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Le periferie tra puntini verdi del voto leghista, esperienze locali innovative, e Manifesto della Montagna

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Mappa del voto in Emilia Romagna (gennaio 2020)

di Pietro Clemente

Mappe inquietanti

Sulle pagine virtuali di TPI “The Post Internazionale” del 29 gennaio Marco Revelli scrive delle elezioni regionali in Emilia Romagna:

«Per dirla con le parole dei ricercatori di YouTrend “al diminuire della grandezza dei comuni, aumenta il numero di voti a favore della Lega e della candidata presidente Borgonzoni”. E la stessa percezione “visiva” si ha se anziché i grafici si guardano le mappe e i loro colori: il quadro cambia radicalmente (le tinte si fanno via via diverse e più nette) man mano che dai “centri” ci si sposta verso le “periferie”, dalle Città al Contado, dalle zone a scorrimento veloce (infrastrutture autostradali e ferroviarie, telecomunicazioni concentrate) a quelle più “statiche”. La cosa è evidente, nell’analisi del voto attuale, in modo particolare per le cosiddette “aree interne”, le “terre alte”, i comuni (spesso in sofferenza) che si concatenano lungo le direttrici che dal basso salgono verso i valichi appenninici, sia quelli dell’appennino ligure-emiliano, in provincia di Piacenza e di Parma, sia di quello tosco-emiliano e umbro-marchigiano, tutti distribuiti sul bordo meridionale della Regione. È lungo queste direttrici che la landslide, la “lenzuolata” verde, si distende compatta…Sono piccoli numeri rispetto a quelli delle città capoluogo, distanze abissali in percentuale ma poche decine o poche centinaia di voti in valore assoluto. E tuttavia la miriade di puntini verdi sulla mappa, a segnare i territori del margine, offre una panoramica cromatica inquietante…»

Per chi si occupa di piccoli paesi, di zone interne, di piccoli numeri è come un pugno nello stomaco. Non è che sia una novità, ma il quadro emiliano presenta un carattere sistematico. Diverso il caso calabrese, in cui è l’astensione dal voto in un certo senso la risposta delle aree più marginali. Nella riflessione politologica di Revelli è una conferma dello scenario internazionale populista: sono i ceti che si sono sentiti abbandonati e traditi dalla sinistra, per lo più rurali, ma anche minerari e di zone di industrializzazione dismessa, che votano a destra, per ritorsione o per disperazione.

Cosa significa per chi vorrebbe ‘porre il centro in periferia’? Per chi vuole ‘Riabitare l’Italia’, per chi pensa che si debba ‘invertire lo sguardo’? Questo sguardo ri-orientato si troverà necessariamente a fare i conti con i vissuti locali di una rappresentanza politica segnata dalla protesta, forse dal rancore.

ilventofailsuogiroCredo che dobbiamo aprire una discussione su questi temi. E spero che il prossimo numero di Dialoghi Mediterranei possa accogliere qualche riflessione in merito. Non è difficile dire che questo stato di cose esprime con evidenza la ‘disgregazione sociale’ delle periferie e delle zone interne, e che è necessario costruire una prospettiva diversa, che non sia solo egoistica e compensativa, ma capace di far intravedere possibili nuove civiltà locali. Ma rischia di essere una risposta consolatoria. Di fatto la scena si presenta caratterizzata in un modo che ricorda il film di Giorgio Diritti Il vento fa il suo giro (ne avevo già parlato nell’editoriale di settembre 2019) che rappresenta l’incubo dell’innovatore che cerca di trovare asilo e vita produttiva in un paese in declino e riceve ostilità e sabotaggio. Molti nodi dello sviluppo locale si giocano intorno al tema delle popolazioni rimaste sul luogo, per lo più in età avanzata, desiderose forse di compensazioni ma non disponibili a favorire nuove iniziative, ad essere la base di una nuova comunità di saperi, di valori legati al territorio. È facile vedere nel voto delle periferie una condivisione della cultura nazionalista e corporativa della Lega, l’ostilità al cambiamento, la cancellazione della prospettiva per cui dovrebbero essere le generazioni future e il pianeta terra a guidare le scelte e le azioni, e non il desiderio di difendere e accumulare risorse per il presente. Credo sia doveroso ammettere che è stata la politica a favorire la percezione diffusa che il discorso sul futuro, le nuove generazioni e il pianeta serva solo da copertura a interessi di gruppo, e a favorire nuove diseguaglianze. Ma è ovvio che questo rende ancora più difficile costruire una idea comune e ampia di rinascita delle zone interne e delle comunità periferiche che investa sul futuro e che venga condivisa dai residenti.

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Sono problemi che stanno al cuore anche di questo numero de Il centro in periferia che si apre con il Manifesto di Camaldoli per una nuova centralità della montagna (presentato da De Matteis) e si chiude con alcuni testi legati al film di Anna Kauber In questo mondo sulle donne pastore (Clemente, Saba, Rosati, Pieroni), e passa attraverso il racconto di comunità locali che operano per dare forza culturale alle periferie (Cangemi), due nuovi interventi nel dibattito  sui musei e i temi dello sviluppo locale (De Simonis, Pirovano), due scritti assai autorevoli e attuali legati al centenario della nascita di Nuto Revelli (Teti, Casellato), e una riflessione-recensione sul libro Riabitare l’Italia di Felice Tiragallo. Nonostante l’apparente carattere di patchwork dei testi di questo numero è chiaro che la riflessione sulla politica e le zone interne li permea tutti ed ognuno dà a suo modo risposte o almeno riflessioni d’esperienza alla questione di una nuova prospettiva e a quella duramente attuale di uno stallo degli investimenti delle comunità locali verso un futuro diverso possibile. Un esempio è che l’opera di Revelli, e le letture del suo lavoro di Teti e Casellato, lo evidenziano pone al centro il mondo dei contadini e dell’abbandono delle campagne piemontesi e la sua descrizione puntuale della marginalità e della distruzione di una civiltà locale ricca di saperi e non solo di povertà e superstizione, si connette fortemente con i temi attuali delle zone interne. Così anche se si considera il carattere nazionale che l’opera di Revelli ha dato alla questione contadina e a quella dell’abbandono delle zone interne a favore di una industrializzazione che spesso inquinava, distruggeva e poi abbandonava il territorio e la mano d’opera, e da lì vengono possibili riflessioni su una nuova centralità possibile dell’agricoltura.

Il Manifesto della Montagna allarga i problemi delle zone alte anche agli aspetti climatici del pianeta e suggerisce uno scenario in cui:

«Grazie a valori di cui il “centro” difetta, i “margini” montani hanno le potenzialità per divenire un laboratorio dove ruralità e urbanità innovative si fondono per dar vita a una nuova civilizzazione, con effetti rigenerativi sulla vita stessa delle metropoli. I loro valori patrimoniali cominciano oggi ad esser visti come un insieme di risorse che possono rendere le comunità locali resilienti in quanto basate su una cultura del limite, sulla peculiarità dei prodotti e su una qualità della vita superiore».

I due scritti sui musei problematizzano, suggeriscono, ma in qualche modo intravedono, oltre la crisi, una nuova prospettiva del museo come presidio del territorio e costruzione di comunità. Intorno al film della Kauber e nelle sue stesse immagini, legate a una lunga ricerca sul campo con la documentazione di circa un centinaio di situazioni di allevamento femminile (in modalità  spesso informale ma con la presenza anche di vere aziende), proponiamo due testimonianze di donne impegnate sia nell’allevamento connesso alla produzione dei formaggi (Saba) sia alla gastronomia e la ristorazione (Rosati), nonché il caso della Garfagnana come scenario interessante e dinamico (Pieroni), con la rinascita di  una pecora locale, ‘garfagnina’, pur nel quadro dei consueti processi di abbandono e perdita della centralità, tutte esperienze positive di animazione dei mondi periferici.

cover_save_the_dateIl PIL piange

Ma queste esperienze positive non riescono a fare dimenticare i puntini verdi della mappa del voto leghista in Emilia.  La ampia riflessione-recensione di Felice Tiragallo dedicata al libro Riabitare l’Italia , del quale già si è detto più volte, proprio per il valore che esso ha di investimento analitico e progettuale sulle aree interne, mostra anche la complessità e i punti di divergenza dei propugnatori del ritorno ai piccoli paesi, le possibili zone di impatto tra culture della tutela e culture della progettazione, tra investimenti che puntano alla memoria storica delle comunità nei loro paesaggi, e investimenti che invece mirano alle tecnologie o anche alla biodiversità senza passare attraverso la memoria incorporata nei musei o nelle esperienze delle popolazioni locali. Insomma ci sono problemi anche sul fronte dei sostenitori di uno sviluppo ‘mirato ai luoghi’e mirato alle persone. Tutti sono d’accordo che interventi pubblici per incentivare le pratiche del riabitare sono indispensabili, ma è anche evidente che nella crisi produttiva dell’Europa si parla solo di indici di crescita del PIL (si potrebbe parlare di ‘pianto del PIL’ che non cresce come i bambini malnutriti, ma anche nel senso del poker: il ‘piatto piange’, non ci sono i soldi e l’Italia non gioca) che nella nostra prospettiva è proprio del tutto insensata. Non interessa la quantità ma le redistribuzione sul territorio dell’attività e della produzione, e quindi centralità dei luoghi e non degli dell’Istat costruiti sull’ansia delle percentuali di incremento e quindi anche essi ‘ciechi ai luoghi’. Ed è dunque molto difficile pensare che questi investimenti ci saranno.

manifesto-stati-generali-della-montagnaCresce la coscienza di questi problemi, nascono associazioni, reti, ma è difficile vedere un possibile salto di rilievo critico. Dopo Riabitare l’Italia, intorno al progetto dell’Editore Donzelli e dei curatori del volume, sta nascendo una associazione, ed è pronto un Manifesto per riabitare l’Italia, che pubblicheremo e commenteremo nel prossimo numero de Il centro in periferia. Grandi impegni intellettuali che oggi è difficile vedere connessi con una pratica di confronto capillare con le popolazioni locali, le associazioni, i sindaci, per cui la frontiera dell’avanzamento in questa situazione resta affidata alle esperienze di avanguardia, alle quali credo che le nostre riflessioni, i Manifesti, etc. forniscano strumenti di argomentazione e confronto, e affidata allo spirito critico   che si diffonde sulla nostra vita civile nei contesti urbani offrendo idee-guida alle nuove generazioni, che cominciano a guardare alla montagna e alla campagna. La speranza, come indica il Manifesto della montagna che (lo ripeto ancora):

«Grazie a valori di cui il “centro” difetta, i “margini” montani hanno le potenzialità per divenire un laboratorio dove ruralità e urbanità innovative si fondono per dar vita a una nuova civilizzazione, con effetti rigenerativi sulla vita stessa delle metropoli».

Sul fronte cui si è guardato in questi anni con grande fiducia, quello della Strategia Nazionale Aree Interne si colgono invero diffusi segnali di delusione. Sarebbe interessante avere dati analitici, risultati, anche minimi, di processi in atto, per valutare quella strategia, che è per ora l’unico rilevante intervento pubblico. Quindi i puntini verdi sono anche segni di un momento generale di difficoltà di idee e di risorse, di pesante lontananza della politica e della economia dai luoghi delle vita residua e tenace del cuore dell’Italia delle differenze.

Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).

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