
Palermo, Collegio di S. Caterina, tra il Monastero e la chiesa, il camminamento riservato alle monache (ph. Rita Alù)
di Rita Alù
Un inaspettato ritrovamento
Per pura casualità, grazie a una mia cara amica, mi sono ritrovata tra le mani un antico volume nel quale, in due distinte scritture date alla stampa nel 1786 a Palermo presso stamperie diverse e poi rilegate insieme, sono esposte le ragioni addotte a sostegno, rispettivamente, della validità e della nullità «della Professione della Ill.ma Signora Suor Maria Crocifissa Alliata, Monaca Professa nel Venerabile Monistero di S. Caterina di questa Capitale».
Il volume riprende le argomentazioni contenute negli atti del giudizio, all’epoca della stampa ancora pendente avanti alla Gran Corte Arcivescovile (per brevità G.C.A.) avviato da Suor Maria Crocifissa, al secolo D. Vincenza Alliata, per ottenere la nullità della propria Professione religiosa.
Annotata sulla prima pagina del libello vi è una dedica, datata 23 febbraio 1935, a Fabrizio Alliata, Duca di Pietratagliata, a firma di Francesco d’Ondes, «en souvenir della nostra vecchia amicizia». In essa è scritto che il libro, acquistato dal d’Ondes l’anno prima in occasione della vendita della Biblioteca del Barone Starrabba, narrando «le vicende di una damigella di tua famiglia… è più a posto nella tua che non nella mia biblioteca».
La vicenda mi ha immediatamente coinvolta e appassionata. Del resto, la materia per me non era del tutto nuova avendo avuto occasione di approfondirla quando scrissi Schiava e sorella [1] che racconta la storia vera di Suor Anna Magdalena, al secolo D. Anna Valdina, diventata per costrizione paterna monaca professa presso il Monastero delle Stigmate di Palermo, e della sua battaglia processuale per riconquistare la libertà perduta.
Per saperne di più su Suor Maria Crocifissa, la protagonista del volume facente parte della biblioteca del Duca di Pietratagliata, ho quindi avviato una ricerca presso l’Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Palermo (detentore dei carteggi concernenti le cause ecclesiastiche di competenza della G.C.A.) rinvenendo alcuni documenti utili per la ricostruzione della storia processuale in questione. Tra questi: il memoriale di avvio del giudizio, la decisione della G.C.A. sulla questione preliminare relativa alla restituito in integrum [2], la Consulta del Governo che dichiara inammissibili i ricorsi di parenti e consanguinei della Religiosa nell’ambito del giudizio di nullità della Professione, la memoria della Badessa del Monastero, D. Vittoria Emanuela Migliaccio, per contestare la pretesa nullità della Professione religiosa invocata da Suor Maria Crocifissa. Purtroppo non ho trovato, invece, la sentenza che ha definito il giudizio di primo grado [3], circostanza questa che non consente oggi di avere alcuna certezza riguardo all’esito della causa in argomento.
Il mancato ritrovamento della decisione della G.C.A. potrebbe imputarsi alla avvenuta dispersione, ascrivibile a cause umane o a calamità naturali, di parte consistente dei Fondi e della documentazione detenuta presso l’Archivio Storico dell’Arcidiocesi di Palermo. Basti pensare che, nella mia piccola esperienza di ricerca relativa al “caso” di Suor Maria Crocifissa, presso il suddetto Archivio ho trovato alcuni documenti nel “Fondo della Gran Corte Arcivescovile”, altri in carteggi contenenti una miscellanea riguardante diversi Monasteri, altri ancor, per puro caso e fortuna, in un fascicoletto giacente insieme a tanti altri nelle scaffalature del magazzino dell’Archivio Diocesano, reperito grazie alla cortesia di un bravo archivista che avevo messo a parte dell’oggetto della mia ricerca. Presso l’Archivio di Stato di Palermo ho rinvenuto, invece, le informazioni generali sul Monastero di S. Caterina e quelle particolari sulle suore che nei secoli hanno fatto parte di quella Comunità religiosa (fra queste anche le notizie contenute in apposito registro con indicazione, per ciascuna delle Moniali del Monastero, del giorno in cui sono diventate Monache Professe e della data di morte) [4].
Nel corso delle mie ricerche su Suor Maria Crocifissa, sfogliando i carteggi del Fondo della Gran Corte Arcivescovile, il Tribunale ecclesiastico di prima istanza competente per le cause di nullità della Professione religiosa, ho rilevato l’esistenza di tanti altri casi giudiziari relativi alla medesima materia verificatisi in quegli stessi anni (siamo nella seconda metà del XVIII secolo). Mi ha colpito inoltre la circostanza che a intentare quelle cause fossero soprattutto uomini, Religiosi decisi ad abbandonare l’Abito per ritornare a essere Secolari. A conferma, uno studio [5] ha evidenziato che, tra il 1668 e il 1793, delle 978 azioni promosse in particolare avanti alla Congregazione romana dei Vescovi e dei Regolari per ottenere il riconoscimento della nullità della Professione, 807 sono di uomini e soltanto 171 di donne.
Vorrei infine ringraziare di cuore Francesco Vergara che mi ha fornito un aiuto fondamentale nella comprensione degli atti rinvenuti, talvolta scritti in latino e comunque quasi sempre con una grafia non facilmente leggibile.
Si deve a D. Caterina Migliaccio e Alliata, Duchessa di S. Agata, sorella maggiore della monaca, l’iniziativa di fare stampare e divulgare la prima delle due scritture contenute nel volume recentemente rinvenuto al fine di rendere pubblici i motivi che, a suo dire, inducono a ritenere valida la Professione religiosa di Suor Maria Crocifissa e ciò «per mettere al coverto l’onore di un Padre onoratissimo (il Duca D. Pietro Maria Alliata nel frattempo deceduto, ndr), il quale da molti si pubblica che a forza la volle professare, …desiderando che la culta Gente ricreduta dalle false sparse voci, rendesse giustizia alla verità e al nome e all’onorata memoria che è rimasta di Lui».
Non escludo che tale iniziativa sia stata anche conseguenza della decisione adottata proprio nel 1786 (anno della stampa dello scritto) dalla Consulta del Governo, interessato al riguardo dalla G.C.A.. Detto organismo regio ritenne inammissibili i due ricorsi presentati dal Duca Alliata, poi deceduto, e da D. Caterina Migliaccio e Alliata, Duchessa di S. Agata, per opporsi quali legittimi contraddittori alla nullità della Professione monastica della loro congiunta Suor Maria Crocifissa.
Nella seconda parte del volume la difesa di Suor Maria Crocifissa, dopo aver smentito in toto l’assunto della presunta violenza esercitata dal Duca Pietro Alliata sulla figlia, circoscrive il motivo di nullità della Professione religiosa della Moniale esclusivamente all’inganno perpetrato dal di lei Confessore, Monsignor Giorgio Stassi [6], di cui si dirà appresso.
Nelle prime pagine del secondo scritto si aggiunge inoltre: «Meglio è dunque dir le cose come stanno e confessare con schiettezza che il ritorno, che la Sig. D. Vincenza Alliata, dopo la dichiarazione di nullità di sua Professione, farebbe al non indifferente patrimonio di sua pertinenza (ci si riferisce all’eredità relitta dal padre, ndr), che attualmente dalla Ill. Sig. D. Catarina Migliaccio e Alliata Duchessa di S. Agata si possiede, è il vero motivo per cui, tra le infinite incredibili opposizioni che si son fatte a quella sventurata Attrice, si è voluta anche usare quella di chiamar quasi in soccorso il voto del Pubblico, spargendo il cennato scritto in istampa…».
E, ancora, si sottolinea la finalità intimidatoria dello scritto dato alla stampa dalla sorella di Suor Maria Crocifissa: «…Si è voluto anche più. Si è tentato di preparare un discredito al Giudice nel caso che egli dichiarerà nulla quella Professione. Che altro voglion dire quelle parole che questa moniale tentar dovea il litigio innanzi i Magistrati di Ginevra o di Londra, ove lo spirito protestante imbevuto dalle false massime di Lutero e Calvino, lo stato Religioso considera come contrario a’sentimenti della Natura?». Si vuole in tal modo che «quando mai venga a dichiararsi secolarizzata S. Vincenza Alliata, si abbia per un protestante il cattolicissimo Assessore che ne avrà pronunziata la sentenza…Se dunque ha creduto una Sorella dell’Attrice…far sapere al Mondo le ragioni per la validità della di lei Professione – conclude l’autore del secondo scritto – con molto maggior diritto l’Attrice medesima, ingiustamente “dipinta come una Monaca pervertita”, per (ri)vendicare e il suo onore, e la sua libertà ha stimato di far palesi al Mondo tutte le ragioni per la nullità della sua Professione».
Il diverso destino delle cinque figlie di Don Pietro Maria Alliata, Duca di Salaparuta
Il Duca D. Pietro Maria Alliata dalla sua consorte, D. Giuseppa Busacca, non ebbe «prole maschile, ma soltanto (sic) cinque femmine»: Anna Maria, Caterina, Vincenza, Beatrice e Antonia. A volerle degnamente maritare tutte si sarebbe consumato gran parte del patrimonio di famiglia e così decise di far sposare soltanto la prima e la seconda «e di piegare, quando riuscirgli potesse, le ultime tre al Chiostro». In questo ebbe cura di dividerle «in guisa che le destinate al Monastero…non potessero distogliersi dalla vocazione religiosa» nel vedere le due sorelle maggiori uscire dal convento per maritarsi in mezzo al giubilo e alle gale, tenuto conto inoltre che l’educazione delle figlie destinate al secolo era in molte cose assai diversa da quella delle altre tre destinate alla clausura. Consegnò quindi le prime due figlie alla sorella di sua moglie presso il Monastero del SS. Salvatore e pose le altre tre nel Monastero di S. Caterina d’Alessandria al Cassaro, inizialmente come educande, sotto la cura e la direzione della loro zia, Suor Maria Giovanna Alliata, priora di quel Monastero.
La figura di D. Pietro Maria Alliata, Duca di Salaparuta, viene descritta dalle due parti del giudizio in maniera contrastante. Chi contesta la fondatezza della nullità della Professione religiosa di Suor Maria Crocifissa nell’ambito del giudizio che negli anni successivi la Monaca avrebbe avviato, lo dipinge come un padre amorevole e rispettoso delle scelte della figlia. Di tutt’altro tenore è invece la descrizione del Duca negli atti a sostegno della nullità della Professione monastica di Suor Maria Crocifissa: un padre «che dovea al suo alto e distinto merito il non avere a parlar troppo per farsi ubbidire. Il suo grave aspetto, la sua savia condotta, la sua somma autorità ed esperienza l’avean quasi posto in possesso di rappresentare in qualunque assemblea egli entrasse, il personaggio più significante. Pensate qual potea essere per un tant’Uomo il rispetto e la venerazione delle proprie figlie. Bastava che egli, non dico parlasse, ma soltanto accennasse per essere ciecamente ubidito. Sappiamo benissimo che questa sorta di venerazione, quando si voglia chiamare meto reverenziale, non è da tanto che possa render nulla una professione monastica, ma è certamente da tanto che bastar possa ad arrendersi ad una insinuazione della natura di quella che si adoperò con D. Vincenza Alliata». Da una lettura del carteggio del giudizio in questione assai più verosimile appare la seconda di dette descrizioni. Basti pensare che il Duca Alliata esercitò la sua autorevolezza (che forse è meglio chiamare autorità) non soltanto all’interno della famiglia ma, come vedremo, anche nei riguardi di alcuni alti prelati coinvolti nel giudizio.

Palermo, Chiesa di S. Caterina edificata tra il 1566 e il 1596 per volontà della priora suor Maria del Carretto (ph. Rita Alù)
I primi atti di ribellione di Donna Vincenza Alliata
D. Vincenza, la maggiore delle tre sorelle destinate al Chiostro presso il Monastero di S. Caterina, giunta all’età di quindici anni mandò a dire al padre, tramite «il degnissimo Beneficiale Buscemi», suo Direttore spirituale e Confessore, «che non volea saper nulla di prender l’Abito Religioso». E suo padre, il Duca Pietro Maria Alliata, come reagì? Innanzitutto prendendo tempo. Decise infatti, almeno per il momento, di rinviare l’avvio del percorso per la Professione religiosa della figlia “ribelle”, consentendo invece alle altre due figlie più giovani e “più rassegnate” di diventare prima di lei Novizie e, a seguire nel 1766 e 1767 [7], Monache Professe.
Contemporaneamente, dopo aver comunicato a D. Vincenza l’indisponibilità di D. Buscemi a continuare nella «direzione della di lei coscienza», il Duca Alliata consegnava alla figlia una nota contenente un elenco di sei soggetti, invitandola a scegliersi tra questi un nuovo Confessore ma prediligendone in particolare uno (Monsignor Giorgio Stassi) «ed ella in ubidienza al paterno comando scelse sventuratamente sul momento l’Autore della sua infelicità». È lo stesso Monsignor Stassi [8] a dichiarare che «prima di Noi portarci la prima volta ad ascoltare la confessione di quest’anima Religiosa (usa il pluralis maiestatis riferendosi alla sua persona, ndr), fu a trovarci nella nostra Chiesa Parrocchiale la felice ricordanza della Madre della stessa Moniale, la Duchessa Alliata, prevenendoci che ci diportassimo colla figlia in modo che restasse sempre nella piena sua libertà circa la elezione del suo stato…».
La difesa di Suor Maria Crocifissa sottolinea al riguardo la preoccupazione della Duchessa Alliata che avvertì la necessità di incontrare personalmente il nuovo Confessore pregandolo di lasciare la figlia libera di scegliere il suo stato. È assai verosimile che in questo modo volesse evitare alla stessa per «qualche autorevol movente» di «farsi Monaca suo malgrado». D. Vincenza, da educanda che si illudeva di essere destinata al secolo e non già alla vita claustrale, «non và a Coro, non a Prediche, non a Preci, non a verun’atto di Comunità» e allo stesso modo si regolò anche in seguito per tutto il tempo trascorso all’interno del Monastero, dando prova di non essere nata per il Chiostro.
Donna Vincenza Alliata diventa Novizia suo malgrado
Il 9 febbraio del 1767 moriva Suor Maria Giovanna Alliata, Priora del Monastero di S. Caterina e nell’incarico le succedeva la Signora D. Flavia Colonna. Due anni dopo D. Vincenza Alliata prendeva l’Abito di Novizia assumendo il nome di Suor Maria Crocifissa. Il nome da lei scelto esprime devozione a Cristo e al suo sacrificio sulla cui Croce forse anche l’infelice si sentiva inchiodata. Per tutto l’anno del Noviziato «non fu che una non interrotta serie di trasgressioni di tutti i precetti della Regola che si volea farle professare. Per evitare in qualche maniera lo scandalo si cacciavano innanzi pretesti d’infermità, parte vere e parte false; ma il fatto sta che la Maestra delle Novizie, per esimersi dal duro passo di dover dare al fine dell’anno relazione alla Madre Priora di tutto il di portamento di questa Novizia, stimò di rinunziar la carica sotto altro pretesto».
Una possibile via di fuga
Chissà quante volte la sventurata Novizia fu tentata di comunicare al padre la sua ferma volontà di non volersi fare Monaca Professa, ma il pensiero «di dispiacere» ad un Genitore «per cui avea tanta venerazione, e il rifletter ch’ella non avea positivo impegno di darsi a marito, ma soltanto di non obbligarsi ai Voti e di non restar perpetuamente carcerata», la indusse ad accettare la soluzione propostale dal suo Confessore: «proferir con le labbra la formola di una professione monastica; ma nel tempo istesso protestare nell’interno del cuore un vivo dissenso a tutto ciò che pronunzia, e in questa maniera nissuna obbligazione ai voti contrarre con Dio e con la Chiesa».
A Suor Maria Crocifissa, decisa a fare suo il consiglio del Direttore, restava ancora un dubbio: se una Professione fatta in tal maniera la obbligasse nella permanenza in Monastero. Il Confessore la rassicurò anche in questo dicendole «che sempre ch’essa avesse voluto uscire dal Chiostro, non avea a fare che dirlo, poiché avrebbe egli in quel caso svelato il tutto e fattale pienamente secolarizzare in un momento». E questo (ci si riferisce specificamente al fermo proposito della suora di non volere restare a vita nel Monastero) è un passaggio delicato della vicenda da tenere bene a mente per tutto ciò che sarebbe accaduto in seguito.
Suor Maria Crocifissa, Monaca Professa del Monastero di S. Caterina
Il 29 aprile dell’anno 1770 Suor Maria Crocifissa diventava Monaca Professa del Monastero di S. Caterina. Quella stessa mattina, prima della solenne cerimonia, dopo che ebbe rinunciato, come da prassi, ai beni di famiglia «acciò più libera e sciolta applicar si possa a servire Sua Divina Maestà», si sottopose al previsto interrogatorio condotto da Monsignor Don Giovan Pietro Galletti, Vicario Generale della Diocesi di Palermo e dei Monasteri, per esplorare un’ultima volta la sua “libera” volontà nel volersi monacare, firmando poi a conferma apposita dichiarazione [9]. Seguiva quindi altro rituale: dopo che l’infelice ebbe baciato la mano del padre questi, secondo consolidata usanza, «le disse in pubblico che se non era più contenta di professare, lo avesse liberamente detto senza timore veruno; al che ella, come si suole, rispose ch’era contentissima».
In realtà, «…non vi fu tra quelle Moniali, che aveano occasione di trattarla spesso, chi credesse sincera e procedente da cuor libero una tal risoluzione. Ma poi lo scontentamento, il cruccio e la mestizia ch’ella mostrò quel giorno istesso che, adorna di gale e di pompa, prese l’Abito Monastico, pose il compimento alla generale persuasione che D. Vincenza Alliata non era nata pe’l Chiostro».
Guidata come una vittima sacrificale ai piedi della Madre Priora, Suor Maria Crocifissa pronunciò la sua solenne Professione di fede facendo attenzione a smentire «internamente parola per parola tutto ciò che con le labbra pronunziava» così come il suo infido Confessore le aveva suggerito. Sin dal primo giorno successivo, contrariamente da quanto ci si sarebbe aspettato, la moniale perserverò nel suo atteggiamento non andando al Coro, né all’Orazione, né recandosi alla Mensa, con scandalo per la Comunità. Trascorsi ventidue giorni dalla Professione, il padre pensò di condurre la figlia ai Bagni di Cefalà [10]. Lei inizialmente per stizza si rifiutò, per poi arrendersi al volere del genitore.
La lettera “incriminata” del Confessore
Rientrata in Monastero dopo tre settimane, Suor Maria Crocifissa chiese con insistenza al suo Confessore di dichiarare come stavano le cose e di attestare la nullità della sua Professione mai da lei voluta, sì da potere finalmente uscire dal Monastero. In questo contesto si inserisce la lettera, di cui qui di seguito si riporta uno stralcio, che Monsignor Stassi indirizzò alla Moniale.
Figlia in Cristo stimatissima. Vi prego leggere queste mie righe con quella serenità di mente che spero Vi otterrà dal Signore la Beatissima Vergine in questo giorno della Visitazione. Sono stato a parlarvi tre volte. La prima mi si offuscò affatto la mente, la seconda restai sensibilissimamente oppresso dalle Vostre angustie, la terza tornò ad offuscarmisi la mente per modo che mi restò per tutto ieri addolorata la testa… Innanzi a Dio dunque Vi dico che sebbene voi, per non aggravarvi di ulteriori pesi sotto peccato, e non vivere di continuo angustiata attesa la vostra delicatezza, non Vi sentiste obbligata in verun conto, tuttavia non dichiaraste che neppure abbracciavate la permanenza nel Monastero. Voi stessa Vi spiegaste meco infatti che così eravate contentissima… Questi miei sentimenti sono inalterabili ed essendo sforzato li paleserò ad ognuno: e quando anche venissero biasimati, volentieri mi soggetterò alla critica di ognuno. Finisco col dirvi che io con tutto ciò son pronto di seguitare a servirvi; ma poiché Vi siete dichiarata che le mie parole Vi turbano o inquietano e Vi stizzano, io non verrò al solito se non sono da Voi chiamato. Attendo dunque sapere da Voi come devo diportarmi, e frattanto non lascerò di pregare il Signore che Vi illumini, Vi rassereni e Vi guidi per quella via che ci conduce alla felicità eterna mercé le Sue divine benedizioni.
Il Confessore, messo alle strette da Suor Maria Crocifissa, pur riconoscendo tra le righe della lettera la sussistenza di una simulazione nel pronunciamento dei voti (e dunque l’inesistenza di alcun obbligo a carico della stessa), fa tuttavia marcia indietro con riguardo alla permanenza in monastero che, a suo dire, la monaca avrebbe invece voluto e gradito. Alla fine poco gli importava che Suor Maria Crocifissa osservasse o meno i voti, preoccupandosi soltanto che ella avesse la bontà di restare per sempre carcerata nel Monastero. Solo così tutti gli equilibri sarebbero rimasti salvi.
La Verità viene a galla
In quegli stessi giorni l’infelice monaca decise di mettere a parte del suo dramma Suor Giovanna Domenica Statella, tra le consorelle del Monastero quella a lei più vicina, raccontandole della simulazione che, secondo il suggerimento del Confessore, aveva messo in atto al momento del pronunciamento dei voti al fine di rendere nulla la sua Professione. La consorella stentò a crederle e volle sincerarsi di persona che quanto confidato dall’amica corrispondesse a verità. Trovò in chiesa il Sacerdote Don Salvatore D’Alessandro al quale costernata riferì l’accaduto e il medesimo le disse che D. Vincenza Alliata «non era Professa e la di lei fatta Professione era nulla». Quindi, insieme a quest’ultima, si recò dal Confessore Monsignor Stassi, il quale confermò che era tutto quanto vero. La Statella disse allora al prelato che, in coscienza, avrebbe dovuto certificare la situazione, oltre che rendere edotto dell’accaduto il Signor Duca Alliata, padre di D. Vincenza. Il Confessore la rassicurò che lo avrebbe fatto ma che gli occorreva del tempo prima di mettere al corrente il Signor Duca perché si trattava di «un boccone troppo amaro».
Una volta emersa la verità all’interno del Monastero, Suor Maria Crocifissa rassegnò i fatti a Monsignor Galletti, Vicario Generale dei Monasteri che, a sua volta, interessò sul caso anche l’Arcivescovo della Città, Monsignor Serafino Filangieri [11].
Un drammatico confronto tra la Moniale e il suo Confessore
Alla presenza dei due alti Prelati e della consorella Suor Statella, che su invito di Monsignor Galletti assisteva alla scena poco distante dal gruppo, davanti alla porta della clausura del Parlatorio nuovo ebbe luogo un duro confronto tra la Monaca e il suo Confessore il quale si limitò a difendersi dalle accuse affermando: «Lei non mi ha capito, lei non mi ha saputo intendere». La Monaca, tra le lacrime, raccontò la sua verità, producendo a comprova la lettera del Confessore a lei indirizzata qualche giorno prima, idonea a dimostrare ai due Prelati come si erano svolti realmente i fatti.
Ad esito di tale confronto l’Arcivescovo mandò via Monsignor Stassi e, rivolgendosi a Suor Maria Crocifissa, le disse: «Sentimi, tu hai ragione, sei stata ingannata, ed io ti farei spogliare di Monaca fra otto giorni, ma ciò non posso praticarlo per il Duca tuo padre; non dubitare però che si scriverà a Roma e si darà riparo a tutto, fintantoché vive il suddetto Duca tuo Padre». Convocò poi Madre Grugno, all’epoca Priora del Monastero, intimandole a non esigere da Suor Maria Crocifissa «veruna subordinazione o servizio per la Comunità».
Il Duca Alliata cerca di porre riparo
È assai probabile che, a questo punto, alle orecchie del Duca Alliata fosse giunta notizia di quanto accaduto all’interno del Monastero al rientro della figlia da Cefalà. E, per escludere che la monacazione di D. Vincenza potesse essere considerata frutto di violenza o costrizione da parte sua e in quanto tale ritenuta nulla, il padre della monaca cominciò ad attrezzarsi imbastendo prove e testimonianze idonee al predetto fine.
Esse appaiono assai poco verosimili e, se non false, furono puntualmente smentite dalla diretta interessata e comunque non confermate da alcuna testimonianza nel corso del giudizio. Sono tali le dichiarazioni di alcune nobili dame (la Principessa di Aragona e la Principessa di Villafranca) e altre provenienti dal Confessore della Moniale, dal Rev. P. Pietro Maria Liuzzo dei Padri Crociferi e da Monsignor del Castillo, aventi tutte quale destinatario il Duca Alliata. Tutte le dichiarazioni prodotte in giudizio formalmente risalenti al 1769 e all’inizio del 1770, l’anno della Professione solenne di Suor Maria Crocifissa, forniscono rassicurazioni al “perplesso” e “amorevole” padre, «non ignaro dell’antica volontà della figlia di non volersi monacare», in merito alla «risoluzione costante e ferma (di Suor Maria Crocifissa, ndr) di volere in ogni conto abbracciare lo stato religioso».
E vi è di più: secondo la dichiarazione di Monsignor del Castillo (defunto all’epoca del giudizio) D. Vincenza avrebbe avuto anche a lagnarsi con lui del Duca suo padre «che le avea troppo differita la Vestizione», chiedendo al suo interlocutore di far sì che il genitore accelerasse il tutto.
Ma come si conciliano le affermazioni ascritte alla monaca dagli autori delle suddette dichiarazioni riguardo alla sussistenza della sua vocazione, con il comportamento di “insubordinazione” dalla stessa costantemente tenuto all’interno delle mura claustrali, manifestato attraverso il rifiuto di recarsi al Coro e alla Mensa, di osservare digiuni e astinenze e di partecipare a tutti gli atti della Comunità?
La Bolla papale del 13 febbraio 1776
Dal giorno del drammatico confronto avvenuto nel Parlatorio del Monastero passarono invano sei anni senza che fossero mantenute le promesse fatte in quella occasione dall’Arcivescovo Filangieri («…non dubitare però che si scriverà a Roma e si darà riparo a tutto…»). Soltanto alla vigilia del trasferimento dell’Arcivescovo da Palermo a Napoli, Monsignor Galletti, permanendo la fermezza e la disperazione della monaca che si limitava a portare soltanto il nome e l’abito di religiosa senza mai osservare le regole del Monastero, nel dicembre del 1775 si determinò a rivolgersi a Roma alla Congregazione della Sacra Penitenziaria [12], allegando alla sua “Consulta” anche una Supplica della Moniale. Nella seconda parte di tale “Consulta” avanzata al Pontefice [13] per il tramite della suddetta Congregazione, Monsignor Galletti così si esprimeva:
…Monsignor Arcivescovo con accortezza opinò chiamare innanzi a sé il Confessore al Monastero per sentirlo di faccia a faccia colla surriferita Monaca, a cui anch’io intervenni. Comparsa la Religiosa alla grata del Parlatorio rappresentò l’inganno e la lusinga che le avea fatto il Confessore, persuadendola a professarsi esternamente; e colle lagrime agli occhi, più che colle parole, ebbe a esagerare la sua disgrazia. Onde non potendo resistere all’intrepidezza del Confessore, che tutto le niegò (scusandosi che non l’avea saputo capire) diede i più forti contrassegni di esser tutto ciò vero. assicurando che era pronta ad attestar una tal verità in punto di morte e coll’anima sulle labbra. Autenticò la precitata Religiosa l’assunto con uno squarcio di lettera originale, che presso di sé teneva, rimessa dal suo Confessore, copia della quale candidamente alla Santità Vostra si trasmette. Mille altre cose io potrei qui addurre, che andrebbero a concretare l’inganno, o sia grossolana sciocchezza del Confessore, e risolvere, che sia fuor di ogni dubbio vero quanto la Religiosa sommette a Vostra Beatitudine, delle quali me ne astengo per non infadare (disturbare, ndr) la illuminata mente di Vostra Santità. In questo stato di cose, Santissimo Padre, io son di parere, qualora sia dell’aggrado di Vostra Santità di accordarsi alla divisata Religiosa per pura grazia il Breve di secolarizzazione, sciogliendola da ogni obbligo. E soltanto astringendola alla permanenza nel Monasterio, come Ella si è parecchie volte protestata esserne contentissima, affinché possa in simil guisa tranquillamente vivere senza i rimorsi della coscienza, e sottrarsi all’imminente pericolo di esternamente perdersi [14]. Bacio umilissimamente i Ssmi Piedi. Palermo lì 15 Dicembre 1775.
Con Bolla papale del 13 febbraio 1776 Suor Maria Crocifissa veniva dispensata da ogni dovere dell’osservanza monastica disponendosi, nel contempo, che per la secolarizzazione, così come era previsto, si dovesse avviare una causa davanti ai competenti Tribunali. Da allora la Moniale fu guardata da tutte le consorelle di S. Caterina, nessuna esclusa, «come una Monaca di sola apparenza, come una Secolare con l’abito di Religiosa». La Bolla papale, non avendo ottenuto l’Esecutoria Regia [15], non fu utilizzabile nel giudizio di nullità come elemento di prova ma come semplice “testimoniale”.
In sedici anni di Professione, «in una comunità in cui gli offizj sono circa quaranta, ella non è stata che due volte Portinaja e una volta Accompagnatrice, offizj che quivi si chiamano non di obbligo, ch’ella imprese per fare un’attenzione alla Priora di quel tempo; e ciò dopo che da Roma avea avuto il Breve che ne la dispensava…».
L’avvio del giudizio di nullità
Il 20 settembre dell’anno 1785 Suor Maria Crocifissa Alliata, con proprio Memoriale, conveniva in giudizio avanti alla Gran Corte Arcivescovile di Palermo Madre D. Vittoria Emanuela Migliaccio, il Ven. Canonico Don Vincenzo Procopio e l’Illustre Don Emanuele Bologna Duca di Adragna – rispettivamente Badessa, Deputato e Protettore del Venerabile Monastero di S. Caterina – per sentire dichiarare nulla la sua Professione religiosa in quanto «malgrado la spiegata sua repugnanza per lo Stato Monastico, (fu, ndr) sedotta e lusingata dal suo Confessore ordinario di poter liberamente in apparenza professar li voti per non disgustare il proprio di lei Genitore I’lll.mo Duca Alliata». A tal fine, in via preliminare, chiedeva alla Gran Corte Arcivescovile di concedere «all’oratrice il beneficio della restitutio in integrum [16], malgrado il lasso di uno o più quinquenni scorsi dal dì dell’accennata nulla sua professione».
Preliminarmente alla trattazione del merito della causa, la G.C.A. si ritrovava a dovere affrontare le seguenti due questioni. La prima di esse era relativa all’ammissibilità o meno dei due ricorsi presentati dal Duca Alliata, il padre della Moniale nel frattempo deceduto, e dalla di lei sorella D. Caterina Migliaccio e Alliata, Duchessa di S. Agata, per opporsi quali legittimi contraddittori alla nullità della Professione monastica di Suor Maria Crocifissa. La G.C.A., conformandosi all’ordine contenuto nella Consulta del Governo (che la stessa Corte aveva al riguardo interessato) datata 22 gennaio 1786, dichiarava inammissibili entrambi i ricorsi. Secondo tale decisione nelle cause di nullità della professione monastica l’ammissione in giudizio di parenti e consanguinei quali legittimi contraddittori è esclusa, fatto salvo il caso di accertata collusione della monaca con il Monastero convenuto.
Con riguardo alla seconda questione preliminare, quella relativa alla richiesta concessione del beneficio della restituito in integrum, la G.C.A., respingendo tutte le eccezioni di controparte, ritenuti fondati «diritti, ragioni, norme e cause espresse (dalla Moniale, ndr) sia nel suo libello sia a voce e in forma scritta di diritto e di fatto dette ed allegate», l’8 luglio del 1786 disponeva che «questa Suor Maria Crocifissa de Alliata venga ammessa al beneficio della restituito in integrum, salvi i diritti riguardo ai meriti che dovranno a suo tempo essere discussi davanti a noi».
La trattazione del merito
Seguiva dunque la trattazione del merito della causa con acquisizione di dichiarazioni e documenti ed escussione di una serie di testi attraverso testimonianze giurate a sostegno delle contrapposte posizioni processuali. Vennero in particolare invitate a deporre alcune consorelle di Suor Maria Crocifissa: Suor Giovanna Domenica Statella, Suor Maria Caterina Colonna, Suor Anna Antonia Colonna, Suor Francesca Nicoletta Terrana, tutte Monache Professe del Monastero di S. Caterina, e Suor Giuseppa Domenica Gerardi, Conversa presso il medesimo Monastero. Tutte confermarono «l’aborrimento che D. Vincenza Alliata avea prima, ed ha sempre conservato, per lo stato claustrale».
Tra queste testimonianze fondamentale si rivelava la deposizione di Suor Giovanna Domenica Statella che, con dovizie di particolari, riferiva quanto accaduto in sua presenza sin dallo «svelamento del grande arcano…quando la Sig. Alliata tornò da Cefalà…». Tutte attestano dietro giuramento la verità dei fatti nonostante il dispiacere di perdere l’amica, dispiacere profondo che certamente provarono anche «le due Moniali sorelle della Signora Alliata» le quali «nel tempo istesso che baciano contentissime il sacro Abito che le ricopre, anelano sollecite di vedere una volta liberata da tante angustie la loro amata Sorella col felice esito della causa».
Controparte, invece, nel sostenere che le testimonianze delle consorelle di Suor Maria Crocifissa sono da considerare inattendibili in quanto si limitano, in gran parte, a riportare quanto appreso direttamente dall’interessata o sono condizionate dai rapporti interpersonali nati all’interno del Monastero, evidenzia quanto segue. Le Moniali che hanno deposto come testi a favore di Suor Maria Crocifissa «la descrivono un giorno stizzita, un altro furibonda, ora smaniante, ora tediata, un dì che non può sentir parlare né del Confessore, né del quadro da lui inviatole, il dì appresso che a tutti risponde con sgarbo. Non sarebbe naturale riconoscere questi sgarbi, tedj, stizza menti, queste smanie, queste furie quali effetti della di lei patita isteria? Non sarà mai per queste Signore il così pensare. Tutto viene dal farsi Monaca forzatamente».
Per quanto riguarda invece le testimonianze acquisite tramite dichiarazioni prodotte in giudizio al fine di contestare la nullità della Professione religiosa di Suor Maria Crocifissa si rinvia a quanto riportato sopra, nel paragrafo Il Duca Alliata cerca di porre riparo.
Le principali argomentazioni in fatto e in diritto delle Parti
Queste le principali argomentazioni invocate dalla controparte (Badessa, Vicario e Protettore del Monastero di S. Caterina) a sostegno della validità della Professione religiosa di Suor Maria Crocifissa.
1) Suor Maria Crocifissa, diversamente da quanto ora afferma, fu libera e risoluta nel volersi professare e non già condizionata dalle pressioni del padre, uomo amorevole e rispettoso della volontà della figlia. Ne darebbero dimostrazione, come sopra detto, le numerose dichiarazioni e testimonianze di prelati e rispettabili dame acquisite nel corso del giudizio. Anche quando Suor Maria Crocifissa avesse simulato di volersi monacare, la sua Professione religiosa per la Chiesa sarebbe comunque valida secondo il principio sostenuto dai teologi del Concilio di Magonza, diventato poi Regola e come tale inserito da Gregorio IX tra le Decretali nel cap. Vidua.de regul. (lo stesso principio è ripreso dal libro della Regola, cap. 16, fogl. 160, stampato e in uso del Monastero di S. Caterina) che qui di seguito si riporta.
«Quando alcuno dissimula, e finge far voto, però nell’animo suo non pretende in conto alcuno far voto…e se per caso avrà fatto voto solenne, e non si prova esser fatto per forza o timore, si dovrà in ogni modo forzare ad osservarlo per lo rispetto di una grande irriverenza qual si fa a Dio… e perché la Chiesa non può giudicare delle cose occulte, non avrà da credere a chi dicesse aver fatto voto a sì fatto modo, altramente se a tali si credesse si distruggerebbero le Religioni perché molti agevolmente potrebbero dire: Io non sono vero Monaco».
2) Non è vero che il Confessore, Monsignor Stassi, consigliò alla Moniale di professarsi simulatamente. La lettera da questi indirizzata a Suor Maria Crocifissa dopo la monacazione, utilizzata da controparte come prova principale dell’inganno subito dalla monaca, va infatti correttamente interpretata: in essa non si dà atto di alcun accordo simulatorio tra il Confessore e la Moniale. Con tale lettera, si sostiene invece, Monsignor Stassi volle semplicemente confortare Suor Maria Crocifissa preoccupata per la eccessiva rigidità delle antiche regole risalenti al 1595 vigenti nel Monastero di S. Caterina sui pronunciati voti di povertà e obbedienza, rassicurandola che nella prassi osservata all’interno del Monastero tali regole erano andate ormai in disuso e non più applicate così rigidamente.
3) Suor Maria Crocifissa è dunque in mala fede e anche se fosse stata in buona fede all’atto della sua Professione, il suo errore sarebbe da considerare inescusabile.
«Ecco in breve il contenuto della causa presente. Abbiamo una Moniale perfetta imitatrice della sua antica Madre che innocente stimavasi per esser stata dal Serpente sedotta (Serpens decepit me). Ma siccome non giovò a quella la scusa della seduzione nel Tribunale Divino per aver l’inganno diabolico cortesemente accolto perché conforme al suo genio, così in questo Ecclesiastico Tribunale non devesi dar conto della seduzione di questa Signora che abbracciò prontamente l’inganno per esserle paruto il più bel ritrovamento per eludere la Religione. Ciò dicendo facciamo finta di credere a quanto viene asseverato da lei. Perché per altra parte l’inganno non si verifica, né da lei si comprova…
Se poi all’opposto fu allora suo intendimento di fare una professione illusoria, nulla e invalida perché volontariamente a tal sorte di finta Professione s’indusse senza giusto motivo, non violentata, non intimorita, non gravemente minacciata. Quale pena per la volontaria frode commessa, è tenuta a perpetuamente restare in Religione (in Monastero, ndr)… Il cattivo consiglio del Direttore (Monsignor Stassi, ndr), quando pur finto non fosse, non la rende scusabile, come non si scusano i rei di ladroneccio o di omicidio per essere stati falsamente consigliati a commetterlo…
In un Tribunale Cattolico, che riconosce lo stato Moniale perfettamente conforme allo spirito di Gesù Cristo, alle massime del Vangelo, alla grazia particolare del Cristianesimo, non può altra sentenza udir proferita la Illustre e Nobile Signora, se non quella di lasciarla rinchiusa nel suo Monastero, per ivi dare soddisfazione a Dio, e della grave irriverenza contro di Lui, e della illusione fatta alla Chiesa».
Al fine di completare il quadro processuale della vicenda, si riportano qui di seguito le principali argomentazioni addotte a sostegno della nullità della Professione religiosa di Suor Maria Crocifissa.
1) Quale sia stato l’animo di Suor Maria Crocifissa nel momento in cui si professava, Iddio solo può saperlo per certo. La legge al riguardo «stabilisce che l’uniformità di due estremi certi (ci si riferisce all’avversione allo stato religioso manifestata prima e dopo la solenne Professione, attestata dalle deposizioni giurate delle Monache di S. Caterina, ndr) forma la presunzione dell’uguale stato per il periodo intermezzo. In diversa maniera cause di nullità di professione non se ne farebbero più».
2) La Professione monastica per essere valida deve procedere da un consenso libero. Niente è più contrario alla libertà del consenso che la violenza (esclusa nel caso in esame) o l’inganno. «Nella professione della Sig. Alliata intervenne un inganno…dunque la sua professione fu senza consenso libero, onde invalida». La testimonianza di Suor Domenica Statella e il contenuto della lettera del Confessore Monsignor Stassi, così come correttamente interpretata da Monsignor Filangieri, Arcivescovo di Palermo, e dal Vicario Generale Monsignor Galletti in occasione del drammatico confronto nel parlatorio di S. Caterina, comprovano che l’inganno ci fu. Sulla base di tale motivo, si citano i numerosi analoghi precedenti trattati dai Tribunali ecclesiastici e decisi in favore della nullità della Professione religiosa sulla base del diritto canonico e di quanto sostenuto da una lunga schiera di Dottori.
3) «È vano dunque obiettar, come si è voluto, a questa nobile Moniale, che l’ignoranza del diritto non può scusarla, poiché il diritto nel caso che abbiamo in quistione, decide per la nullità». Il principio Ignorantia juris nocet (l’ignoranza della legge provoca nocumento, ndr) può trovare applicazione solo se il nocumento, conseguenza dell’ignoranza della legge, consista nel privare il soggetto ‘ignorante’ di un nuovo acquisto e non già di «spogliarlo di ciò che altronde gli appartenga». Ed è quest’ultimo il caso in cui si trova D. Vincenza Alliata.
«Ella non contende qui per acquistare ora per la prima volta qualche cosa…; ella contende solo per riacquistare quella libertà, che era il più prezioso suo patrimonio, come lo è per tutti gli Uomini e che si trova avere barbaramente, senza verun suo fallo, perduta… L’oggetto della causa è così nobile e superiore ad ogni altro, che sorpassa di gran lunga quello di un pecuniario interesse, per cui si sono tante strida alzate e tante brighe adoperate da coloro che, quantunque non riconosciuti dalla forense disciplina per legittimi contraddittori (il riferimento è al padre nel frattempo defunto e alla sorella di Suor Maria Crocifissa, i cui ricorsi furono dichiarati inammissibili nel presente giudizio), pure a viva forza pretendono che si chiudan gli occhi alla luminosa ragione di questa Dama, la quale vivissimamente dall’Autorità legittima implora di essere estratta da un carcere a cui nessun suo delitto la condanna».
Alcune considerazioni conclusive
Sulla base delle carte rinvenute, finisce qui la ricostruzione del giudizio avviato da Suor Maria Crocifissa, al secolo D. Vincenza Alliata, Monaca Professa presso il Monastero di S. Caterina, per far dichiarare la nullità della sua Professione religiosa. La salvaguardia degli interessi economici e più specificamente del patrimonio di famiglia, l’esercizio del potere da parte dei rappresentanti della Chiesa e del Regno (ancor più in Sicilia ove continuava a sopravvivere la prerogativa della Legazia Apostolica [17]), il diritto del pater familias di decidere il destino dei propri figli educati alla sottomissione che spesso si trasformava in timore reverenziale, sono tutti aspetti presenti nell’epoca in cui le vicende narrate si sono svolte.
Leggendo le carte sono pervenuta alla conclusione che, alla fine, poco importava se Suor Maria Crocifissa osservasse o meno le regole del Monastero. Quel che invece davvero rilevava per tutti era la sua permanenza a vita all’interno delle mura claustrali. Solo così ogni interesse sarebbe rimasto salvo. La Chiesa avrebbe evitato lo scandalo della “smonacazione”, un precedente pericoloso per altri Religiosi e Religiose infelici, invogliati a percorrere la stessa strada della monaca “ribelle”. Il Monastero avrebbe evitato il danno patrimoniale conseguente all’obbligo di restituire la dote monacale. Salve sarebbero rimaste l’autorità e l’autorevolezza di D. Pietro Maria Alliata sia all’interno della famiglia, sia all’esterno, dopo che gli alti prelati coinvolti nella vicenda (l’Arcivescovo di Palermo e il suo Vicario Generale), pur di non scontentare il Duca, non ebbero il coraggio di sostenere sino in fondo le parti di Suor Maria Crocifissa. Pienamente salvaguardati, infine, anche gli interessi economici di D. Caterina Migliaccio e Alliata, l’unica sorella superstite rimasta nel secolo [18] che, grazie al sacrificio di Suor Maria Crocifissa condannata a restare carcerata dentro il Monastero, avrebbe potuto mantenere integro e tutto per sé il patrimonio di famiglia a lei pervenuto dopo la scomparsa del padre.
Essendo pur vero che le vicende vissute dalla sventurata monaca sono accadute oltre due secoli fa e, in quanto tali, vadano contestualizzate e ritenute “normali” secondo i costumi sociali e familiari del tempo, io, da donna di questo secolo, non posso rimanere insensibile e indifferente se penso ai lunghi anni che Suor Maria Crocifissa ha vissuto da infelice all’interno delle mura claustrali. E, anche se, come ho anticipato nell’antefatto, non ho rinvenuto la sentenza e non so dunque come il giudizio di nullità avanti alla G.C.A. sia stato poi definito, mi piace illudermi che le istanze di Suor Maria Crocifissa, alla fine, siano state accolte. Ad alimentare questa mia speranza è un piccolo indizio che mi è balzato agli occhi quando, sfogliando le carte del Fondo del Monastero di S. Caterina presso l’Archivio di Stato, ho rinvenuto il registro contenente l’elenco delle Moniali di quella Comunità con indicazione, per ciascuna di esse, del giorno della monacazione e della data di morte. Anche il nome di Suor Maria Crocifissa Alliata figura tra loro ma nell’elenco risulta annotata soltanto la data della sua Professione religiosa e non già quella della morte.
Che questa sia avvenuta fuori dalle mura di quel Monastero?
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Rita Alù, Schiava e Sorella, Torri del Vento Edizioni, Palermo 2015.Sempre sulle vicende di Suor Anna Maddalena Valdina e, più in generale, sul fenomeno delle monacazioni forzate, si rinvia al saggio di Giovanna Fiume Monacazioni forzate, strategie giudiziarie e logiche nobiliari. Suor Anna Maddalena Valdina, in «Rivista di Storia del Cristianesimo», 2017, fasc. II: 397-428. Un testo da consigliare su questo argomento è L’”Inferno monacale” di Arcangela Tarabotti, Rosenberg & Sellier, Torino 2024, tradotto e curato da Francesca Medioli contenente la testimonianza lasciata da Suor Arcangela Tarabotti (1604-1652) con il suo manoscritto finora inedito.
[2] Giusta disposizione del Concilio di Trento (capitolo XIX del Decretum de regularibus et monialibus), la Religiosa (o il Religioso), decorsi cinque anni dalla solenne assunzione dell’Abito, in mancanza di nulla osta da parte della Santa Sede Apostolica, non poteva agire per la nullità della sua professione. La restituito in integrum era una sorta di rimessione in termini che, in presenza di giustificate ragioni, consentiva la procedibilità del giudizio nonostante l’avvenuto decorso del quinquennio dal giorno del pronunciamento dei voti solenni.
[3] La mia ricerca avente ad oggetto la decisione sull’azione di nullità della Professione religiosa avviata da Suor Maria Crocifissa è proseguita presso l’Archivio di Stato di Palermo all’interno del Fondo del Tribunale della Regia Monarchia e della Legazia Apostolica, competente per il riesame delle decisioni della G.C.A., Tribunale ecclesiastico di prima istanza. Purtroppo, anche tale ulteriore ricerca non ha auto un esito fruttuoso.
[4] L’antico Monastero di S. Caterina, sorto dopo il 1311 per volontà testamentaria di Benvenuta Santangelo, ospitava Religiose provenienti da nobili famiglie che professavano la regola domenicana. Sino al 2014 ha accolto suore di clausura e dal 2017 l’intero complesso, comprensivo della Chiesa, è aperto al pubblico. Sul Monastero di S. Caterina si veda: Sara Manali, L’Archivio del Monastero di S. Caterina d’Alessandria di Palermo. Inventario, in «Quaderni della Soprintendenza Archivistica della Sicilia – Archivio di Stato di Palermo. Studi e Strumenti III», Palermo 2020. Con riguardo al medesimo Monastero, si rinvia all’interessante saggio di Patrizia Sardina, Il monastero di Santa Caterina e la città di Palermo (secoli XIV e XV), in «Mediterranea – Ricerche storiche/Quaderni», 2016, n. 29: 414-439, che, seppur riferito ad altro periodo storico, contiene una documentata ricostruzione della condizione monastica e del vasto patrimonio facente capo a quella Comunità religiosa.
[5] Anne Jacobson Schutte, Between Venice and Rome: the Dilemma of Involuntary Nuns, in «Sixteenth Century Journal» xli, 2 (2010): 415-439. Il dato riportato nel testo è significativo e può ricondursi a diversi fattori. Tra questi può annoverarsi la difficoltà per una donna di farsi rappresentare in giudizio in quanto, essendo all’epoca ancora considerata non dotata di adeguata capacità giuridica e di agire, necessitava di un’autorizzazione a tal fine da parte di chi difficilmente condivideva la sua scelta. A ciò può aggiungersi anche che una monaca, una volta lasciato il Monastero, doveva affrontare una serie di difficoltà per il suo “reinserimento” nel Secolo, difficoltà che dovevano apparire insormontabili e che certamente non incoraggiavano nella scelta di intraprendere un giudizio di nullità del proprio stato monastico. Queste considerazioni sono trattate da G. Fiume, Monacazioni forzate, strategie giudiziarie e logiche nobiliari. Suor Anna Maddalena Valdina; v. anche infra: nota 14.
[6] Monsignor Giorgio Stassi (Piana degli Albanesi, 26 marzo 1712 – Palermo, 1802), Confessore e Direttore spirituale di Suor Maria Crocifissa, sarà in seguito nominato Vescovo titolare di Lampsaco. Il 6 febbraio 1784, con la bolla Commissa Nobis divinitus di Papa Pio Vi, fu eretto un vescovato di rito bizantino ordinante per gli albanesi in Sicilia. Non si trattava di una diocesi, ma era prevista la presenza di un Vescovo per poter ordinare i sacerdoti formati presso il Seminario italo-albanese di Palermo. Il primo Vescovo fu per l’appunto Mons. Giorgio Stassi.
[7] Le date della monacazione delle due sorelle di Suor Maria Crocifissa sono riportate nel Registro delle Moniali facente parte del Fondo del Monastero di S. Caterina presso l’Archivio di Stato di Palermo.
[8] Tale affermazione è contenuta nel “Manifesto” registrato il 3 novembre del 1785, facente parte integrante del volume della Biblioteca del Duca di Pietratagliata.
[9] La dichiarazione sottoscritta con firma autografa da Suor Maria Crocifissa si trova presso l’Archivio Diocesano di Palermo in un fascicoletto contenente una miscellanea di documenti riguardanti diversi Monasteri tra cui anche la raccolta delle dichiarazioni sottoscritte dalle monache prima di pronunciare i voti solenni.
[10] Dopo le rigide restrizioni alla clausura introdotte dal Concilio di Trento, le monache di S. Caterina ebbero il privilegio, concesso da Papa Benedetto XIV, di poter uscire quattro volte all’anno dal Monastero “per visitare li luoghi sagri dentro, e fuori la città”. Alla motivazione religiosa del pellegrinaggio, le moniali chiesero di aggiungere tra le motivazioni anche l’elemento del beneficio per la loro salute derivante dalla temporanea dispensa dalla clausura. Tale privilegio venne poi esteso anche agli altri Monasteri. Sul punto si rinvia a quanto precisato da S. Manali L’Archivio del Monastero di S. Caterina d’Alessandria di Palermo. Inventario: 27 e ss. del suo articolo citato alla nota 4. I Bagni di Cefalà (oggi noti come Terme arabe di Cefalà Diana) sono antiche vasche termali non distanti da Palermo molto utilizzate in passato da chi aveva problemi di salute. Alla metà del Settecento Niccolò Diana, Barone di Cefalà e fondatore dell’attuale paese di Cefalà Diana, fece ristrutturare il sito riorganizzando il sistema di captazione, raccolta e distribuzione dell’acqua con apertura di due nuovi ingressi.
[11] Serafino Filangieri, al secolo Riccardo Fialangieri (Lapio 1713-Napoli 1782), fu Arcivescovo della Diocesi di Palermo dal 1762 al 1776 e a seguire Arcivescovo di Napoli. Papa Pio VI non amava la sua particolare “disinvoltura”, ma di fronte alle pressanti richieste del re, per evitare una rottura diplomatica, gli concesse la sede napoletana ma non la porpora di cardinale. Per saperne di più su di lui: https://www.treccani.it/enciclopedia/serafino-filangieri_(Dizionario-Biografico)/
[12] La Congregazione della Sacra Penitenziaria è il primo dei Tribunali della Curia Romana la cui competenza ricade esclusivamente sul Foro interno – cioè l’ambito intimo dei rapporti fra Dio e il peccatore – e sulla concessione delle indulgenze. Secondo il diritto canonico la suddetta Congregazione, mentre è deputata a conoscere le situazioni riconducibili alla coscienza individuale dei Religiosi, non ha competenza in merito alle cause relative alla nullità della Professione religiosa, di competenza invece dei Tribunali ecclesiastici.
[13] All’epoca il Pontefice era Pio VI, al secolo Giannangelo Braschi (Cesena 1717 – Valence 1799).
[14] Il pericolo di esternamente perdersi evidenziato da Monsignor Galletti nella parte finale della Consulta indirizzata al Pontefice per giustificare la richiesta di far permanere Suor Maria Crocifissa in Monastero anche quando venisse sciolta dai voti, probabilmente fa riferimento alla difficile condizione delle donne che riuscivano a tornare al Secolo dopo gli anni trascorsi all’interno delle mura claustrali. “Abbandonate dalla famiglia, avrebbero dovuto guadagnarsi da vivere con il lavoro delle proprie mani, considerato disonorevole e a cui non erano avvezze; avrebbero dovuto mendicare il pane a parenti che si sentivano disonorati dal loro comportamento; il concubinato o la prostituzione minacciava le giovani monache fuggitive senza la garanzia di un immediato matrimonio che le ponesse sotto la protezione di un uomo. Per abbandonare in un modo o nell’altro il monastero occorreva coraggio, supporto morale e finanziario, una rete di solidarietà” (cfr. supra G. Fiume, Monacazioni forzate, strategie giudiziarie e logiche nobiliari. Suor Anna Maddalena Valdina: 404).
[15] L’Esecutoria Regia (Regio Exequatur) era il nulla-osta necessario affinché le bolle e gli altri atti emanati dalla Corte pontificia potessero divenire esecutivi in Sicilia. Risale al 1418 e fu deferito nel corso dei secoli prima al Tribunale della Regia Gran Corte, poi all’avvocato fiscale del Tribunale del Real Patrimonio e infine al giudice della Regia Monarchia.
[16] V. nota 2.
[17] La Legazia Apostolica, di cui sono espressione il Tribunale della Regia Monarchia e l’Esecutoria Regia – citata nel testo con riguardo alla Bolla papale del 13 febbraio 1776 - insieme ad altre prerogative esclusive del Sovrano in Sicilia, condizionò fortemente la relazione diplomatica tra la Chiesa e il Potere regio. Tale antico privilegio, attribuito sotto forma di delegazione permanente il 5 luglio del 1098 da Papa Urbano II a Ruggero d’Altavilla a titolo di ringraziamento per avere sottratto l’Isola agli arabi ed averla restituita al culto della Chiesa di Roma, comprendeva, oltre al potere di nominare i vescovi, il riconoscimento dell’autorità suprema della corona siciliana nelle cause ecclesiastiche del Regno.
[18] D. Anna Maria Bonanno e Alliata, primogenita delle cinque figlie di D. Pietro Alliata, Duca di Salaparuta, nonché seconda sorella di Suor Maria Crocifissa, rimasta nel Secolo insieme a D. Caterina Migliaccio e Alliata, scomparve prematuramente all’età di 39 anni.
APPENDICE
Cronistoria
1748 |
Terza di cinque figlie, D. Vincenza Alliata nasce a Palermo da Pietro Maria Alliata, Duca di Salaparuta, e da D. Giuseppa Busacca |
1752 |
Da educanda, insieme a due delle sue quattro sorelle, fa ingresso nel Monastero di S. Caterina, affidata dal padre alle cure della zia Suor Maria Giovanna Alliata, priora del Monastero, Le altre due sorelle destinate al secolo sono invece destinate al Monastero del SS. Salvatore |
1762 |
A 15 anni manifesta la volontà di restare secolare |
1767 |
Muore la zia Suor Maria Giovanna Alliata, priora del Monastero, e si professa la seconda delle sue sorelle minori (la prima si era professata l’anno prima) |
1769 |
Inizia l’anno del Noviziato durante il quale continua a rifiutarsi di osservare le regole e lo stesso farà anche dopo la solenne Professione monastica. Assume il nome di Suor Maria Crocifissa |
1770 |
Ingannata dal suo Confessore, Mons. Giorgio Stassi, diventa Monaca Professa senza volerlo |
1770 |
La verità, comprovata da una lettera a lei indirizzata dal suo Confessore, viene fuori durante un incontro con il Vicario generale dei Monasteri, Monsignor Galletti, e l’Arcivescovo di Palermo Filangieri, alla presenza di Monsignor Stassi e della consorella Suor Giovanna Domenica Statella, alla quale aveva confidato l’accaduto. Ad esito del confronto l’Arcivescovo intima alla Priora del Monastero, Madre Grugno, di non esigere da Suor M. Crocifissa nessuna subordinazione o servizio per la Comunità |
1776 |
Monsignor Galletti avanza ricorso alla Congregazione della Sacra Penitenziaria di Roma per farle ottenere la dispensa dalla Professione religiosa (la dispensa riguarda l’osservanza delle regole monastiche con obbligo di permanenza in monastero); segue Bolla Papale che l’accoglie, tuttavia non utilizzabile nel processo di nullità in quanto sfornita della “esecutoria regia” |
1785 |
Con memoriale avvia il giudizio di nullità della propria professione religiosa avanti la Gran Corte Arcivescovile. Sono controparti necessarie: la Badessa, il Deputato e il Protettore del Monastero di S. Caterina di Alessandria |
1786 |
Con Consulta del Governo, interessato al riguardo dalla G.C.A., sono ritenuti inammissibili i due ricorsi presentati dal padre, il Duca Alliata, nel frattempo deceduto, e dalla sorella D. Catarina Migliaccio e Alliata, Duchessa di S. Agata, per opporsi quali legittimi contraddittori alla nullità della professione monastica di Suor Maria Crocifissa. Secondo tale decisione l’ammissione in giudizio di parenti e consanguinei quali legittimi contraddittori è consentita solo in caso di accertata collusione della monaca con il Monastero convenuto. |
1786 |
La Gran Corte Arcivescovile, nonostante il decorso di più quinquenni dal giorno della professione religiosa (termine di decadenza per l’avvio dell’azione di nullità della professione monastica), respingendo l’eccezione di controparte, l’ammette al beneficio della restitutio in integrum, salvi i diritti riguardo al merito che dovrà essere discusso davanti alla stessa Corte. Il giudizio prende avvio con acquisizione, su istanza di entrambe le Parti, di numerose testimoniane e dichiarazioni. |
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Rita Alù, avvocata ed ex dirigente di banca, è nata e vive a Palermo. Da anni avverte la necessità di salvaguardare la memoria delle donne e, in questa ottica, ad esito di laboriose ricerche fra le carte dell’Archivio di Stato, ha scritto due romanzi storici Schiava e Sorella (2015) e Io, Rosalia N. (2017), entrambi editi da Torri del Vento, che ricostruiscono la storia di due donne coraggiose e determinate realmente vissute nella Palermo del ‘600. Nel 2024, con lo stesso editore, ha pubblicato L’altra metà dell’arte, un testo che affronta il tema della damnatio memoriae e della conseguente invisibilità delle migliaia di artiste esistite nei secoli. Negli anni il suo impegno si è ulteriormente consolidato all’interno di Archivia-donne in relazione, l’Associazione culturale che ha co-fondato nel 2017 con l’obiettivo di “ridisegnare”, attraverso la voce stessa delle donne, il ruolo che esse hanno avuto, a livello individuale o di gruppo, nella Storia della Sicilia.
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