Stampa Articolo

L’arte, una forma di disintossicazione espressiva

 copertinadi Orietta Sorgi 

Quale futuro destinare all’arte nell’epoca del tardo- capitalismo, dominato dalla feticizzazione delle merci e dalla logica del profitto? Quando l’intento creativo dell’artista è strettamente condizionato più che al produrre − al porre in opera − in uno spazio espositivo che lo renda imme- diatamente visibile? E dove il potere stesso della pubblicizzazione, della promozione e del marketing supera di gran lunga il valore intrinseco dell’opera d’arte?

In qual misura si può allora affermare lo statuto di “un’arte autentica” e riproporre un imperativo estetico nel senso kantiano del termine, richiamato con una parafrasi, nel titolo del volume di Peter Sloterdijk, L’imperativo estetico. Scritti sull’arte (a cura di Peter Weibel, Raffaele Cortina editore, 2017)? In altri termini, può ancora esistere un giudizio a priori sul bello, a carattere teoretico e universale, che trascende ogni esperienza sensibile?

Su questi interrogativi si sviluppa la riflessione del nostro filosofo in una raccolta di scritti sull’arte che già nel titolo stesso – l’imperativo estetico − pone come punto di partenza l’approccio metafisico kantiano e gli sviluppi successivi della filosofia dell’arte attraverso l’idealismo hegeliano e la fenomenologia di Husserl e Heidegger. Da queste tappe del pensiero Sloterdijk prende le mosse per proporre un diverso modo di guardare all’esperienza artistica nelle sue infinite potenzialità. Il suo approccio è decostruttivo, nel senso derridiano, volto non soltanto a una rivisitazione critica di alcuni capisaldi dell’estetica contemporanea ma anche ad un radicale ripensamento delle pratiche artistiche che si sono di volta in volta avvicendate nella modernità. Vede nell’arte un discorso e non un prodotto, non le singole opere come creazioni, ma un certo modus operandi attraverso cui poter studiare l’uomo e la sua capacità di adattamento alla vita associata. Si fa strada l’idea di un homo aestheticus, cresciuto insieme all’homo sapiens, dotato di una nuova sensibilità e di un insieme di qualità e prestazioni che si sono rivelate decisive nel processo evolutivo.

L’estetica di Sloterdijk è sostanzialmente un’estetica antropologica che guarda all’uomo non in senso astratto ma all’uomo sociale, storicamente determinato. Un’estetica che si fa etica nel momento in cui coinvolge la condizione stessa dell’artista, la missione morale di chi è destinato a rilasciare al mondo qualcosa di esemplare.

L’autore disserta, con vari esempi, su un’ampia e variegata famiglia di forme espressive che spaziano dall’architettura all’urbanistica, dal cinema alla musica, dalla letteratura al design. Egli si muove, non senza un tratto teorico unitario o un filo conduttore, in un percorso argomentativo fitto di continui rimandi e disgressioni.

Gibellina, Museo delle trame Mediterranee.j

Gibellina, Museo delle Trame Mediterranee

A dare il via è proprio il caso del Museo ebraico di Berlino, opera di Libenskind che la consegna al pubblico nel 2001. Qui l’intento del progettista è quello di proporre un «manifesto del moderno architettonico» con la presenza di un edificio che d’improvviso appare nello spazio di una città ancora devastata dal ricordo dello sterminio nazista. Il Museo si pone allora come modello di superamento delle contraddizioni laceranti della storia e come strumento di riappacificazione: quella presenza indica a chi è sopravvissuto ma anche a tutti i cittadini tedeschi un modo di ricomposizione degli equilibri.

Un’idea già presente in un altro saggio sul museo come luogo dell’estraneazione, della xenologia e dunque dell’incontro con l’estraneo, il diverso, il residuale. La scienza museologica diviene così una fenomenologia delle strategie culturali nel rapporto con l’estraneo e col rimosso: la chiave per comprendere il lavoro della cultura come riappropriazione e come difesa. Un museo concepito come luogo dell’estraneazione richiama alla mente – se è lecita una disgressione sul tema – l’esempio del Museo delle Trame Mediterranee di Gibellina, piccolo centro della Valle del Belice, ricostruito dopo il terremoto del 1968. Nel nostro caso il Museo diviene un segno evidente di apertura a tutti i popoli del Mediterraneo alla ricerca di una matrice comune nella diversità. Quel sito, sorto all’interno di un ex baglio agricolo, si pone nel territorio come strumento di negoziazione e scambio dell’alterità, intendendo risolvere su un piano metalinguistico e in chiave simbolica le contraddizioni e i possibili conflitti. Si propone pertanto una visione allargata della cultura, non in senso eurocentrico, ma che abbraccia più prospettive nell’incontro con tradizioni artistiche diverse in una politica di cooperazione e di pace. Non è un caso d’altra parte che il museo abbia luogo proprio a Gibellina nuova, risorta dalle rovine del sisma. Il modello espositivo offerto dalla esperienza museale appare come un tentativo, attraverso le forme artistiche, di rovesciamento della sciagura nel segno della rinascita: quella stella di Consagra che apre le porte della Gibellina nuova sembra materializzare il saluto augurale dell’accoglienza ai sopravvissuti dalla tragedia, alle nuove generazioni di abitanti e di passanti. Così come il Cretto di Burri sulla città vecchia ormai sepolta si pone come un chiaro segno di superamento dell’opposizione vita/morte, irresolubile sul piano della prassi.

La verità è che i linguaggi artistici e museografici devono essere ripensati alla luce dei nuovi contesti urbani multiculturali e multietnici. Perché anche le città, ad esempio – prosegue l’autore − si definiscono non tanto nell’insieme dei residenti, ma nel rapporto fra l’io e gli altri, fra chi sta dentro e chi sta fuori. Attraverso i passi di poeti classici e moderni, Sloterdijk presenta un’analisi della città muovendo dalla polis greca, come modello di perfetto equilibrio. Accade tuttavia che dall’antichità al moderno, ci si allontani da quella forma ideale di convivenza e la dimensione urbana cresce generando nuovi bisogni e modelli culturali sempre più complessi. Di conseguenza numerosi individui non si riconoscono più in quelle forme di vita associata, rifugiandosi in mondi alternativi come l’eremitaggio, l’ascetismo e la misoginia.

Ogni produzione simbolica va intesa pertanto come incontro con la diversità, l’estraneo, il caos, l’interno e l’esterno. Qui l’autore recupera la lezione di Nietzsche in Così parlò Zarathustra: «Io vi dico: bisogna avere ancora un caos dentro di sé per produrre una stella danzante». Nietzsche pensa all’elemento creativo dell’arte come nascita, energia vitale, componente dionisiaca della follia, dell’eros, qualcosa di fertile che si forma già nell’utero materno.

Questo è vero soprattutto per la musica, intreccio di umanità e bestialità, campo del demoniaco per dirla con Kierkegaard. Secondo Sloterdijk la predisposizione musicale la sua stessa genesi si ricollegano a uno stato di indeterminatezza in quanto le diverse modalità d’ascolto si configurano nell’essere già in una condizione prenatale attraverso il battito del cuore e la voce della madre.

Anche il cinema d’azione, del resto, come frutto della più avanzata tecnologia contemporanea, quella degli effetti speciali, può essere visto come un ritorno ancestrale alle origini della protostoria. È il caso di Terminator II di James Cameron (1984 -1991), dove si presenta, in ultima analisi, il modello archetipale dell’homo iactans, il lanciatore di pietre che, interrompendo la fuga, segna i confini del suo habitat vitale. Così anche il più avanzato linguaggio cinematografico d’azione, con le sue sequenze universali – le unità sintagmatiche del correre, sparare, inseguirsi, pongono in tutta evidenza il ritorno alla preistoria e i processi di ominazione, fra i quali il contrattacco col nemico e la difesa, elementi fondativi nella creazione di spazi di convivenza sociale e di sistemi simbolici di riferimento.

Quale può essere allora lo statuto dell’arte dal momento che l’esperienza si configura in sostanza come coscienza decentrata in cui sussumere l’io e l’altrove, l’ordine e il caos, e dove la stessa identità va intesa nei termini di essere altro? Si può assegnare all’arte un potere compensativo, destinato a risolvere simbolicamente quei bisogni umani che non vengono soddisfatti nella sfera del lavoro o nella vita sociale e familiare in genere? Uno strumento terapeutico nei confronti di quelle tensioni e conflitti che alimentano la dimensione quotidiana, o meglio, una forma di disintossicazione espressiva, per usare le parole dell’autore, a fronte di desideri inappagati e di offese subite dalla società?

O andrebbe riconsiderata, di contro, quella carica utopica, quel potenziale antropologico, che si manifesta nello spazio estetico come riserva dell’autentico, un modo in cui l’individuo può appagare le sue aspirazioni, emancipandosi da tutti i condizionamenti materiali che la società borghese impone?

2Il pensiero ci riporta alla figura del Perdigiorno, il protagonista del romanzo di J.F. von Eichendoff.  Egli rappresenta lo sfaccendato rampollo del Romanticismo tedesco, la figura compensativa dell’insoddisfazione borghese, il giramondo in un altrove esotico. Nel suo perenne girovagare questo disertore finisce con l’offrire anche un alibi a tutti coloro che non si riconoscono nel conformismo delle regole sociali.  Ma cosa succede – si chiede l’autore, per proseguire con la metafora – quando Perdigiorno torna a casa?  Significa che il mondo ha raggiunto la sua condizione ottimale e non ha più bisogno di simbolizzare il grande altrove consolatorio, oppure verosimilmente che le linee di confine fra «costrizioni sociali e sogni di liberazione» si stanno infrangendo?

In definitiva, in questo mutato panorama della contemporaneità, quale spazio assegnare a uno statuto estetico, inteso come particolare risposta ai processi d’adattamento nella società? La risposta di Sloterdijk è certamente rassicurante quando sostiene che l’arte può ancora mantenere una sua vitalità autonoma a condizione di considerarla come coscienza decentrata, una forma di coscienza in cui l’Io ha perduto la sua funzione di centro strategico di appartenenza dell’essere nel mondo a favore di una modalità di presenza priva di centro. È questo il modo d’essere tipico della meditazione, nel senso buddhista, intesa come totalità di un certo tipo di prassi che gradualmente dissolve l’idea di un punto di vista centrale.

In questo senso Sloterdijk non pensa certamente all’arte come ascesi contemplativa, ma come una particolare modalità di oblazione simbolica che la rende necessaria e indispensabile, non tanto sotto il profilo dell’opera, ma dell’esemplarità del suo esercizio, di quello che produce e offre al mondo in una progettualità futura.

Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
________________________________________________________________________________
Orietta Sorgi, etnoantropologa, lavora presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, dove è responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006); Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015); La canzone siciliana a Palermo. Un’identità perduta (2015).

________________________________________________________________

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Letture. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>