenza. Nel 1830 il cattolico Belgio (essenzialmente la Vallonia), a seguito di una rivoluzione, si staccò dai Paesi Bassi e nell’anno seguente si costituì come monarchia costituzionale, ottenendo il riconoscimento a livello internazionale a condizione che si attenesse a un regime di neutralità perpetua. Negli anni seguenti permaneva la divisione tra cattolici e protestanti, mentre si accentuò la contrapposizione politica tra liberali e socialisti.

Nel 1885 la Conferenza di Berlino conferì la sovranità personale sul Congo a Leopoldo re del Belgio, esercitata in modo tutt’altro che esemplare, e, dopo un lungo periodo di forti pressioni sulla monarchia, la colonia fu, quindi, affidata alle competenze dello Stato belga. Ai tempi della Prima guerra mondiale, nonostante il suo regime di neutralità, e una strenua resistenza guidata dallo stesso re, il Belgio fu occupato dai tedeschi. Di ciò si tenne conto nella conferenza di pace al termine del conflitto, che aggiunse alla colonia del Congo anche una parte dell’Africa Orientale Tedesca. Il periodo successivo fu caratterizzato dal potenziamento della normativa sociale e anche dalla frammentazione dei partiti su base linguistica, un chiaro indicatore del difficile rapporto tra fiamminghi e valloni. Nel 1930 fu sancito il bilinguismo francese e fiammingo e furono create due regioni linguistiche.

Il Belgio, pur avendo confermato la sua posizione neutrale, fu occupato nuovamente dai tedeschi (dal 1940 al 1944 durante la Seconda guerra mondiale) e questa volta il comportamento del re fu considerato ambiguo. Nel dopoguerra il grande statista Paul Henri Spaak, con il sostegno del suo Paese, fu uno dei più importanti protagonisti del processo di unificazione europea.

Il 1960 fu l’anno dell’indipendenza di molti Paesi dell’Africa e anche del Congo belga. In quella fase, già di per sé difficile per le questioni poste dalla decolonizzazione, si accentuò il contrasto tra i valloni e i fiamminghi con un’ulteriore frammentazione dei partiti su base etnica. Per venire a capo di queste contrapposizioni si impose l’ipotesi di costituire lo Stato su basi federali, inserendovi una terza regione, quella di Bruxelles (Patto di Egmont del 1977). Nel 1980 il timore di rompere un già difficile equilibrio tra le due precedenti regioni non consentì di pervenire al federalismo ma solo di incrementare le autonomie delle regioni. Superati i residui timori, nel 1993 si trovò l’accordo politico per trasformare il Belgio in uno Stato federale (Fiandre, Vallonia e Bruxelles). Nella nuova Costituzione del 1994 sono stati previsti cinque organi legislativi (le tre regioni e le due comunità linguistiche) con i relativi organi esecutivi.

Elio Di Rupo

Elio Di Rupo

La complessa architettura istituzionale non valse a superare gli aspri confronti di natura economica, linguistica e politica tra i partiti tradizionali e i nuovi partiti su base linguistica e territoriale. Tra il 2010 e il 2011 si verificò una situazione eccezionale, perché il Paese rimase per quasi due anni (541 giorni) senza governo. Per superare l’impasse e favorire le mediazioni necessarie imperniate sul potenziamento delle autonomie regionali, fu determinante il contributo di Elio Di Rupo, figlio di abruzzesi giunti nel 1947 e qui nato nel 1951: egli fu il primo socialista vallone e anche il primo cittadino di origine straniera diventato primo ministro. Un protagonismo istituzionale di così alto livello tuttora non si riscontra in nessun altro Paese europeo, neppure in Francia dove gli italiani emigrarono già a fine Ottocento.

L’immigrazione nell’ultimo periodo è stata maggiormente sotto l’attenzione dei politici, perché dopo la strage di Parigi del 2015 e l’attentato di Bruxelles del 2016, da ricollegare al terrorismo di matrice islamica, è insorto un atteggiamento di diffidenza rispetto ai possibili flussi. Si deve leggere all’interno di questa particolare situazione, caratterizzata anche dalla pressione dell’estrema destra, il fatto che il governo belga, dopo essersi pronunciato per l’adesione al Global compact for migration, sia stato costretto alle dimissioni.

Il Belgio, come evidenziato da questi eventi, si presenta come una realtà quanto mai complessa con le sue differenze linguistiche, territoriali, religiose e politiche, con la regione di Bruxelles chiamata a fungere da cuscinetto tra le Fiandre e la Vallonia. Sono differenze forti, che spesso hanno rallentato il cammino del Paese, trovando alla fine una composizione, non definitiva e quindi all’occorrenza da tessere ex novo.

Ciò porta a qualche puntualizzazione sulla politica migratoria. Gli obiettivi raggiunti dal Belgio in questa materia, tutt’altro che facili, hanno comportato un notevole impegno per il superamento di non pochi ostacoli. La difficoltà del percorso appare evidente quando si fa riferimento alla fase iniziale, in cui la posizione fu dura nei confronti degli immigrati, la cui presenza era ritenuta accettabile solo temporaneamente e unicamente per motivi di lavoro, senza alcuna apertura a una convivenza stabile. Solo il ripensamento, favorito dalla tragedia di Marcinelle (1956), portò ad innovare la politica migratoria, primo Paese in Europa a incamminarsi su questa strada.

Bruno Ducoli, un operatore socio-pastorale di grande talento, recentemente scomparso (2021), che operò a Bruxelles negli ultimi tre decenni del secolo scorso, in un suo saggio sull’emigrazione italiana in Belgio, si è soffermato sul carattere paradossale di questo Paese, che si compone di tre regioni, tre lingue nazionali (francese, fiammingo e tedesco) e tre comunità linguistiche, il tutto tenuto insieme dalla Costituzione federale del 1993, ma non senza difficoltà. Il Belgio, secondo Ducoli, si accredita come un Paese imperniato sul tentativo di composizione istituzionale tra l’orientamento cattolico e quello laico, tra i partiti progressisti e quelli conservatori, tra la comunità linguistica fiamminga e quella vallona, tra i vincoli della protezione sociale e la libertà imprenditoriale, con una certa smentita – per così dire – delle tesi di Max Weber, che ritenne il capitalismo appannaggio dei Paesi protestanti.

Di seguito si vedrà come queste annotazioni abbiano esercitato un certo impatto anche sull’evoluzione dell’immigrazione italiana in questo Paese. 

Minatore italiano (ph. Diego Ravier)

Minatore italiano (ph. Diego Ravier)

L’emigrazione italiana in Belgio prima della Seconda guerra mondiale 

Mentre nel Medioevo si recavano in Belgio i mercanti, i banchieri e anche gli artigiani, in epoca moderna vi si riscontra l’arrivo di esuli politici italiani specialmente a seguito della restaurazione e della linea dura seguita contro i protagonisti dei Risorgimento italiano. Anne Morelli dell’Università Libera di Bruxelles e attenta studiosa di origine italiana dell’Italia in Belgio, ha sottolineato che nel periodo dei moti risorgimentali si rifugiarono in questo Paese diversi oppositori ai regimi dell’epoca. Gli esuli svolsero lavori marginali come venditori ambulanti, suonatori o cantanti di strada o anche, in mancanza di un’occupazione seppure precaria, furono costretti a chiedere l’elemosina.

Alla fine del secolo XIX si era già costituita in Belgio una piccola comunità di italiani, quasi tutti settentrionali [4]. Nel Novecento giunsero invece in Belgio anche i lavoratori, inizialmente per inserirsi nei lavori ferroviari e poi nelle miniere. La Morelli colloca in questo periodo la pratica di discriminazioni nei confronti degli italiani e l’insorgenza di un sentimento di avversione a questi nuovi arrivati. Rital era il termine spregiativo con cui, nella lingua francese quotidiana, essi erano indicati. I valloni, sindacalmente ben organizzati nel settore minerario, avevano un trattamento migliore rispetto a quello riservato agli italiani e agli altri immigrati stranieri (e, anzi, agli stessi fiamminghi), per i quali le condizioni di lavoro erano più dure. Già dalla fine del XIX secolo i belgi mostrarono una crescente avversione al lavoro in miniera, per cui le compagnie carbonifere erano costrette a rivolgersi a lavoratori stranieri. Jean-Louis De Laet diede questo espressivo titolo a un suo saggio sulla questione: Les Belges ne veulent plus descendre.

Italiani nelle miniere di carbone del Belgio

Italiani nelle miniere di carbone del Belgio

Tra le due guerre, il Belgio fu maggiormente costretto a ricorrere all’estero per disporre di un numero sufficiente di addetti alle miniere, necessità questa resa più urgente man mano che cresceva la disaffezione dei belgi. Perciò i flussi in partenza dall’Italia durante il periodo fascista furono quanto mai auspicati da parte belga. A partire erano sia i migranti economici, sia gli oppositori al regime instaurato da Mussolini, ma spesso le due motivazioni erano congiunte.

A seguito dell’arrivo degli italiani e degli altri immigrati, nel 1923 gli stranieri erano già un decimo del totale degli addetti (polacchi, jugoslavi, ungheresi, algerini, marocchini e italiani). Il flusso dei lavoratori italiani, che prima era avvenuto per decisione individuale, nel 1922 fu regolato dal primo accordo bilaterale in materia occupazionale, sottoscritto dal Belgio proprio con l’Italia. In quell’anno in Italia era presidente del Consiglio dei ministri Luigi Facta, cui subentrò Mussolini il 31 ottobre dello stesso anno, formando un governo di coalizione, mentre due anni dopo i partiti politici sarebbero stati dichiarati illegali e, quando si diede vita alla dittatura, si determinò il “fuoriuscitismo” per motivi politici.

I primi arrivi di antifascisti furono registrati già nel 1920 e furono dettati dall’interesse a rifarsi una vita all’estero, sottraendosi alle violenze degli squadristi fascisti. Dopo che Mussolini interpretò in forma dittatoriale il suo ruolo di capo del governo, nella seconda metà degli anni ‘20 aumentò l’esodo per motivi politici, coinvolgendo anche quadri e dirigenti politici e sindacali. In quel periodo, l’accresciuta presenza straniera indusse il governo belga a introdurre l’obbligo per gli stranieri di munirsi di un permesso di lavoro. Al censimento del 1930, come effetto degli accresciuti flussi, gli italiani aumentano a 33.490 con la non trascurabile incidenza (10,5%) sulla presenza straniera totale e una quota non trascurabile di fuoriusciti.

Minatore italiano (ph. Diego Ravier)

Minatore italiano (ph. Diego Ravier)

Un successivo accordo bilaterale sull’occupazione degli italiani intervenne nel 1935 tra l’Istituto italiano per il lavoro all’estero e la Federazione Carbonifera Belga (Fédéchar). L’accordo poneva in capo alle autorità locali italiane l’obbligo di farsi carico del reclutamento dei lavoratori. L’Italia assicurava al Belgio l’acquisto di 1 milione di tonnellate di carbone, mentre il Belgio si impegnava, in cambio, a offrire un posto di lavoro in miniera a 50 mila italiani. Sono evidenti le analogie di tale accordo con quello stipulato nel 1946, quando il ricorso ai lavoratori italiani si rese ancora di più necessario per il Belgio, impegnato nella ricostruzione postbellica.

Negli anni ‘20, e ancora di più gli anni ‘30, la collettività italiana in Belgio fu segnata da una polarizzazione tra fascisti e antifascisti. L’impegno degli emigrati antifascisti divenne più dinamico dopo che Mussolini, aboliti i partiti politici e il sindacalismo libero, instaurò un regime dittatoriale, mentre Hitler più tardi avrebbe dato inizio alle guerre di occupazione di diversi Paesi europei (incluso il Belgio).

Sia i militanti di base che gli esponenti di una certa levatura curarono i contatti con i protagonisti dell’emigrazione economica e si resero molto attivi nell’ambito dei sindacati, favorendo l’iscrizione dei connazionali. Tra gli stessi migranti economici non mancavano i militanti contro il fascismo anche se su questa militanza di base di parla poco nella bibliografia sul fuoriuscitismo, che invece è esauriente nei riguardi degli antifascisti di un certo spicco andati a vivere nei grandi centri urbani. Questo impegno politico, unitamente a quello svolto in Italia dai partigiani, sarebbe poi stato richiamato all’attenzione dalle sezioni dell’ANPI (Associazione Nazionale dei Partigiani Italiani), che negli anni ‘50 furono costituite in Belgio dai nuovi emigrati dalla penisola. Per informarsi sulle vicende dei fuoriusciti in Belgio è d’obbligo far cenno ai diversi studi di Anne Morelli in lingua francese, di cui uno è stato pubblicato anche in italiano [5]. 

81myqetbyklI flussi intervenuti nel secondo dopoguerra 

I numeri di seguito riportati danno un’idea, specialmente nel primo decennio, della consistenza quantitativa di questa emigrazione, che risalta maggiormente se si tiene conto che il Belgio, rispetto ai grandi Paesi europei come la Germania, la Francia e il Regno Unito, ha una popolazione inferiore da 6 a 8 volte. Nell’immediato dopoguerra si trattò, quindi, di un’imponente operazione di “emigrazione assistita”, già sperimentata dall’Italia prima della guerra con due accordi (1922 e 1933), con accordi simili con la Germania (trasformatisi in coscrizione nel periodo bellico) e citati già alla fine del XIX secolo massicciamente con il Brasile (con il costoso prezzo del viaggio transoceanico prepagato, da rimborsare successivamente). È anche vero che, a distanza di pochi anni, gli sbocchi principali (e con un numero di espatri più alto) divennero prima la Svizzera e poi la Germania. Tuttavia, ancora oggi il Belgio si presenta come una destinazione importante per i nuovi flussi migratori che prendono l’avvio dall’Italia.

Il primo anno di applicazione dell’accordo registra 24 mila espatri, quasi raddoppiati nel 1948 (46 mila). Si ebbe una sensibile diminuzione nel biennio 1949-1950 (rispettivamente 3mila e 4mila) e ciò dipese dalla crisi occupazionale verificatasi nelle miniere nel 1949, tenuto conto delle quali i sindacati, interessati a salvaguardare il posto ai belgi, all’interno della Commissione mista italo-belga si dichiararono contrari ai nuovi arrivi. I flussi ripresero, invece, nel biennio successivo (33mila nel 1951 e 22mila nel 1952). Nel corso del decennio, con un andamento disomogeneo, il livello degli espatri diminuì, con valori comunque alti in diversi anni (attorno ai 10mila) nel periodo 1953-1955, con il picco di 17mila espatri nel 1955 e il valore più basso nel 1954 (poco meno di 4mila casi). Quest’ultimo livello fu il massimo raggiunto nel successivo decennio, in cui talvolta gli espatri si ridussero solo a mille casi (nel 1963). Mentre nel 1970 gli espatri furono sei mila, tanti quanti, dopo la flessione dei tre decenni successivi, sono stati registrati nuovamente negli anni 2000, come si vedrà nei dettagli.

Gli italiani residenti in Belgio: 1947-1991

1947

1961

1970

1981

1991

Totale stranieri

367.619

453.486

696.282

878.577

900.855

Italiani

84.138

200.066

249.490

279.700

240.127

Francesi

66.416

61.438

86.658

103.512

93.363

Olandesi

63.700

50.175

61.261

66.233

65.294

Spagnoli

3.245

15.787

67.534

58.225

51.318

Marocchini

-

461

39.294

105.133

142.098

Turchi

590

320

20.312

63.587

85.303

Fonte: R. André, Les étrangers en Belgique d’après les recensements, INS 1991, riportato nel Rapporto Italiani nel Mondo (2009edizioni Idos).

Quindi anche dopo Marcinelle, gli arrivi dall’Italia continuarono, ma non furono più né programmati né monosettoriali e la diversificazione portò gli italiani a inserirsi nei più diversi ambiti: nell’edilizia, nella manovalanza dell’industria, nel commercio, nella piccola imprenditoria e così via. Dopo Marcinelle fu diversa la ripartizione territoriale e in particolare l’area di maggiore attrazione diventò quella bruxelloise, mentre fino ai primi anni ‘60 nella Vallonia, l’area delle miniere di carbone, si stabilirono oltre i quattro quinti della collettività italiana. In questo periodo non mancarono i rientri di quelli che non erano stati giudicati idonei al lavoro in miniera o per una decisione personale dettata dal rifiuto del lavoro in miniera, nonostante le strategie di dissuasione attuate dai datori di lavoro e delle autorità belghe.

Dalle fonti statistiche del Belgio si può desumere la consistenza degli italiani nel Belgio dall’immediato dopoguerra fino agli anni ‘90 [6]:

  • 84.138 su 367.619 stranieri nel 1947;
  • 200.066 su 453.436 stranieri nel 1970;
  • 249.390 su 696.282 stranieri nel 1981;
  • 279.700 su 878.657 stranieri nel 1999.

BELGIO. Italiani iscritti all’AIRE per espatrio (2000-2018)

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

3.287

2.966

2.642

3.998

4.208

2.872

3.074

2.275

2.165

1.997

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018

Totale

1.615

1.673

2.189

2.362

2.601

2.619

2.928

3.062

2.967

50.736
FONTE: Centro studi e ricerche IDOS. Elaborazioni su dati Aire (Edizioni Idos).

Venendo al periodo attuale, si riscontra che gli espatri verso il Belgio sono diventati più vivaci nella prima metà del primo decennio degli anni ‘2000, con una media annuale al di sopra delle 3mila unità, con la punta di 4.208 unità nel 2004. Poi il numero è sceso a circa 1600 espatri (sia nel 2010 che nel 2011), per raggiungere nuovamente quasi 3mila espatri nel 2018. Complessivamente, in 19 anni, sono emigrati in Belgio poco più di 50mila italiani.

Quanto alle provenienze regionali, ancora nei primi anni 50 continuarono a essere importanti i flussi originari dal Centro e dal Nord che però diminuirono fortemente dopo i fatti di Marcinelle, superati da quelli meridionali e di alcune regioni del Centro Italia, sia contadini e agricoltori che persone già esperte del lavoro in miniera, ipotesi riguardanti parte di quelli in arrivo dalla Sardegna e dalla Sicilia.  I siciliani furono quelli più numerosi, con una prevalenza di quelli originari delle province di Agrigento, Enna e Caltanissetta. 

Espatri degli italiani in Belgio: 1946-1970

Anno

Espatri

1946

24.653

1947

29.881

1948

46.365

1949

5.311

1950

4.226

1951

33.308

1952

22.441

1953

8.832

1954

3.278

1955

17.073

1956

10.395

1957

10.552

1958

3.947

1959

4.083

1960

4.915

1961

3.152

1962

3.141

1963

1.626

1964

2.876

1965

4.537

1966

3.885

1967

3.939

1968

3.749

1969

3.517

1970

3.338

Totale

263.020

FONTE: Espatriati e rimpatriati anni 1876-1973, Appendice II del Bollettino Mensile di Statistica, N. 1 del 1975

La prima emigrazione del dopoguerra e l’accordo bilaterale del 1946             

La dura applicazione dell’accordo italo-belga (1946-1956) 

La decisione di far arrivare degli italiani fu provvidenziale per il Belgio, i cui cittadini – come accennato – rifuggivano sempre più il lavoro in miniera, mentre l’estrazione del carbone era ancor più necessaria: l’immigrazione italiana fu una scelta obbligata se non l’espressione di un loro apprezzamento degli italiani, che continuavano a essere mal visti, per lo più dopo il comportamento tenuto durante il conflitto. Per il governo belga le altre ipotesi erano meno praticabili, come quella di importare carbone dagli Stati Uniti.

L’accordo italo-belga del 1946 previde l’invio annuale di 50mila lavoratori dall’Italia, ripartiti in contingenti di 2mila a settimana. I treni partivano ogni martedì sera dalla Stazione Centrale di Milano. La Fédération charbonnière de Belgique (Fedechar) nei suoi manifesti si guardò bene dal mettere in evidenza la durezza del lavoro in miniera per non scoraggiare le adesioni: «Operai italiani / Condizioni particolarmente vantaggiose vi sono offerte per il lavoro sotterraneo nelle / Miniere belghe». I candidati all’espatrio dovevano essere selezionati tra le persone e giovani (fino ai 35 anni) e in buono stato di salute. Era previsto che i datori di lavoro belgi inviassero le richieste al Ministero del lavoro italiano, che le smistava agli Uffici di collocamento comunali, presso i quali venivano affissi allettanti manifesti per reclamizzare “l’interessante prospettiva” di andare in Belgio.

manifestoLa prima visita medica dei candidati avveniva presso l’Ufficio comunale di collocamento. Seguiva un controllo presso l’ufficio provinciale di lavoro. Infine, i lavoratori erano radunati a Milano, luogo della selezione definitiva da parte della Commissione belga e del controllo incrociato della polizia italiana e, seppure non ufficialmente, di quella belga. Questa, pur non avendone la competenza, depennava dagli elenchi dei lavoratori selezionati i comunisti e le “teste calde” che avevano partecipato alle lotte agrarie e alle relative occupazioni. Per fare questa cernita era usuale chiedere aiuto alle parrocchie e alle organizzazioni cattoliche. A sua volta, anch’esse senza averne titolo, indirizzavano le loro preferenze ai lavoratori residenti nel Norditalia, considerandoli più laboriosi (così avrebbero fatto di qui a qualche anno anche gli imprenditori svizzeri).

I candidati-tipo erano celibi: quelli sposati potevano ottenere il ricongiungimento solo dopo un certo periodo. Le autorità italiane, trovandosi in una posizione di sfavore nelle trattative bilaterali, facevano buon viso a cattivo gioco al fine di non mettere a repentaglio l’applicazione dell’accordo. Nei sotterranei della Stazione centrale di Milano i lavoratori che arrivavano per primi potevano alloggiare fino al raggiungimento del contingente previsto. Oltre al reclutamento ufficiale vi era quello fatto nei comuni, per proprio conto dalle compagnie minerarie, che si servivano di mediatori di manodopera (detti sensali). Ogni martedì sera dalla stazione di Milano partivano i treni con 2mila lavoratori, che arrivavano di notte alla stazione di Charleroi, nel cuore del bacino carbonifero e anche nel cuore della notte, così che essi venivano trasportati nelle miniere loro assegnate e sistemati in baracche lontane dai centri abitati, senza che la popolazione si avvedesse di questo intenso traffico [7].

Nei confronti dei lavoratori, reclutati per lavorare in miniera, più che di accoglienza si poteva parlare di una strategia di segregazione. Tra gli impegni previsti dall’accordo bilaterale furono senz’altro disattesi quello riguardante la garanzia di un alloggio adeguato e quello relativo alla formazione professionale. Gli alloggiamenti erano stati pensati per una forza lavoro temporanea, non destinata a integrarsi con la popolazione locale: non desta sorpresa, pertanto, che mancassero del tutto le iniziative volte a far apprendere la lingua del posto o competenze in materia di formazione professionale. Le visite sanitarie condotte in Italia non erano considerate del tutto esaustive e il medico della miniera, alla quale i lavoratori erano assegnati, procedeva a una altra ispezione sanitaria che, secondo i casi, assegnava come mansione il lavoro dentro la miniera, o lo svolgimento di lavori complementari, oppure riteneva il lavoratore non idoneo e, quindi, da far rimpatriare.

Per gli italiani, per lo più abituati all’aria pura del lavoro in campagna, era durissimo trovarsi sotto terra, tra i 90 e i 150 metri, senza che a ciò si fosse fatto cenno nella fase dell’arruolamento. Il loro salario era composto da una parte fissa e una a cottimo, per indurre i minatori a una resa maggiore, anche a scapito delle condizioni di sicurezza. Per giunta le intelaiature dei pozzi erano in legno, quindi maggiormente esposte al degrado, ed era carente il posizionamento dei fili elettrici come anche la dotazione di estintori e di porte stagne finalizzate ad assicurare le vie di fuga in caso di pericolo.

Non fu facile neppure riuscire a tornare in Italia a quei lavoratori che, sperimentata la prima giornata di un lavoro così inadatto alla loro esperienza, si rifiutavano di scendere in miniera e volevano ritornare in Italia. Il trattamento riservato era simile a quello previsto per i trasgressori delle norme di pubblica sicurezza: soggiorno in carcere, trasporto a Bruxelles in un mezzo utilizzato per i detenuti, rilevamento delle impronte digitali, foglio di via e partenza con un convoglio speciale.

Marcinelle, 8 agosto 1956

Marcinelle, 8 agosto 1956

A questo lavoro così impegnativo corrispondeva un salario scarso. Le automutilazioni erano frequenti perché consentivano di avere qualche giornata di riposo supplementare e anche qualche beneficio monetario. Fu l’insufficiente adozione di misure di prevenzione a causare frequenti incidenti. Nei pressi di Marcinelle, in una struttura mineraria obsoleta (quella di Bois du Cazier) l’incendio, scoppiato l’8 agosto 1956, causò la morte di 262 minatori, di cui 136 italiani [8]. Quest’ultimo incidente, di inaudita gravità, pose fine alla cosiddetta “immigrazione assistita” dall’Italia in Belgio e, di conseguenza, le compagnie minerarie si rivolsero ad altri Paesi (Spagna, Grecia, Marocco, Turchia). Quella di Marcinelle fu la disgrazia più tragica ma non la sola: complessivamente furono 867 i minatori italiani morti nelle miniere belghe dal 1946 in poi. A essi bisogna aggiungere il numero, molto più elevato, degli italiani morti per effetto della silicosi, una malattia che solo tardivamente fu riconosciuta come professionale.

ricciardiParadossalmente il triste evento di Marcinelle, così esiziale a livello di vite umane, favorì anche un effetto positivo: il ripensamento della politica migratoria. Iniziò al riguardo una riflessione che coinvolse i politici e l’opinione pubblica, che fino ad allora non si era resa conto della corposa presenza italiana e del suo indispensabile apporto nel settore minerario. Non mancò di destare impressione l’incidenza maggioritaria dei lavoratori italiani morti nella disgrazia del Bois du Cazier. Iniziò allora il cammino di reciproco adattamento, mentre i sindacati si adoperarono subito per ottenere una maggiore tutela. 

La teoria del “triplice guadagno” 

Per formulare una valutazione complessiva del fenomeno migratorio si può ricorrere alla teoria del “triplice guadagno” che, nel caso dell’accordo italo-belga del 1946, evidenzia i benefici per i due Stati ma non altrettanto quelli per i lavoratori. Il bacino carbonifero della Vallonia era antiquato e si reggeva grazie agli aiuti del governo, interessato a mantenere basso il prezzo del carbone. Il reclutamento di un numero sufficiente di manodopera era essenziale per l’economia belga e fu ritenuta funzionale a questo scopo la possibilità di stipulare accordi con quasi tutti i Paesi europei e anche con diversi Paesi transoceanici.

Già dalla fine degli anni ‘40 la Vallonia conosceva una crisi demografica oltre che economica, ma il settore minerario poté reggere grazie all’arrivo dei lavoratori stranieri, dei quali dopo la metà degli anni ‘50 diversi studi proponevano la stabilizzazione, scelta questa fatta solo da una parte degli italiani con i ricongiungimenti familiari e l’aumento del numero delle donne.

marcinelle_1La disponibilità di immigrati era apparsa ancora più indispensabile dopo che l’Italia ruppe l’accordo a seguito del disastro di Marcinelle. Il governo belga fu allora costretto a cercare un’alternativa al reclutamento effettuato in Italia (1946-1956) con accordi analoghi sottoscritti per far venire i lavoratori spagnoli (1956-1964) e poi quelli maghrebini (1964-1974). 

“Imparate una lingua e andate all’estero”: questa fu la consegna data agli italiani dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Prima di sottoscrivere l’accordo con il Belgio fu valutata anche l’opportunità di ottenere il carbone americano, tra l’altro di qualità superiore, nella previsione della piena operatività del piano Marshall, ma poi si scartò questa ipotesi perché meno immediata e non in grado né di ridurre il livello della disoccupazione, né di assicurare l’arrivo delle rimesse e la fornitura di carbone in misura sufficiente.

L’accordo con il Belgio prevedeva che all’Italia fossero forniti 24 quintali di carbone all’anno per ogni lavoratore inviato in miniera. Nella contrattazione l’Italia non riuscì a esercitare un ruolo incisivo forte per quanto riguardava la tutela dei lavoratori poiché era debole la sua posizione internazionale e pregiudizievole il ricordo del suo recente passato come Paese nemico. Per lo studioso Toni Ricciardi l’accordo costituì una sorta di prima punizione nei confronti dell’Italia. 

Secondo uno dei primi sondaggi condotti in Italia immediatamente dopo la guerra, più della metà dei maschi italiani era disposto a emigrare per sottrarsi alla miseria e alla mancanza di prospettive. Tuttavia, anche in un contesto così disperato, vi erano dei limiti di sopportazione. Per i lavoratori dei campi il fatto di emigrare, lasciando i propri familiari e un ambiente naturale, per affrontare le impegnative condizioni delle miniere di carbone, era una scelta quanto mai dolorosa. L’alloggio conveniente, previsto dall’accordo bilaterale, fu garantito solo sulla carta, perché in realtà si trattò solo di misere baracche, inizialmente quelle utilizzate dai tedeschi occupanti per i prigionieri russi e polacchi e poi dai belgi per prigionieri tedeschi, sostituite a distanza di anni da altri alloggiamenti. Secondo i commenti più radicali gli italiani furono “venduti per un sacco di carbone”, ma, d’altra parte senza una forte emigrazione l’Italia non si sarebbe ripresa.

9788838925511_0_424_0_75In conclusione, tutti avevano interesse a questi flussi migratori seppure per diverse ragioni e con diversi benefici: il Belgio fu, però, l’anello forte della catena, l’Italia quello più debole e il lavoratore quello debolissimo. Perciò questi flussi migratori sono stati definiti dal quotidiano belga Le Soir «la più vasta deportazione di massa conosciuta dall’Europa in tempo di pace»[9]. Non bisogna, poi, dimenticare che fu molto difficile il processo di sindacalizzazione e della conseguente tutela. Lorenzo Di Stefano, nel suo saggio Da Roma a Marcinelle: 1946-1956, ha utilizzato fonti sindacali dell’epoca per soffermarsi sul ruolo svolto dai sindacati belgi nell’impiego degli italiani e il difficile compito della loro sindacalizzazione, dovuta a diversi fattori: il divieto, fatto valere per molti anni di ingresso dei delegati sindacali nei alogements dei campi di prigionia (che comportava anche isolamento socio-culturale), l’idea di un soggiorno temporaneo, l’elevato importo dei contributi rispetto al loro accentuato bisogno di risparmiare, il sistema dei controlli effettuati per impedire la propaganda dei comunisti (con continui controlli e intimidazioni, arrivando, al limite, alla espulsione dei minatori comunisti), il divieto durato a lungo di far entrare i delegati sindacali nelle cantine e nei falansteri; la mancata approvazione della proposta socialista di rendere obbligatoria per gli stranieri la sindacalizzazione. Fu invece un fattore positivo che nel 1949 fosse riconosciuta agli immigrati il diritto di voto passivo per l’elezione dei delegati sindacali.

La strategia sindacale consisteva nel porre limiti all’ingresso di nuovi minatori quando il livello occupazionale tendeva a scendere come avvenne nel 1949 e al contrario, in periodo di piena occupazione e di fabbisogno di manodopera, in opposizione agli italiani che dopo poco tempo volevano lasciare la miniera per cercarsi un’altra occupazione.

Inizialmente il Partito socialista e la FGTB, il sindacato di ispirazione socialista, il primo per numero di iscritti, furono secondo Anne Morelli “i grandi assenti” e iniziarono a dispiegare maggiore impegno, rispetto alla questione migratoria, solo a partire dagli anni ‘70. Più dinamico fu invece il sindacato cristiano, poiché i missionari erano gli unici autorizzati a entrare negli alloggiamenti, così che non mancava il malumore degli altri sindacati, ritenendola una possibilità atta a favorire l’adesione alla Confederazione dei Sindacati Cristiani. Tra questa Confederazione e le ACLI vi fu un tempestivo accordo di collaborazione, per cui nacquero gli uffici di patronato e i segretariati sociali, poi anche il circolo ACLI, come anche iniziò subito la pubblicazione del giornale Il Sole d’Italia. Nel primo decennio la convivenza della collettività italiana si sviluppò principalmente attorno alle missioni e alle strutture di ispirazione cristiana (oltre a quelle citate operò anche l’ONARMO – Opera Nazionale Assistenza Religiosa e Morale per i giovani). Queste organizzazioni erano meno invise ai politici e ai vertici delle miniere, poterono adoperarsi per favorire le iscrizioni ai sindacati cristiani. Dopo il 1950, superato finalmente il timore che scomparisse l’ordine nelle cantine e nei falansteri, i sindacati sperimentarono anche la figura del “permanente sindacale”, un quadro che operava per loro. 

61go-zk-rplLa prima fase d’insediamento e la necessità di emancipazione

Dopo la disdetta dell’accordo, la situazione rimase problematica per decenni. Nel 1986 Girolamo Santocono scrisse il romanzo Rue des italiens, chiaramente di impronta autobiografica[10]. L’autore, figlio di emigrati siciliani, ha narrato la storia di una famiglia originaria dell’isola. La narrazione riflette le difficoltà affrontate dagli italiani sia prima della partenza che in Belgio: l’autore ne ricava l’impressione di persone con circa mille anni di età, tanto risalta la loro sofferenza e ricorre al termine “immigritude” per connotare la peculiare maniera di vivere e di pensare in quelle condizioni, con i bambini che giocavano sulle montagne formate dai rifiuti del carbone estratto, un’immagine espressiva del condizionamento negativo gravante anche sulle nuove generazioni.

Anche dopo la disdetta dell’accordo, la collettività italiana continuò a essere quella più numerosa rispetto ai polacchi, ai turchi e ai nordafricani. La vita si svolgeva ai margini della società belga e tale situazione fu aggravata dalla lunga crisi economica degli anni ‘70, che peggiorò la situazione occupazionale nel bacino minerario, il cui andamento negativo era già iniziato alla fine degli anni ‘50.

La politica migratoria belga, imperniata sulla temporaneità, continuava a mostrarsi non interessata né all’integrazione sociale degli adulti italiani (neppure a livello linguistico), né alle aspettative dei loro figli, interessati ad andare oltre un inserimento professionale di basso rango. Il caso di Elio Di Rupo, sul quale si ritornerà, e la sua tempestiva affermazione in politica mostrarono che le cose potevano andare diversamente anche per i figli degli emigrati. Nei confronti dei ritals, dopo che la tragedia di Marcinelle ne aveva mostrato il servizio reso al Paese, iniziò a scemare il disprezzo, seppure mancasse ancora l’apprezzamento: serviva del tempo per questo ripensamento, che avrebbe portato i politici belgi a fare notevoli passi in avanti.

Una quota di italiani preferì rimpatriare al compimento dell’età pensionabile da parte del capofamiglia, talvolta ricorrendo anche al pensionamento anticipato nonostante la decurtazione della prestazione. Essi solitamente rimpatriarono con le mogli e i figli, ma talvolta questi ultimi, quando l’età già lo consentiva, preferirono continuare a lavorare sul posto. La maggior parte decise di restare in Belgio, ma la continuazione del loro progetto migratorio fu diverso a seconda che si trattasse di anziani o di giovani. La diffusione della disoccupazione indusse una parte degli adulti a cercare un’occupazione in altri settori industriali e ancor di più a dar luogo a iniziative imprenditoriali, specialmente nel settore della ristorazione e dell’edilizia. Altrimenti si campava con il trattamento di disoccupazione o con quello pensionistico.

Gli adulti italiani, eccezion fatta per gli aspetti occupazionali, presentavano un tratto comune. I pionieri che scelsero di restare nell’area del bacino carbonifero furono portati a creare un ambiente simile a quello lasciato in patria, facendo della casa di proprietà la base della propria identità, rendendola (per quanto possibile) simile a quella lasciata nel proprio paese, coltivando un proprio orto con i prodotti tradizionali (fagiolini, fave, cipolle, aglio, cavolo, ravanelli) e anche allevando degli animali domestici. Questa fu la riconquista del paesaggio “tradizionale” in un Paese straniero, per usare l’espressione di Flavia Cumuli, un’operazione di recupero del livello di relazioni. Gli italiani, ricomposte le famiglie tramite i ricongiungimenti, curarono i rapporti parentali e amicali con gli altri connazionali, trovando così un antidoto allo sradicamento iniziale. Rispetto alla mancata offerta di un inserimento sociale da parte dei belgi, ricorsero a una soluzione di tipo etnico e familiare.

L’impostazione dei loro figli fu diversa perché vollero cogliere le opportunità che si presentavano in Belgio. Essi erano a conoscenza della lingua del posto, essendovi stati scolarizzati, anche se il loro percorso scolastico era stato compiuto nelle scuole professionali e meno spesso a livello più elevato. Erano, comprensibilmente, giovani in sofferenza, perché si consideravano sfavoriti rispetto ai coetanei belgi nell’inserimento occupazionale; da parte belga mancò, inizialmente, la presa in considerazione delle loro aspettative. I giovani in possesso di un diploma o di una laurea trovarono più facilmente un posto di lavoro. Diversi di loro riuscirono a inserirsi nelle strutture della Comunità Economica Europea, dove furono più numerosi quelli provenienti direttamente dall’Italia, guardati dalla comunità italo-belga come una categoria a parte in quanto non segnati dall’esperienza migratoria.

Vi fu anche una migrazione interna alla zona carbonifera a Bruxelles, dove si accentuò l’autoconsapevolezza dei giovani italiani. Qui già risiedeva una consistente collettività italiana composta da persone arrivate direttamente dall’Italia ed altri che continuavano a venire, specialmente dal sud Italia e dalle isole, trovandovi molte opportunità di lavoro dipendente e anche autonomo (specialmente nell’edilizia e nel commercio). Tipico era il caso migratorio di S. Martino di Campagna, nei pressi di Pordenone, e qui presentato sulla base delle conversazioni avute con diverse persone che ne furono protagoniste. All’inizio degli anni ‘80 si stimava una presenza in tutto il Belgio di più di 300 sanmartinesi concentrati per i due terzi nella capitale. Le loro piccole aziende edili (almeno una decina) erano competitive non solo per la riconosciuta tenacia lavorativa dei friulani ma anche per la specifica bravura in determinate lavorazioni: dai pavimenti e alle scale. Questi imprenditori poterono operare con un apprezzabile margine di convenienza fino all’inizio degli anni ‘2000, quando fu introdotta la tassa sul valore aggiunto.

La comunità di San Martino di Campagna va citata anche come un tipico esempio delle catene familiari e amicali. Quando ancora era necessario il rilascio di un permesso di lavoro per il soggiorno in Belgio, e anche dopo l’attuazione, i paesani emigrati in precedenza (e in particolare un imprenditore abbastanza affermato) facevano da battistrada a quelli intenzionati a emigrare in Belgio, cercando per loro un posto di lavoro (oppure offrendolo direttamente nel caso dell’imprenditore) e aiutandoli per la prima sistemazione fino a quando erano in grado di muoversi autonomamente [11]. Naturalmente la coesione tra i paesani di San Martino di Campagna era stretta anche in una città come Bruxelles, che peraltro negli anni ‘70 non era segnata dall’accentuata internazionalizzazione e terziarizzazione poi intervenuta.

In quegli anni, come nei successivi anni ‘80 gli italiani di seconda generazione, meglio preparati rispetto ai genitori, si collocavano tra la situazione di emarginazione dei propri genitori e il loro superamento, intravisto nei propositi, in vista di un loro pieno riconoscimento. La collettività italiana a Bruxelles, relativamente alla capacità di adattamento socio-culturale, si presentava come una realtà disomogenea, composta da diverse categorie: persone altamente qualificate o comunque in grado di inserirsi nelle strutture europee o in altre strutture multinazionali, governative o meno; immigrati arrivati con i primi flussi, sia direttamente dall’Italia sia spostatisi in seguito dalla zona carbonifera e in qualche modo adattatisi al nuovo ambiente; gli italiani che continuavano ad arrivare, di provenienze diverse (con prevalenza dei meridionali) con una predisposizione personale al cambiamento.

L’operatrice pastorale Lidia Pucciatti (morta nel 2020) e i medici Giovanni e Benedetta De Gaetano, ora affermati ricercatori in Italia e allora specializzandi presso l’Università cattolica di Lovanio, si occuparono nei primi anni ‘70 per conto della Missione Cattolica Italiana di Bruxelles della preparazione al matrimonio dei nuovi arrivati, dovettero confrontarsi con il brusco passaggio dalle zone agricole meridionali a una città del nord Europa, per molti quanto mai difficile. Basti pensare che in alcuni approfondimenti dell’Ufficio Centrale dell’Emigrazione Italiana (la struttura pastorale dei vescovi italiani) o del Centro Studi Emigrazione di Roma dei Missionari Scalabriniani, si fece ricorso, come termine di paragone, al passaggio dalle tradizioni di impronta medioevale a quelle di una moderna città. Bruxelles, allora, era tutto questo: un insieme diversificato e disomogeneo, nello stesso tempo bisognoso di sostegno e ricco di fermenti che richiamavano nei belgi una crescente attenzione [12]. 

Minatori italiani a Marcinelle dopo la tragedia

Minatori italiani a Marcinelle dopo la
tragedia

Le due fasi del percorso d’integrazione degli italiani in Belgio

Negli anni ‘60 e anche nel decennio successivo in Belgio, come del resto negli altri Paesi europei d’immigrazione, si riteneva che gli immigrati fossero intenzionati a rimpatriare con le loro famiglie una volta messi da parte i risparmi ritenuti necessari. Inizialmente ciò corrispondeva effettivamente alla mentalità di molti immigrati, animati dalla speranza di riuscire un giorno a porre fine alla loro permanenza all’estero. Ma questo intento, diffuso ma non da tutti condiviso, anziché essere rafforzato dalla crisi economica e dalla crescente disoccupazione, andò invece indebolendosi. Nello stesso tempo la classe politica belga iniziò a prendere in considerazione le ragioni demografiche che militavano a favore della presenza straniera.

Il noto demografo Francese Alfred Sauvy (1898-1990), su incarico dalle autorità della Vallonia, redasse nel 1960 il rapporto Conditions du développement économique. In esso lo studioso evidenziò la necessità dei flussi migratori dall’estero per ragioni demografiche, incoraggiando la venuta di lavoratori non soli bensì con le loro famiglie, e inserendo nella politica migratoria il fattore demografico unitamente alle motivazioni economiche e occupazionali. Queste argomentazioni favorirono, seppure lentamente e faticosamente, il cambiamento della strategia migratoria belga.

Nella situazione di emarginazione degli anni ‘60 e ‘70 si sviluppò tra gli italiani un dinamico associazionismo, molto attento alle richieste di tutela e al collegamento con l’Italia e in quella fase gli adulti, e cioè i protagonisti dei primi flussi dall’Italia, erano poco consapevoli che il futuro dei loro figli per lo più si sarebbe giocato sul posto. Comunque queste associazioni, attente ai bisogni di tutela, svolsero un’encomiabile azione di sostegno e assicurarono la coesione della collettività con la promozione di molteplici iniziative, autonomamente o con la collaborazione dei Consolati e delle Regioni (dopo la loro istituzione nel 1970) quali i corsi di lingua italiana e professionali e ricorrenti possibilità d’incontro. Un’attenzione del tutto speciale fu dedicata alla tutela previdenziale tramite i patronati. L’attenzione prevalente andava alle rivendicazioni da far valere presso il governo italiano: dalle provvidenze per il rimpatrio all’esercizio del diritto di voto per le elezioni politiche in Italia, concretizzato solo all’inizio degli anni ‘2000 in uno scenario molto cambiato.

A farsi carico di queste molteplici attività furono, tra strutture a carattere nazionale, le Acli, la Filef, la Fernando Santi, l’Unaie, i sindacati, e altre associazioni di categoria operanti nell’ambito del commercio, dell’agricoltura e dell’artigianato, tramite i loro istituti di formazione professionale e la solida rete dei patronati per l’assistenza socio-previdenziale. Questa menzione non può considerarsi esaustiva perché tra le associazioni a carattere nazionale vi erano anche quelle degli ex partigiani, degli alpini e altre, così come erano attivi anche i grandi partiti politici tramite le sezioni costituite all’estero. Una menzione speciale meritano anche le Missioni Cattoliche Italiane, che seppero comporre la loro opera sul piano religioso con l’impegno di promozione umana, attraverso molteplici attività.

L’italianità era per tutti il comune denominatore, come anche, in generale, l’orizzonte di primario riferimento restava l’Italia. Questa intensa attività socio-culturale-politica tra gli italiani in Belgio, come negli altri Paesi che avevano accolto gli italiani, fu essenziale per la preparazione della Conferenza Nazionale dell’Emigrazione, svoltasi a Roma nel 1975 [13], anch’essa scarsamente consapevole che il futuro degli italiani emigrati andava sempre più gravitando sui Paesi d’accoglienza.

In quel periodo l’associativismo era svolto, pressoché in esclusiva, dai pionieri dell’emigrazione arrivati dall’Italia, mentre quello delle seconde generazioni restava ancora in ombra. I giovani italiani, nati sul posto, o arrivati in Belgio da piccoli, pur insoddisfatti per diversi motivi, si sentivano legati al Belgio e a differenza delle prime generazioni, erano portati a collocare il loro futuro in questo Paese, non coinvolgendo in questo cambio di prospettive i loro genitori.

Come prima accennato, anche il Belgio iniziò a capire che alla loro crescente tendenza alla permanenza rispondeva, a livello strutturale, la consapevolezza che per diversi settori e particolari mansioni (di scarso interesse per gli autoctoni) i lavoratori stranieri risultavano sempre più necessari. Militavano, del resto, a favore degli immigrati le ragioni demografiche. In questa fase andò affermandosi il protagonismo delle seconde generazioni, più a loro agio con lingua francese (e anche fiamminga) che con l’italiano, avendo fruito della scolarizzazione in loco e avendo qui dato inizio alla loro vita lavorativa, oltre ad aver costruito una rete amicale non solo tra i connazionali. Il Belgio era il loro futuro, da liberare comunque dalle strettoie esistenti per i giovani di origine straniera, senza peraltro perdere l’attenzione alla terra dei loro genitori, apprezzata per diversi suoi aspetti (paesaggio, cibo, cultura, arte) e anche per la sua crescente affermazione internazionale: insomma, un Paese di origine di cui non vergognarsi, anche facendo la scelta di vivere in Belgio 14].

In loro l’attaccamento all’Italia non era d’ostacolo al fatto di sentirsi pienamente inseriti in Belgio, al cui sviluppo stavano dando il loro contributo. Ciò li portava a richiedere di essere pienamente riconosciuti, seppure di diversa origine nazionale e culturale, come “nuovi cittadini”, senza considerare ostativo il mancato possesso della cittadinanza belga. Nasceva, così, una certa divaricazione tra gli interessi dei genitori e quelli dei giovani di seconda generazione, non attardati sulla nostalgia e concentrati sul loro futuro in una terra che non consideravano straniera, pur non avendo al momento la cittadinanza, regolata da una normativa ritenuta eccessivamente rigida.

Questa linea rivendicativa non poteva essere portata avanti da tutti i giovani italiani. Ma dalla parte, tra di essi, che si sentiva pronta a questa sfida. In effetti, il grande divario formativo, che pregiudicava l’affermazione di questi giovani, dipendeva dall’alto tasso di dispersione e di ritardo negli studi, come anche dalla frequenza degli indirizzi scolastici meno qualificanti, che raramente sfociavano nell’università e consentivano lo svolgimento di lavori qualificati. Questo sistema scolastico penalizzante fu definito “la fabbrica dei paria” in un documento del 1975 redatto dal Casi-UO di Bruxelles (Centro di animazione sociale italiana – Università Operaia).

Comunque, iniziò a essere ricorrente il dibattito sulla condizione dei figli degli immigrati (italiani o di altre nazionalità, marocchina e turca in particolare) e sulle riforme da adottare a loro favore, lasciando cadere finalmente la prospettiva della temporaneità fatta valere per i loro genitori. I politici belgi, per evitare la formazione di una società parcellizzata in vaste aree di emarginazione, fecero propria la posizione dei figli degli immigrati che si consideravano “nuovi cittadini”. Il 1980 fu l’anno di un decisivo spartiacque perché vennero approvate delle riforme importanti: il voto a livello comunale e provinciale, completando l’apertura pionieristica attuata con i Consigli consultivi comunali degli immigrati [15]; l’istituzione dei Centri regionali per l’immigrazione funzionali a promuovere sia la formazione sia i dibattiti; quindi seguì la riforma della legge sulla cittadinanza con l’approvazione della legge Gol nel 1985 [16].

I casi di cittadinanza, registrati nella collettività italiana in applicazione della Legge Gol furono quattro volte superiori a quelli rilevati nel corso del mezzo secolo precedente. Tra il 1985 e il 2000 vi furono per gli italiani altri 68 mila casi di naturalizzazione, che ovviamente per il 90% riguardavano giovani. Di conseguenza, aumentò il numero dei belgi di origine italiana, rispetto agli italiani emigrati personalmente dalla penisola. Nel corso degli anni ‘90, tra i giovani italiani come anche tra quelli delle altre collettività, continuarono le rivendicazioni intese a ottenere il rispetto delle loro origini e l’accettazione di un loro ruolo nella società.

Questo protagonismo ebbe una grande visibilità pubblica quando, nel 2004, gli stranieri poterono esercitare per la prima volta il diritto di voto a livello comunale: in quella tornata elettorale fu consistente la quota degli eletti tra i candidati stranieri [17]. Al posto della temporaneità era ormai subentrato quello di integrazione stabile, in Belgio prima che in altri Paesi europei, e si era più propensi al rispetto della diversità delle origini. Questo dibattito influì anche su una riconsiderazione del ruolo pastorale delle Missioni Cattoliche Italiane, e dei sacerdoti venuti dall’Italia, pur sempre chiamati a occuparsi della vita spirituale degli immigrati italiani, furono sollecitati dall’episcopato belga a collegarsi più strettamente con l’impostazione della pastorale locale.

Gli italiani seppero avvalersi delle nuove aperture socio-giuridiche, al cui conseguimento essi stessi avevano dato un notevole contributo, dando l’avvio alla fase della maturità nel loro processo d’inserimento. Bisogna aggiungere che operò da catalizzatore di questa evoluzione anche la normativa europea sui migranti, di cui la capitale belga da tempo appariva il simbolo come sede delle istituzioni comunitarie europee. 

3Il processo di emancipazione visto dall’interno: testimonianze di alcuni protagonisti 

È opportuno completare questo processo evolutivo, descritto sulla base degli apporti bibliografici, con testimonianze di persone, che furono personalmente protagoniste. La prima testimonianza è di un giovane di seconda generazione, arrivato da piccolo a Bruxelles (Luigi Del Savio), che dopo un difficile inizio ha compiuto con profitto la scolarizzazione terminata con una laurea breve in chimica. Nella sua testimonianza si riscontra l’amore per l’Italia (che lo ha spinto a ritornare, continuandovi il suo lavoro di tecnico), l’apertura al Belgio, la consapevolezza di sé, l’apprezzamento dei coetanei, la certezza di poter riuscire sul posto, rispettando gli altri e facendosi rispettare. Un caso non così diffuso (come non lo era la frequenza universitaria da parte dei figli degli immigrati) ma riscontrabile specialmente a Bruxelles, un’area contenitrice di fermenti che avrebbero favorito la maturazione della collettività italiana. La testimonianza è interessante per lo spaccato di vita che ci offre, un insieme di nostalgie e di soddisfazioni, il tutto in un solido ambiente familiare e parentale.

La seconda testimonianza si riferisce a un italiano, arrivato giovanissimo nella zona mineraria per ricongiungersi al padre (Michele Alaimo) che, dopo gli studi tecnici, ha unito proficuamente l’impegno lavorativo con quello socio-politico, diventando consigliere comunale, assessore e responsabile di un patronato in Belgio dopo aver svolto diversi altri incarichi lavorativi. Il suo punto di vista è diverso rispetto a quello riscontrato nella prima testimonianza, tra l’altro per un particolare non indifferente: la prima viene resa dopo cinquanta anni di reinsediamento in Italia, questa riflette una vita sempre condotta in Belgio.

La terza testimonianza è di un giovane italiano di terza generazione (David Alaimo). Egli, senza problemi per quanto riguarda le due lingue e le due culture, conseguita con successo una laurea in diritto, approfondito con riferimento all’ambito delle associazioni, si sente integrato in Belgio così come si sente in Italia. Questo è un profilo che lo avvicina a una tipologia facilmente riscontrabile tra i soggetti della nuova emigrazione italiana anche se, rispetto ad essi, le sue radici in Belgio sono salde, iniziate a svilupparsi attraverso i genitori,

Tre profili diversi, tutti connotati positivamente: purtroppo, anche se molti casi dell’emigrazione in Belgio non sono ad essi equiparabili, inducono a pensare che una mobilità umana, accortamente assistita a livello familiare e nella società, potrebbe sviluppare in pieno quella carica di ricchezza umana che sempre racchiude. 

Testimonianza di Luigi Del Savio, San Martino di Campagna (Pordenone) 

«Marzo 1954. Trasferimento da San Martino di Campagna a Bruxelles: da un paesino di campagna del Nordest d’Italia, di 1000 abitanti, ad una città del Nord Europa di un milione di abitanti. Dopo un lungo viaggio in treno con la nonna, la mamma e la sorella raggiungiamo il papà, operaio edile, già lì da qualche anno. Per un ragazzino di 9 anni, essere proiettato in un appartamento di una città sconosciuta, con una lingua anch’essa sconosciuta: vuol dire perdere le proprie e sicurezze: i campi, il cortile di casa, gli amici di scuola, ecc.. Non è stato facile. Quante lacrime i primi giorni, prigioniero delle quattro mura di casa! Quanta nostalgia e voglia di tornare indietro!
Ma poi, pian piano. si scopre un nuovo mondo, nuove realtà, altri modi di vivere e tutto passa. Ricominci la scuola con l’handicap della lingua che ti fa perdere due anni. Nuovi amici, nuovi ambienti. Scopri anche che in quella città ci sono altri sanmartinesi, che negli anni sessanta arriveranno a formare una comunità di circa 250 persone grazie ad un paesano che svolge sul posto l’attività d’impresario edile e riesce a chiamare e sistemare altri paesani, offrendo un lavoro e dando loro una prima assistenza.
Poi, dopo un po’, conoscendo altre realtà, ognuno prendeva la propria strada per essere sostituito da altri, e così via, contribuendo a costituire una comunità così numerosa di sanmartinesi. Molti dei quali intrapresero a loro volta un’attività autonoma nel settore edile. Non potevamo ancora permetterci l’automobile e quindi il rientro al paese, per le vacanze estive o invernali, si faceva in treno; e quando si veniva a sapere che qualcuno partiva, c’era un passaparola…e molti si recavano in stazione per dare una lettera o un saluto da portare ai parenti in paese. Poi arrivò un maggior benessere e con il possesso dell’automobile questa usanza finì.
Ogni tanto rivedo ancora quelle scene, quei saluti così intensi. Che bei ricordi! Questi emigranti spedivano i loro risparmi in Italia, tramite il Banco di Roma, o li portavano personalmente in un involucro di stoffa cucito sulla canottiera. Servivano soprattutto per sistemare la casa in paese, dove avrebbero vissuto in pensione. Queste rimesse, assieme a quelle di molti altri san martinesi emigrati in varie località del Belgio, in particolare a Liegi, ma anche a Milano, Venezia, Trieste, ecc contribuirono a creare un certo benessere in paese al punto che vi nacquero diverse imprese edili, simbolo di sviluppo e di lavoro.                           
Nel frattempo la vita continuava: le elementari, il liceo, l’istituto tecnico, l’università di Lovanio, il primo lavoro nell’industria farmaceutica, l’incontro con la futura consorte e, infine, il rientro al paesello nel luglio del 1973. Sono stati 19 anni vissuti intensamente e serenamente. svolgendo attività sociali e culturali, oltre lo studio e il lavoro, sia nell’ambito della comunità italiana che quella belga.    
Un ricordo particolarmente bello è il conseguimento della licenza elementare italiana grazie alla possibilità di seguire, per qualche anno e per due pomeriggi alla settimana, la scuola di Italiano presso il Consolato, il quale metteva a disposizione, per chi voleva, un pullman per il trasporto degli alunni. Fu una parentesi molto ricca di apprendimento della cultura italiana. Fu come un “cordone ombelicale” con l’Italia. Non mi sono mai sentito un estraneo o emarginato per la mia nazionalità. Rapporti erano cordiali e di reciproco rispetto con i vicini di casa, i negozianti dove si faceva regolarmente la spesa, ecc,… con tutti. Basta pensare che appena ebbi terminato gli studi, un consigliere comunale mi procurò un posto di lavoro presso il laboratorio di analisi dell’ospedale locale dove, fino ad allora, venivano assunti soltanto laureati belgi. E che dire delle amicizie con i coetanei! Tante e belle al punto che diversi vennero a trovarmi in Italia una volta rientrato. Tutto questo mi ha permesso di frequentare con la stessa intensità e la stessa serenità sia la comunità belga che quella italiana.                                          
Certo, ci sono stati anche momenti brutti come per tutti nella vita. ma alla fine sono stati quelli belli a rimanere fissi nella mente; e sono stati tanti. In quella società mi sentivo praticamente come a casa anche se, in un angolino del cuore, c’era sempre il desiderio di una scappatina al paese per rivedere il vecchio cortile, i parenti ed i vecchi amici. Cosa che facevo una o due volte ogni anno almeno negli ultimi tempi perché agli inizi non c’erano i mezzi.         
Ci sarebbero molte altre cose da raccontare, ma credo di poter concludere affermando che la mia esperienza mi ha insegnato che quando c’è rispetto per gli altri e non si cerca di prevaricarli, prima o poi saremmo anche noi rispettati per quello che siamo, potendo così dare e ricevere quella ricchezza di valori che ognuno di noi possiede, anche se non sempre ne siamo coscienti».  

Testimonianza di Michele Alaimo, Saint Nicholas (Liegi) 

«Il mio percorso migratorio iniziò con la partenza di mio padre (siciliano a differenza di mia madre calabrese) nel 1957. Egli aveva deciso di emigrare e di lavorare in miniera con la speranza di un avvenire migliore. Io, con la famiglia, lo seguì tre anni dopo. È d’obbligo ricordare le difficoltà dei nuovi arrivati, sistemati in baraccamenti, senza conoscere la lingua, alle prese con un lavoro non usuale molto duro, comunque remunerato regolarmente e in grado di far vivere la famiglia con un senso di dignità.
Gli italiani si fecero apprezzare per la serietà nel lavoro (prima in miniera e poi anche negli altri settori) e per l’impegno posto nell’educazione dei loro figli. Durante la difficile situazione di quegli anni le associazioni italiane furono d’aiuto per attenuare la nostalgia dell’Italia e affrontare insieme i problemi, Fu di fondamentale importanza anche la solidarietà operaia, praticata coi belgi, i polacchi, i tedeschi e, dal 1964, anche con i turchi e marocchini. L’associazionismo e il solidarismo sono anche la chiave per leggere la mia vita.
Mi considero un italiano di seconda generazione. Ultimati gli studi, ho collaborato come lavoratore autonomo con un’impresa commerciale e, nel tempo, ho svolto attività associativa favore dei connazionali, anche attraverso un’opera di mediazione con le autorità. Dopo l’entrata in vigore della (legge 205 del 1985) mi sono subito reso attivo nei Comitati degli Italiani all’Estero (Comites). A ciò incoraggiato non solo dagli italiani, ho iniziato la militanza nel Partito socialista belga e dal 1993 ho iniziato a operare presso l’Ufficio del Patronato Epasa-Cna di Mons.
Negli anni ‘2000 è iniziata la mia fase politico-amministrativa. Voglio richiamare l’importanza della riforma attuata nel 1998, quando il Belgio ha modificato l’articolo 8 della Costituzione e fu attribuito il diritto di voto ai cittadini europei, in applicazione del Trattato di Maastricht, per le elezioni del 2000 e agli altri immigrati nelle le elezioni successive. Noi italiani abbiamo avuto così la possibilità di essere eletti come consiglieri comunali.
Io stesso sono stato eletto nel 2000 consigliere nel Comune di Saint Nicholas e mi sono adoperato per sei anni nel favorire l’inclusione di tutti in una società aperta al progresso. Questo mio impegno è stato riconosciuto dagli elettori, che alle elezioni del 2006 mi hanno rieletto consigliere, assumendo anche l’incarico di assessore agli affari sociali e economici, mentre il ruolo di sindaco rimane riservato ai cittadini belgi. Naturalmente svolgo la mia funzione amministrativa insieme a quella di operatore di patronato, ancora tanto utile per la tutela dei diritti sociali dei miei connazionali.
Concludo auspicando che tutti i Paesi firmatari del Trattato di Maastricht applichino quanto previsto dalla direttiva specifica, rendendo così ogni cittadino, residente nell’Unione Europea, parte attiva e vitale dello sviluppo sociale, culturale ed economico della comunità nella quale ha deciso di vivere. Non posso non essere in sintonia con questo saggio, che ritengo innovativo nei contenuti e nelle prospettive riguardanti la collettività italiana, una presenza ancora attuale per i numeri, le tipologie e le aspirazioni, soprattutto dei giovani». 

Testimonianza di David Alaimo, Saint Nicholas (Liegi) 

«Sono nato il 1° Gennaio 1979 a Liegi. Sono il figlio di Michele Alaimo e Marina Antrilli. I miei genitori sono emigrati di seconda generazione. All’età di sei anni, i miei decisero di mettere in opera il sogno trasmesso dai loro padri: tornare in Italia, in Abruzzo (regione originaria della mamma). Ho dunque trascorso alcuni anni della mia infanzia in un paesino d’Abruzzo, nel quale ho effettuato i miei primi quattro anni di elementare. Nonostante fossimo perfettamente integrati, le radici poste in quel paese si rivelarono più profonde del previsto e i miei genitori decisero di ritornare nel Paese di accoglienza.
Ho proseguito il mio percorso scolastico alle scuole elementari di Saint Nicolas e al liceo classico nello stesso comune. A 22 anni, appassionato di commercio e di economia, mi sono laureato in giurisprudenza con una menzione in diritto delle piccole e medie imprese. L’anno dopo mi sono specializzato in diritto delle assicurazioni.
Dopo i miei studi, ho cominciato a lavorare al patronato EPASA CNA e parallelamente ho sviluppato da libero professionista uno studio di assicurazioni. Pur essendo perfettamente integrato in Belgio, è rimasta in me una sorta di nostalgia, di fascinazione e di amore per il paese delle mie origini. Ogni tanto ci torno anche grazie ai tanti momenti formativi offerti dal patronato ed è sempre una scoperta nuova di luoghi e persone.
Si dibatte spesso sul concetto di italianità. Io mi sento allo stesso tempo italiano e belga senza conflitti. Da ognuna di queste culture ho appreso che il senso di appartenenza non è legato ad una parola, ma alla cultura espressa. In me questa duplicità non è fonte di contrasto, ma è arricchimento ed equivale alla consapevolezza che ci si può integrare senza drammi, solo che ci sia volontà di andare verso l’altro e viceversa».  

La collettività degli italiani in Belgio negli anni ‘2000 

Il Belgio è stato prima presentato come un Paese segnato dalle diversità linguistiche, culturali, religiose e dalla complessità istituzionale. Si è anche visto che la sua tradizionale vocazione industriale ha lasciato il passo a un crescente impegno nel settore terziario. In questo Paese, alla fine del secondo decennio degli anni ‘2000, gli immigrati, sono quasi 1 milione e 400 mila e incidono per il 12% sui residenti. Essi hanno ulteriormente accentuato tale complessità: ciò poteva essere di pregiudizio al loro inserimento, mentre così non è stato, perché, già a partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso, le problematiche interne non hanno impedito di affrontare con una maggiore apertura la situazione dei cittadini stranieri residenti.

I dati dell’Anagrafe degli Italiani residenti all’Estero (AIRE) attestano l’inserimento stabile in Belgio, all’inizio del 2019, di 271.919 cittadini italiani (per il 47,9% donne), che costituiscono la terza collettività per numerosità, dopo quella marocchina e quella francese. La capitale, sede non solo delle istituzioni della UE ma anche del quartiere generale della NATO e di diverse rappresentanze europee e internazionali, a livello imprenditoriale, sindacale e associativo, è diventata un centro importante dove convergono funzionari, giornalisti, lobbisti, liberi professionisti, rappresentanti di associazioni e di organizzazioni non governative, stagisti e altre figure che ruotano attorno al terziario avanzato [18].

Vive ufficialmente a Bruxelles poco più di un decimo dell’intera collettività italiana in Belgio, ma si stima che a soggiornarvi siano molti di più quelli ufficialmente registrati: originari per il 21,2% dal Nord, per l’8,8% dal Centro, per il 28,5% dalle regioni meridionali e per ben il 42,4% dalla Sicilia e dalla Sardegna. Il 48.6% (contro una media del 51,54% tra gli oltre 5 milioni iscritti all’AIRE) è registrato a seguito di espatrio e il 36,1% (contro una media del 39,7%) per nascita all’estero, mentre i casi di acquisizione di cittadinanza sono appena lo 0,8% (contro una media del 3,4%).

La collettività italiana è soggetta a un accentuato processo di invecchiamento: i minori incidono solo per l’11,4% (rispetto al valore medio dell’AIRE del 15,2%) e quelli con 65 o più anni per il 22,6% (rispetto al valore medio del 20,2%). Nel corso del 2018 si sono iscritti agli uffici AIRE nel Belgio 5.106 italiani, per il 48,1% donne e il 46% minore; ciò porta a ritenere che si sia trattato in larga misura di flussi a carattere familiare. Il numero dei nuovi iscritti, rapportato alla ridotta consistenza della popolazione residente in Belgio (circa di 12 milioni), accreditano la metà belga come fortemente attrattiva, anche in misura superiore al Regno Unito e alla stessa Germania.

Antonio Rubattu nel libro dedicato alla storia delle Acli in Belgio, ha lamentato la scarsa conoscenza delle sofferenze incontrate dagli italiani nel loro percorso di inserimento. Si è trattato di «una vicenda importante per la formazione della nostra cultura e un pezzo importante della storia europea. Perché l’emigrazione italiana, più di altre è stata un movimento di massa, ha rappresentato un’orda di bisogni invasivi, che si è sparsa in tutto il mondo contribuendo a trasformarlo»[19]. Sui benefici strutturali assicurati al Belgio, prima in preponderanza per l’apporto dato dagli italiani e poi anche da altre collettività, si è riferito prima. Qui è opportuno soffermarsi ora sui frutti derivati da questo enorme investimento di capitale umano, da considerare ragguardevole anche se confrontato con Paesi come la Francia, Svizzera, Germania e Regno Unito.

Anche la collettività italiana in Belgio è sempre più caratterizzata dall’arrivo dei protagonisti delle cosiddette “nuove emigrazioni”, con un’eccessiva enfasi, “fuga dei cervelli”, “esodo dei talenti” e simili, salvo restando che, in buona parte, si tratta di laureati e anche dottorati. Questi nuovi flussi si dirigono in prevalenza a Bruxelles, città dal terziario avanzato, centro politico europeo e sede di altri organismi come la Nato, di numerose rappresentanze professionali, di Ong anche in campo religioso e di multinazionali.     

I nuovi flussi migratori meritano di essere analizzati nella complessità dei loro aspetti, che tuttavia non costituiscono l’oggetto di questa ricerca, ma sono numerose le pubblicazioni specifiche curate dal Centro studi e ricerche Idos o da altri organismi [20]. Di seguito, dopo un paragrafo dedicato ai livelli di affermazione dei precedenti flussi migratori, prenderemo in esame due specifici aspetti: l’attuale configurazione dei movimenti migratori, la loro configurazione come flussi di “libera circolazione” e lo specifico segmento che ha come terminale le istituzioni europee. 

41qgbbhasl-_sx327_bo1204203200_L’inserimento degli italiani in Belgio: dai casi di spicco all’integrazione diffusa 

Stefano Tricoli, a conclusione di un suo saggio del 2005, ha scritto: «Dopo più di mezzo secolo di presenza in Belgio gli italiani sono considerati oggi con grande rispetto» e sono ragguardevoli i livelli d’inserimento raggiunti, anche l’integrazione è un processo sempre in fieri. Il prestigio degli incarichi in Belgio di alcuni membri della collettività non ha l’uguale in nessun altro Paese europeo.

Il più importante segno di affermazione deve essere considerato quello di Elio Di Rupo, che è stato ministro, Vice-primo ministro, primo ministro (2011-2014) e, a lungo, presidente del Partito socialista, facendosi molto apprezzare per le sue doti di mediatore tra fiamminghi e valloni e tra conservatori e progressisti. In nessun altro Paese europeo un cittadino di origine italiana è diventato, nel dopoguerra, responsabile del governo nazionale: per giunta Di Rupo si affermò politicamente quando le seconde generazioni italiane ancora stentavano a percorrere la via del del protagonismo [21].

Un’altra affermazione a livello politico è stata quella di Maria Arena che, dopo essere stata eletta nella Comunità Vallona ed essere diventata Ministro presidente della Commenta Francese, è stata eletta nella Camera dei rappresentanti e al Senato, svolgendo importanti incarichi ministeriali.

Il cantautore Salvatore Adamo si propone invece, come un caso di precoce ed eccezionale affermazione nel campo musicale, per giunta già quando la collettività italiana ancora era alle prese con una situazione problematica [22]. Salvatore, arrivato a quattro anni a Mons con il padre, emigrato nel 1947 per fare il muratore, partecipò giovanissimo a un concorso radiofonico e con la sua canzone vinse il primo premio, consegnatogli a Parigi. Gli anni ‘60 furono un decennio di grandi soddisfazioni: Dolce Parola è stata la canzone da lui dedicata alla principessa italiana Paola Ruffo di Calabria, poi diventata regina del Belgio dal 1993 al 2013 come consorte di re Alberto II. La famosa canzone La nuit è del 1965. Diverse sue canzoni restarono ai primi posti per settimane non solo in Belgio ma anche in Francia. Il suo estro musicale seppe rielaborare stimoli tratti dall’esperienza migratoria della sua collettività. Nelle canzoni riecheggia l’esperienza sua, dei suoi familiari e degli altri espatriati dalla sua isola. Secondo Vinicio Capossela, cantautore italiano in Germania, le canzoni di Adamo sono state, negli anni ‘‘60, la colonna sonora di tutta l’emigrazione italiana. La fase ascendente di questo cantautore continuò, facendone un portavoce della musica francofona nel mondo e un personaggio insignito di numerose onorificenze. Il Festival di Sanremo lo invitò a partecipare nel 1976, mentre nel 2018 ricevette anche il premio Tenco per la diffusione all’estero della cultura musicale italiana, da lui mediata con la tradizione francofona. È incluso anche lui nella classifica dei cento cantanti che nel mondo hanno venduto 100 milioni di dischi e questo dà la misura della sua affermazione, qui richiamata non per il frastuono del successo ma per il fatto che questo non lo ha portato a dimenticare la sua origine e i sacrifici dei genitori.

Salvatore Adamo

Salvatore Adamo

Nel 2011 Adamo ha scritto di getto un romanzo di impronta autobiografica, pubblicato in Italia quattro anni dopo. Il protagonista del romanzo è Julien, un italiano di 30 anni. Il titolo dell’edizione italiana (La notte…L’attesa) ricorda le due fasi dell’esperienza migratoria in Belgio. Innanzi tutto la fase del duro inserimento in un nuovo ambiente, dove la polvere di carbone sembra aver coperto tutto, suscitando la nostalgia del sole della Sicilia in contrasto con gli ambienti fumosi caratterizzati dal carbone e dalle brume. L’attesa è la fase del riscatto. Adamo, uomo di successo, non manca di identificarsi con Julien, alle prese con i problemi occupazionali e le pene d’amore, problemi comuni di gente comune [23].

Premesso che l’integrazione si sostanzia di un inserimento positivo a tutti i livelli della società, che comporta un apprezzamento della quotidianità anche nei confronti dei semplici immigrati si deve aggiungere che un emigrato famoso, per niente vergognoso del suo passato migratorio, costituisce un caso apprezzabile perché induce a meditare sull’esperienza della mobilità. Si deve però aggiungere che chi ha fatto del Paese estero il centro dei suoi interessi, non deve essere considerato “italiano” con un carattere di esclusività. Nel corso dei campionati europei di calcio del 2021, alla domanda di un giornalista interessato a sapere se avesse tifato per il Belgio o per l’Italia nel confronto diretto tra le due squadre nazionali, Adamo rispose che, pur non rinunciando all’attaccamento all’Italia, avrebbe tifato per il Belgio [24]. Passando dal livello calcistico a quello antropologico, tale risposta induce a rendersi conto che, anche quando l’immigrato rimane cittadino italiano (per la precisione Adamo si è naturalizzato belga solo nel 2010), egli è, di fatto, anche cittadino del Paese che lo ha accolto, il Paese di origine non è autorizzato a monopolizzare i suoi immigrati che hanno deciso di vivere in un altro Paese, la loro esistenza, e viceversa.

 Il romanzo di Adamo fu presentato a Roma, il 2 dicembre 2016 nell’ambito dell’iniziativa “Da Marcinelle a Lampedusa”: Bisogna ricordare che il 2016 fu l’anno di poco meno di 200 mila sbarchi di persone in cerca di asilo o di lavoro in Italia. A organizzare l’evento fu il Comitato del Senato per le questioni degli italiani all’estero, presieduto dal senatore Claudio Micheloni. In tale occasione si evidenziò che la conoscenza delle difficoltà sofferte dagli italiani dovrebbe portare a non chiudersi di fronte a chi chiede di essere accolto[25]. Un’altra annotazione induce a ritenere che l’inserimento della collettività italiana all’estero non si estrinseca solo attraverso i personaggi famosi, né del mondo della politica, dello spettacolo e dello sport, bensì include uomini e donne che vivono la loro vita quotidiana, portando la ricchezza della loro bi-culturalità. I loro casi il più delle volte non sono enfatizzati sui media, ma sono essi a sostanziare il processo d’integrazione.

Ad esempio, a livello sindacale si dovrebbe parlare dei numerosi quadri e dirigenti di origine italiana, che si sono adoperati per la tutela in ambito lavorativo. Un impegno analogo, per quanto riguarda la tutela previdenziale, è stato svolto dagli operatori di patronati, insediati in Belgio dai sindacati o da associazioni professionali italiane di lavoratori autonomi (e tuttora operanti). Tra i numerosi operatori di patronato, va segnalata, per competenza tecnica e dedizione sociale, una figura di spicco: quella di Daniele Rossini (deceduto nel 2004), coordinatore del Patronato ACLI in Belgio. Egli per circa 40 anni si è impegnato, con una sensibilità e una competenza giuridica difficilmente eguagliabile; infatti, nel corso della sua carriera ha difeso presso la Corte di giustizia di Lussemburgo decine di vertenze per fare accettare un’interpretazione della normativa previdenziale belga in maniera più aperta e conforme alla normativa comunitaria. Rossini aveva studiato come insegnante elementare, ma le sue personali doti e la militanza nel sindacato cristiano belga gli avevano consentito di diventare un avvocato abilitato a patrocinare le vertenze, acquisendo sul campo il titolo di avvocato degli immigrati [26].

Un altro caso da segnalare, questa volta a livello socioculturale, è quello di Bruno Ducoli (scomparso nel 2021), un francescano che è andato a operare a Bruxelles, all’inizio degli anni ‘70, come operatore socio-pastorale. Dopo aver costituito a Bruxelles il Centro di Animazione Sociale Italiano – Università Operaia (CASI-UO), egli è riuscito a portare una schiera di giovani a riflettere sulle loro attese e a farle valere. Non a caso Ducoli venne chiamato a dirigere il Centre Bruxellois d’Action Interculturelle, adoperandosi così per favorire l’accettazione di tutte le culture.

Sono solo due esempi tra i tanti che potrebbero essere citati a riprova del proficuo inserimento della collettività italiana nei più diversi settori di un Paese che inizialmente fu tenuta ai margini. Un’analisi attenta del processo d’integrazione in atto è chiamata a soffermarsi sugli italo-belgi che si adoperano in modo encomiabile a livello sociale e culturale, e anche a livello sportivo e dello spettacolo (senza ritenerli esclusivi o più importanti), mostrando in concreto che la collettività è parte viva del Paese d’accoglienza.

Layout 1Conclusioni: gli insegnamenti dell’esperienza belga 

di Gian Luca Lodetti  

L’esperienza migratoria degli italiani in Belgio si può definirsi paradigmatica sia nel suo sviluppo storico che nelle sue modalità e nei suoi effetti. Si tratta di una storia esemplare, nel bene e nel male, che ci fa comprendere l’incidenza di questo fenomeno nella vita dei singoli, in quella delle comunità e delle istituzioni che le governano, siano esse nazionali che internazionali.

Ci sembra utile, a conclusione di questa analisi, soffermarci su alcuni dei fattori portanti di questa esperienza. Innanzitutto, va sottolineato come l’emigrazione italiana in Belgio, come fenomeno di massa, nasca per motivazioni economiche e sociali non molto dissimili da quelle che portarono gli Italiani in altri Paesi del mondo, così come porta oggi molti migranti attuali, a varcare oceani e deserti: per l’Italia si trattava del convergere dell’interesse nazionale a ridurre la disoccupazione e la pressione sul sistema economico e sociale, con le necessità individuali di uscire da una povertà endemica da parte di una popolazione prevalentemente agricola, senza alternative di sostentamento. Una convergenza che si realizzò in tutte e due i periodi post bellici del Novecento e che, nel caso del secondo, garantì al nostro Paese lo sviluppo industriale e il boom economico.

Per il Belgio le motivazioni erano chiaramente legate al suo modello industriale (allora quasi completamente orientato sull’industria pesante) e alla necessità di manodopera a basso costo, connessa alla difficoltà di impiegare personale belga nell’attività estrattiva. Il vantaggio economico che ne derivava era rilevantissimo – questa nazione fu, per quasi un secolo, il motore energetico dell’Europa – ma il prezzo, per molti, era enorme mentre l’importante valore dell’emigrazione in termini sociali non era per nulla percepito.

Lo sfruttamento a cui furono sottoposti i lavoratori che decisero di emigrare in questo periodo fu infatti brutale e sistematico. Il fatto che fosse perpetrato su persone spesso inconsapevoli di ciò a cui andavano incontro – il lavoro in miniera a centinaia di metri sotto terra e la vita in baracche fredde e umide collocate in campi “di prigionia” – lo rese ancora più odioso e disumano. Anche socialmente l’immigrato italiano, “Rital” come era dispregiativamente chiamato, era per lo più disprezzato e ingiuriato. La miniera era un luogo di appestati, un luogo di morte e malattia di cui la società belga non si occupava.

La politica del governo belga sul fronte immigratorio per anni fu caratterizzata, oltre che dal duro sfruttamento della manodopera, anche dalla considerazione che doveva trattarsi di un fenomeno prettamente transitorio, senza appigli alla società locale, senza possibilità di integrazione. Per questo gli immigrati erano prevalentemente maschi a cui venivano assegnati alloggi in baracche al di fuori dai centri abitati oppure in enclave separate senza contatto con il resto della società.

Considerando il periodo che va dal secondo dopoguerra fino almeno agli anni ’70, il distacco degli immigrati italiani dalla società belga era totale; la loro distanza era culturale, economica e financo fisica. Le uniche possibilità di emancipazione nascevano all’interno stesso delle loro comunità, nelle realtà associative, nell’azione delle chiese o nelle realtà di mutuo soccorso o caritatevoli.

Per legare questa situazione all’attualità dei nostri tempi, dobbiamo chiederci quando e come tutto questo sia mutato. Quando si può dire che il Belgio, da una nazione con una politica migratoria arretrata e di sfruttamento disumano, si sia trasformata, pur con dei limiti e delle approssimazioni, in un esempio positivo di apertura e accoglienza quale oggi è e rimane?

Il saggio di Pittau ha il grande merito di soffermarsi proprio su questi passaggi, su questo cambio di marcia avvenuto progressivamente nel corso degli anni ‘80 e avviato a compimento tra gli anni ‘90 e gli anni 2000. Un cambio di marcia che è ancora lontano dal verificarsi in tantissimi Paesi dell’Unione europea, compresa l’Italia e per questo, ancor più significativo, pur con le sue luci e ombre. É probabilmente il periodo di crisi, dato dalla progressiva chiusura delle miniere, già a partire dalla fine degli anni ‘60 e proseguito per un ventennio, a dettare l’agenda del cambiamento, sia nell’atteggiamento dei migranti che nelle politiche del governo belga.

I lavoratori trovano lavoro in altri settori lavorativi, dall’edilizia alla ristorazione, dalla meccanica, alla siderurgia. Gli emigranti, lasciando le baracche, vanno ad abitare nei paesi e nelle città, acquistando, con i risparmi di una vita passata in miniera, piccole case che si integrano nel tessuto urbano, molto spesso con un giardino, dove impiantare un piccolo orto. I figli iniziano a studiare (anche se, per molti anni, solo nelle scuole professionali), apprendono la lingua e iniziano a togliersi di dosso il complesso del Rital, pur vivendo ancora in un clima divisivo.

Peraltro, la sfavorevole evoluzione della struttura demografica in Belgio, un Paese per molti anni in declino da questo punto di vista, rende il bisogno immigratorio comunque permanente. Un passaggio, questo, che oltre a conciliarsi con un mutamento nei progetti di vita dei migranti, implica una trasformazione nelle politiche immigratorie e negli stessi meccanismi del reclutamento. Un esempio è quello della apertura ai ricongiungimenti familiari e al lavoro femminile per cui le donne iniziano ad entrare nel mercato del lavoro per sorreggere il peso familiare.

Quando la politica comprende quanto sia importante e ineluttabile il passaggio dalla transitorietà alla stanzialità dell’emigrazione e ne coglie anche il significato positivo, il Belgio inizia a marciare verso il futuro e non vengono più messe in campo, da parte delle istituzioni, azioni discriminatorie e di ghettizzazione. Le seconde generazioni superano i complessi delle prime, comprendendo la potenzialità della propria “doppia appartenenza” e iniziano a fornire un contributo fattivo e fondamentale alla rigenerazione culturale, sociale e politica del Paese, pur restando orgogliosi delle proprie origini.

É di fondamentale importanza che i nostri emigrati, soprattutto nel momento della difficile riconversione industriale, partecipino attivamente alla vita dei corpi intermedi, delle associazioni (già attive da anni) ma in particolare del sindacato belga – soprattutto di quello cristiano ma poi anche di quello di estrazione socialista – di cui andranno a costituire un pilastro fondamentale e a cui si deve una grande lungimiranza nelle proprie politiche organizzative. I Sindacati belgi si accordano con le strutture di Patronato (le ACLI, l’INAS CISL, l’INCA CGIL, e da ultimo l’ITAL UIL) per fornire servizi agli italiani, favorendo il diffondersi di una cultura dei diritti che si fa quindi strada non solo per i lavoratori belgi, anch’essi vittime della crisi, ma anche per i migranti. Per anni la società civile, nell’alleanza tra associazionismo e sindacalismo italiano e belga supplisce alle carenze delle Istituzioni.

Il grande protagonismo e la mobilitazione delle forze sociali, le lotte sindacali in questo periodo sono durissime, spingono la politica e i governi che si susseguono, a cogliere le istanze di cambiamento presenti nell’emigrazione e nella società e a indirizzarle, con un grande sforzo di mediazione e dialogo, verso nuove politiche per l’immigrazione, più inclusive e più aperte verso gli scenari futuri che culminano nel riconoscimento del diritto di voto amministrativo per gli immigrati regolarmente residenti.

Quanto detto ci rafforza nell’idea che, in molti casi, i processi migratori, quando opportunamente guidati e gestiti, costituiscono un’opportunità unica per il Paese di approdo (spesso in sofferenza dal punto di vista demografico ed economico). Quanto più si attivano processi inclusivi e di integrazione, nel pieno rispetto delle differenze, tanto più la società si arricchisce di nuova linfa, l’economia si rigenera in senso positivo, le istituzioni e i corpi intermedi acquisiscono nuova forza e dinamicità. Nel migrante si fa largo la consapevolezza del proprio potenziale umano, professionale, economico e sociale che travasa nell’azione individuale e collettiva. Il sentirsi parte di un corpo sociale unico anche se plurimo, costituisce per lui uno stimolo formidabile ad attivare le proprie potenzialità a favore del contesto sociale in cui vive.

Il Belgio, come detto, costituisce un buon esempio di evoluzione da un modello di sfruttamento prevalentemente unidirezionale dell’emigrazione ad un modello partecipativo ed inclusivo. Valutando il punto di partenza, i risultati sono stati rilevanti. Ma pur avendo fatto grandi passi in avanti, non si può dire che tutti gli obiettivi siano stati raggiunti. Come in molti Paesi occidentali e non solo, anche in Belgio si sono sviluppate tendenze politiche che tendono a riportare indietro l’orologio della storia: il populismo, nuove forme di nazionalismo, il sovranismo, forze politiche e movimenti ideologici che identificano nell’immigrazione un male a prescindere, nel diverso un avversario da combattere e nella chiusura delle frontiere l’unica via percorribile.

Il ruolo della Comunità Europea e poi dell’Unione Europea, in questo senso, è stato ed è fondamentale. Queste Istituzioni sono state tra i motori della trasformazione delle società verso un modello inclusivo e di integrazione, con il consolidamento del diritto alla libera circolazione (una delle quattro libertà fondamentali dei trattati di Roma); hanno promosso l’affermazione, in tutto il Continente, di una cultura della “cittadinanza europea” ed oggi costituiscono un potente argine all’affermarsi di politiche retrograde e dannose, contrarie a questa cultura e alle politiche inclusive di cui sopra.

I risultati apportati dalla mobilità umana, nella maggior parte dei casi, se seguiti al mutuo riconoscimento del valore dello scambio perpetrato – non più braccia contro carbone, come nel ‘46 ma scambio di capacità, e di umanità, a fronte di una comune crescita sociale – sono fondamentali per lo sviluppo dell’intero pianeta.

Nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite ritroviamo le tracce di questa nostra storia, così come le modalità con le quali affrontare le problematiche ad essa connesse, all’interno di alcuni dei 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile: la necessità di un lavoro dignitoso che superi le condizioni di povertà e emarginazione; il riconoscimento dei diritti che mirino al benessere dei singoli e delle comunità e l’attivazione di servizi di assistenza adeguati per rendere effettivo tale riconoscimento; la promozione di politiche formative aperte, continue e universali; il sostegno a politiche per l’uguaglianza di genere; la promozione di politiche alloggiative inclusive; il diritto all’apprendimento della lingua e della cultura del Paese di arrivo e al mantenimento della lingua e della cultura di origine; la promozione della partecipazione alla vita politica e sociale del Paese di approdo.

In conclusione, speriamo che queste brevi riflessioni, insieme all’articolata analisi storica e sociale dell’emigrazione italiana in Belgio svolta in questo saggio, possano essere di aiuto e monito a chi, nei governi, è tenuto a promuovere anche questi obiettivi da qui al 2030.

Tutto questo nella consapevolezza che, ancora una volta, la storia della nostra emigrazione – in questo caso quella relativa al Belgio – ci possa insegnare moltissimo, guidandoci nell’analisi, facendoci riflettere sulle problematiche presenti in tutte le vicende migratorie, fornendoci ancora oggi le chiavi di lettura per orientarci e definire politiche e strategie che le governino adeguatamente. 

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022 
[*] Un ringraziamento a Giuseppe Bea per la collaborazione prestata nel raccogliere le testimonianze e ad Antonio Cortese e Maria Pia Borsci per la documentazione statistica, nonché a Gianluca Lodetti per aver scritto le Conclusioni.
Note
[1] Cfr., Caritas Italiana, Immigrati e partecipazione. Dalle consulte e dai consiglieri aggiunti al diritto di voto, Edizioni Idos, Roma, 2005.
[2] Questi aspetti sono stati trattati in un volume dedicato al 60° Anniversario della firma di quel trattato: cfr. Idos, Istituto di Studi Politici S. Pio V, a cura di Coccia B. e Pittau F., La dimensione sociale del Trattato di Roma, Edizioni Idos, Roma, 2017. Preso atto di questi sviluppi positivi a favore dei cittadini comunitari, sarebbe però una lacuna non evidenziare che le autorità comunitarie versano in uno stato di grave difficoltà nell’adozione di una normativa riguardante e i migranti non comunitari.
[3] Sulle vicende politiche del dopoguerra è molto dettagliata la voce “Belgio” dell’Enciclopedia Treccani. Sugli aspetti religiosi con contributi di storici belgi e olandesi, cfr.: Vaccaro L. (a cura), Storia religiosa di Belgio, Olanda e Lussemburgo, Centro Ambrosiano, Milano, 2000.
[4] Ganci E. Sguardo sull’emigrazione Italiana in Belgio, http://www.rifondazione.be/aurora/num34/A3421.pdf.
[5] Morelli A., Fascismo e antifascismo nell’emigrazione italiana in Belgio (1922-1940), Roma, Bonacci, 1987. Cfr, a carattere generale, Bezza B. (a cura), Gli italiani fuori d’Italia. Gli emigrati italiani nei movimenti operai dei paesi di adozione (1880-1940), Angeli, Milano, 1983. Cfr. on line: Denzel C. F.,, “Fuoriuscitismo dal 1922 al 1940”, in Journal of Central European Affairs (Colorado), il 1 aprile 1952 (vol. XII, n. 1,, consultabile in, https://www.reteparri.it/wp-content/uploads/ic/RAV0068570_1953_22-27_21.pdf.; Si presenta come un’accurata bibliografia ragionata della materia Emigrazione italiana e antifascismo in esilio” 
https://dspace.unitus.it/bitstream/2067/703/1/emigrazione_antifascismo.pdf.
[6] Dati ripresi da R. André, «Les étrangers en Belgique d’après les recensements, INS 19991 e riportati nell’articolo di Bruno Ducoli, pubblicato sul Rapporto Italiani nel Mondo 2009. 
[7] Solo in un secondo tempo le baracche vennero poi sostituite da edifici in muratura, le cantines, adibite a dormitorio e mensa.
[8]. Cfr. anche Tricoli S., “Marcinelle 1956/2006: Cronaca di una tragedia, Inca-Cgil Belgio, in Https://Www.Inca-Cgil.Be/Documentazione/.
[9] Citazione fatta da Bruno Ducoli nel suo articolo.
[10] Santocono G., Rue des Italiens Esa, Edizioni Gorée, 2006 (ed. bulgar. Mons, Editions du Cerisier, 1986). Il libro fu tradotto in Italia con 20 anni di ritardo, quando quel tipo di emigrazione aveva lasciato il posto alla nuova immigrazione di persone che partivano con una laurea: un indicatore della diminuzione dell’interesse alle vicende della prima emigrazione del dopoguerra e della situazione che si era determinata per quella collettività.
[11] Di questa catena migratoria parla anche Luigi Del Savio nella sua testimonianza di seguito riportata.
[12] Va anche ricordato che il prestigioso istituto pastorale internazionale di formazione “Lumen Vitae” di Bruxelles, nell’anno accademico 1971-1972, diede l’incarico di tenere il suo primo corso sulle migrazioni a due italiani, Bruno Ducoli e Franco Pittau, e che a quest’ultimo fu anche chiesto di scrivere sul dibattito in corso: Pittau F. “Antropologie des migrants”, Lumen Vitae, n.4, 1973: 527-553. Inoltre, come accennato in precedenza, negli anni ’70 l’interessamento del Partito socialista e del sindacato FGTB divennero più concreti. 
[13] All’evento dedicò uno dei suoi quaderni la rivista Affari sociali Internazionali, pubblicato da Franco Angeli.
[14] Sui nuovi modelli d’inserimento dei giovani italiani si è soffermato, basandosi anche sui risultati di un’indagine sociologica, Perrin N., Poulan M., Italiens de Belgique. Analyses socio-démographiques et analyses d’appartenances, Bruylant-Academia, Louvain-la-Neuve, 2002. 
[15] La previsione di Consigli comunali consultivi fu un’espressione concreta della necessità di offrire uno sbocco partecipativo agli immigrati, da non considerare più perennemente persone sul piede di partenza.
[16] Sarebbe seguita anche un’altra importante innovazione nell’ambito della multireligiosità: nel 1998 il Belgio si dotò di una istituzione eletta da tutti i musulmani per gestire gli affari concernenti il culto islamico
[17] Ciò si riscontra specialmente a Bruxelles per i candidati marocchini e turchi.
[18] Perrin N., Poulin M., Les caractéristiques socio-démographiques de la population d’origine italienne de Bruxelles”, in Studi Emigrazione, 2005, n. 160: 894 ss. 
[19]Rubattu A., prefazione di Ottati M., La Baracca. 50 anni di Acli Belgio, Bruxelles, Edizioni Acli Belgio, 2005. Cfr. anche: Per un sacco di carbone, Franciosi L. (a cura di), Edizioni ACLI Belgio, Bruxelles.
[20] Cfr. ad esempio due recenti pubblicazioni del Centro studi e ricerche Idos unitamente all’Istituto di studi politici “S. Pio V”: Coccia B, Pittau F. (a cura), Le migrazioni qualificate in Italia, Ricerche statistiche, prospettive, Edizioni Idos, Roma, 2015; Coccia B., Ricci A. (a cura), L’Europa dei talenti. Migrazioni qualificate dentro e fuori l’Europa, Edizioni Idos, Roma, 2019. 
[21] Si può consultare l’ampia voce dedicata a Elio Di Rupo nella Enciclopedia Treccani. Sono diverse le biografie apparse in lingua francese e anche in fiammingo. É significativo il titolo di un articolo apparso su Le Sorid del 17 aprile 1999: Elio Di Rupo : une vie qui file à cent noeuds”. Così come è intrigante il titolo di un suo saggio: Elio Di Rupo, Le progrès partagé, Éditions Luc Pire, Bruxelles, 2003.  
[22] Su altri casi di italo-belgi cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Categoria:Italiani_emigrati_in_Belgio.
[23] Adamo S., La notte… l’attesa, Roma, Fazi, 2015: 31 (edizione originale Le souvenir du bonheur est encore du bonheur, Paris, Éditions Albin Michel, 2001).
[24] La Sicilia, 1° luglio 2021, https://www.lasicilia.it/sport/news/il_cantante_siculo-belga_salvatore_adamo_scusa_italia_ma_tifo_belgio_-1263164/
[25] Cfr. l’accurato servizio sull’evento fatto da Viviana Pansa in https://comunicazioneinform.it/la-presentazione-del-libro-di-salvatore-adamo-la-notte-lattesa-nellambito-delliniziativa-migrazioni-da-marcinelle-a-lampedusa/
[26] Pur avendo conseguito il titolo accademico, Rossini fu ammesso dalla Corte di giustizia a patrocinare le cause perché questa sua funzione, come dirigente sindacale, gli era riconosciuta dall’ordinamento giuridico belga. 
Riferimenti bibliografici 
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Franco Pittau, dottore in filosofia, è studioso del fenomeno migratorio fin dagli anni ’70, quando ha condotto un’esperienza sul campo, in Belgio e in Germania. È stato ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario del genere realizzato in Italia). Già responsabile del Centro studi e ricerche IDOS (Immigrazione Dossier Statistico), continua la sua collaborazione come Presidente onorario. È membro del Comitato organizzatore del Master in Economia Diritto Intercultura presso l’università di Roma Tor Vergata e scrive su riviste specialistiche sui temi dell’emigrazione e dell’immigrazione.  
Gianluca Lodetti, laureato nel 1965 in Scienze Politiche con indirizzo internazionale all’Università di Padova, dopo diverse esperienze nel campo del volontariato sociale e nel sindacato, nel 1993 è entrato nel patronato Inas-Cisl, diventandone nel 2000 Responsabile dell’Area Estero. Da circa due decenni segue l’attività delle sedi Inas nei diversi Paesi e le politiche per gli italiani all’estero. Dal 2021 è Responsabile Internazionale nell’ambito dello staff della Presidenza INAS. Dal 2000 al 2008 ha rappresentato la Cisl presso la Unione Europea all’interno del Comitato Consultivo per la Sicurezza Sociale e svolto funzioni di rappresentanza presso altri organismi internazionali. Dal 1998 rappresenta l’Inas presso il Consiglio Generale degli italiani all’estero..

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