di Anna Maria Francioni
Come sarebbero le vie che attraversano piazza Ferrari senza il tumulto di odori che inebriano fino a sera tardi, mi domando, respirando a piene narici, affamata di una leggera brezza primaverile che si fa sentire e apre il sipario, lentamente, su una Rimini che si sta preparando al succedersi di un’altra stagione estiva. La bottega araba dell’angolo rievoca un passato non troppo lontano, quello che divide l’era dei supermercati da quella delle caratteristiche botteghe sotto casa, dove trovavi tutto e, compresa nella spesa quotidiana, c’era la chiacchiera con il negoziante.
Un tripudio di colori rallegra la via, la frutta esposta fuori e gli svolazzanti caftani pronti a viaggiare per la spiaggia, ondeggiando in aria al vento incuriosendo i passanti. È una zona criticata e ricriticata da molti cittadini perché vista come un ghetto di extracomunitari irrequieti e rumorosi.
Io adoro quella zona. La ghettizzazione fisica e, ancora prima, immaginata, perché accettata come l’unica alternativa capace di mantenere lo stato sovrano arroccato nei suoi rigidi e inaccettabili ideali, caratterizza molte città italiane e non solo, escludendo ogni possibilità di emulsione culturale. L’esclusione dell’altro si manifesta negli spazi urbani in modo prepotente, riproducendo una forma di apartheid implicita, non più definita da inaccettabili pass, come purtroppo accadeva, invece, in un passato lontano, ma che, comunque, delimita la città in zone ben definite e separate.
Proseguendo il mio tragitto, le mie riflessioni sono interrotte dal saluto ospitale di amici che lavorano o gestiscono le attività; cercano sempre di vendermi qualcosa e, con il tempo, ho appreso che è una cordialità, una forma di lavoro attiva. La nostra idea è fossilizzata a leggere l’atteggiamento di molti come un’insistenza, perpetrata per incassare denaro, magari rifilando al cliente anche qualche “truffa”, ma non è questa, o almeno solo questa, la corretta lettura. L’attività del commerciante è identificata con un modo attivo di proporre la merce, di esaltarla e valorizzarla, come un tempo spesso accadeva anche in molti mercati italiani.
Mi fermo per scambiare qualche parola e siamo catturati dall’attenzione che inevitabilmente ricade su una delle tante macchine della polizia, che, più volte nella stessa giornata, effettua quasi delle vere e proprie ronde, spostandosi a passo d’uomo tra le vie. Dall’interno dell’auto sguardi gelidi oltrepassano i finestrini alla ricerca di qualsiasi anomalia questo strano quartiere nasconda, tra lavoratori, frutta e oggettistica. È angosciante ciò che trasmettono, un atteggiamento per niente rassicurante, che, piuttosto, sembra invece una forma di anticipazione a fatti che potrebbero accadere, rendendo questo luogo la cornice stereotipata dei racconti che, esasperati, riempiono talk show e telegiornali. Disletture come queste sono all’ordine del giorno e diffondono il terrore, così da rafforzare lo Stato sovrano e populista che ci governa.
L’abuso di potere da parte delle forze dell’ordine in Italia rappresenta una questione di rilevante attualità, soprattutto quando tali abusi si manifestano nei confronti dei migranti. Questo fenomeno solleva interrogativi sulla tutela dei diritti umani e sulla giustizia sociale nel contesto italiano. Un esempio rappresentativo della situazione è quanto avvenuto il 21 novembre 2024 a Padova, nei pressi della stazione ferroviaria. Due richiedenti asilo di origine nigeriana sono stati fermati per un controllo dei fatidici documenti e, poiché giudicati non in regola, successivamente trasferiti al Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Ponte Galeria a Roma, dove si trovano tuttora custoditi. Questo episodio ha sollevato accuse di violenza e abuso di potere da parte delle forze dell’ordine, evidenziando le criticità nelle procedure di controllo e detenzione dei migranti. Infatti, la profilazione razziale, ovvero l’adozione di misure di controllo basate su caratteristiche etniche o razziali piuttosto che su comportamenti specifici, è stata oggetto di critiche in Italia, tanto che la Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza (ECRI) ha evidenziato pratiche discriminatorie da parte delle forze dell’ordine italiane.
Nell rapporto la Commissione contro il Razzismo e l’Intolleranza (ECRI) del Consiglio d’Europa ha denunciato, infatti, pratiche mirate contro persone di etnia Rom e individui di origine africana. Tali evidenze sono risultate talmente preoccupanti da fare sì che l’ECRI stesso raccomandasse un’indagine indipendente per affrontare e correggere queste pratiche discriminatorie [1]. Contemporaneamente, il governo italiano ha introdotto le cosiddette “zone rosse” nelle principali città, come Milano e Napoli, a partire da dicembre 2024. Ma perché proprio “rosse”? Si tratta di una denominazione simbolica che richiama l’idea di pericolo e di allerta, anche se il riferimento preciso non è esplicitato nei documenti ufficiali. Queste aree sono soggette a controlli intensificati e maggiori restrizioni, con l’obiettivo dichiarato di migliorare la sicurezza urbana attraverso l’allontanamento di individui ritenuti pericolosi, spesso con precedenti penali. Tuttavia, l’istituzione di queste aree ha suscitato critiche da parte di diverse organizzazioni per i diritti umani e di alcuni settori della società civile, che le considerano una forma di segregazione simile all’apartheid.
La preoccupazione principale, infatti, riguarda il rischio di discriminazione e marginalizzazione di specifici gruppi sociali, inclusi i migranti, all’interno di queste aree designate. In questo modo, anche se le zone rosse, con controlli rafforzati e l’allontanamento forzato di persone considerate “indesiderate”, non vietano esplicitamente la presenza di migranti, le misure adottate portano a una restrizione simile. Nelle zone rosse, la polizia ha maggiore discrezionalità per fermare, controllare e allontanare individui scelti secondo criteri spesso soggettivi, il che può portare a profilazione razziale e sociale, favorendo una netta separazione tra aree “per bene” e zone popolate da gruppi ritenuti problematici. Questo meccanismo amplifica le disuguaglianze sociali e territoriali, portando a una vera e propria segregazione urbana violenta e discriminante.
Vengono a formarsi, nelle città, delle aree di separazione tra cittadini e non cittadini, tra italiani e stranieri che perpetrano una ghettizzazione di matrice razzista di vecchia origine e mai debellata. La città di Rimini, nello specifico, è caratterizzata da una divisione fluida che fortunatamente tende ad alleggerire questi spazi definiti. Molte persone originarie di diversi luoghi del mondo si sono stanziate da molto nella città, lavorando e aprendo attività proprie, e anche gli spazi abitativi sono abbastanza distribuiti. Complice può essere l’animo accogliente dei Romagnoli e il fatto che, essendo una città turistica, Rimini offre un ventaglio di offerte lavorative abbastanza ampio. Restano comunque forti i pregiudizi e la cattiva informazione, come quella che presenta Rimini come una delle città più criminose d’Italia. Questa narrativa, però, non considera alcuni parametri fondamentali quali il numero elevato di turisti presenti in città, che incide sulle statistiche, il fatto che la criminalità non sia necessariamente legata alla presenza di migranti e la tendenza dei media a enfatizzare episodi isolati per alimentare una percezione distorta della sicurezza.
Tutte queste riflessioni portano a comprendere come l’idea di uno Stato sovrano e populista si alimenti attraverso queste narrazioni, consolidando in un perverso cortocircuito strutture di controllo e segregazione destinate a rafforzare le divisioni sociali. Il rischio è quello di un’urbanistica del controllo, in cui le città non siano più spazi di incontro e scambio, ma territori frammentati e ostili, dove l’altro viene percepito come una minaccia permanente invece che come una risorsa potenziale. Per questo è fondamentale continuare a interrogarsi sul significato della città e sul modo in cui essa può diventare realmente fluida, accogliente e inclusiva per tutti, promuovendo una cultura della legalità e del rispetto dei diritti umani anche all’interno delle forze dell’ordine, attraverso una formazione adeguata e continua.
Tra stoffe svolazzanti e frutta, macellerie e piccole botteghe emerge dal basso una cultura verace che si integra con la Rimini storica, quella delle osterie romagnole e i negozi caratteristici che, a loro volta, cercano di integrarsi e sopravvivere ai tanti centri commerciali che sorgono in periferia. La Rimini turistica con le sue discoteche e l’offerta di lavori stagionali, la Rimini con la sua spiaggia lunghissima e i caratteristici bagnini, ricca di eventi artistici, culturali ed enogastronomici, la Rimini notturna che, in un tripudio di cultura, si riproduce e muta quotidianamente, grazie alle tante persone che da diverse parti del mondo ricostruiscono spazi e animano un movimento umano che, come un vulcano, dà vita alla Rimini che amo. Quella città simbolo di una cultura in movimento, che accoglie e si trasforma, mescolando tradizione e innovazione, passato e futuro, radici locali e influenze globali. Una città che respira al ritmo delle stagioni, che si accende d’estate e non si spegne mai davvero, che vive di incontri, di scambi, di storie intrecciate tra vicoli e lungomare.
La Rimini che amo è quella che non si lascia definire da un solo volto, ma che si riverbera e si moltiplica nelle esperienze di chi la abita, la visita e la reinventa ogni giorno.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] European Commission against Racism and Intolerance (ECRI). (2024). Sixth report on Italy. Council of Europe.
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Anna Maria Francioni, laureata in antropologia culturale ed etnologia all’Università di Bologna con votazione 110/110L, il suo principale tema di ricerca è la burocrazia rivolta ai migranti. Si occupa di progetti all’interno di CAS e cooperative di accoglienza. Ha pubblicato un libro a novembre 2023 con la casa editrice Dialoghi dal titolo: Le parole degli altri per un approccio etnopragmatico alla relatività linguistica.
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