di Claudia Calabrese
C’è un solo viaggio possibile. Quello
che facciamo nel nostro mondo interiore.
Andrej Tarkovskij
L’Angelo del dolore è la sintesi di un capitolo tratto da un’opera più ampia e dalla forma ibrida dal titolo Viaggio con Pasolini, a metà tra romanzo e saggio, all’interno della quale questo frammento acquista il suo pieno significato. Al centro c’è il racconto di un viaggio narrato in prima persona, con alcune tappe pubblicate anche in un blog e su YouTube [1], che si snoda attraverso luoghi geografici e interiori alla presenza di Pasolini con cui dialogo per decifrare i segni e le contraddizioni del presente. Ne emerge un territorio di esplorazione sconfinato che richiede lo stesso coraggio e la stessa fame di scoperta con cui Conrad, nel Cuore di tenebra, risaliva il corso dei fiumi. Le prospettive transitano continuamente da visioni a volo d’uccello, ampie ma indistinte, a sguardi ravvicinati, immersioni nella selva priva di mappe certe.
Le ragioni di questo viaggio non le conosco fino in fondo, nessuno sa davvero perché fa quello che fa. Nemmeno Pasolini. Non a caso parlava tanto delle viscere che sfuggono a ogni controllo. Possiamo ascoltarle, tentare di interpretarne i segnali. Loro sono lì. Pulsano. A volte ne avvertiamo la presenza, si manifestano nei sogni, ma la dimensione profonda rimane sconosciuta.
Se Pasolini è il costante punto di riferimento, Scout è prezioso compagno di viaggio. Esploratore d’altri tempi, nell’opera assume mille forme: vecchio saggio o soffio d’aria, specchio, talvolta s’esprime con echi e coincidenze. Ci siamo incontrati un giorno a Gerusalemme, in cima al Cedron, appena fuori dalla porta di Sion. Cercavamo Betania e abbiamo attraversato il cimitero fino ai piedi del monte degli Ulivi, dove c’è ancora l’orto del Getsemani. Lì, seduti su una panchina, abbiamo scoperto che ci accomunava l’interesse per Pasolini e abbiamo parlato a lungo del viaggio in Terra Santa per il Vangelo secondo Matteo e del fico maledetto della Sequenza del fiore di carta. Del presente che conosciamo tutti e di come il nostro mondo interiore si incontra con la realtà che la Storia ci squaderna davanti agli occhi. Della devastazione della bellezza autentica, soprattutto morale, che richiede coraggio, e della vanità che si mette in mostra senza correre rischi.
Abbiamo ricordato i versi di Pasolini: “In questo mondo colpevole, che solo compra e disprezza, il più colpevole son io, inaridito dall’amarezza”. E abbiamo pensato che aveva ragione. Oggi potremmo scrivere le stesse parole, anche se ci sembra che persino l’amarezza sia una colpa. Abbiamo condiviso un fortissimo sentimento di vergogna e ci è parso che ci ancorasse alla nostra umanità. Abbiamo ricordato l’ultima intervista di Pasolini a Furio Colombo dove ci avvertiva del pericolo della mutazione in «strane macchine che sbattono l’una contro l’altra» programmate per il consumo e l’indifferenza. E ci è tornata in mente Hannah Arendt e quella sua espressione – “la banalità del male” – riferita a chi esegue ordini senza porsi domande. E abbiamo detto che anche noi, in qualche modo, siamo diventati banali. Banalmente indifferenti a ciò che non ci tocca direttamente, impotenti davanti all’enormità dei problemi, rassegnati all’idea che le cose non possano cambiare. E abbiamo parlato della condizione umana nell’era digitale, della distanza abissale dal sacro, della tradizione culturale italiana, con i suoi giganti e le sue cecità imperdonabili. Delle guerre di oggi, di Gaza e di quei bambini che muoiono mentre noi ancora dibattiamo se sia lecito pronunciare la parola “genocidio”, prima di voltare la testa dall’altra parte.
Questo frammento del viaggio si svolge a Roma il 23 giugno e si conclude nella notte magica di San Giovanni con un sogno. Nei sogni, si sa, diventano visibili cose che pensavamo impossibili. Accade se siamo attenti e il nostro cuore è disponibile ad andare oltre la superficie e guardare negli occhi certi abissi senza distogliere lo sguardo. Quella notte, in sogno, ho visto solitudine e amarezza fiorire in tenerezza, e anche in qualcosa di affine all’amore.
L’Angelo del dolore. Roma, 23 giugno
Bisogna riempire gli orecchi, gli occhi di tutti noi
di cose che siano all’inizio di un grande sogno [...]
dobbiamo tirare l’anima da tutte le parti
come se fosse un lenzuolo dilatabile all’infinito.
Se volete che il mondo vada avanti,
dobbiamo tenerci per mano.
Dal film Nostalghia di A. Tarkovskij
«Chi, s’io gridassi mi udrebbe mai dalle sfere degli angeli?». Mi sveglio con Rilke nella testa e un’inquietudine che rende difficile qualsiasi attività che non sia camminare. Ho la sensazione di dover recuperare qualcosa di profondamente mio che ho perso. «E se pure d’un tratto uno mi stringesse al suo cuore: perirei della sua più forte esistenza». Dio mio, ogni angelo è tremendo. Troppa distanza ci separa da loro… Basta, ripete la voce di Grossmann nella mia testa, non si può vivere di sole vendette che distruggono per sempre la possibilità di parlarsi. Bisogna fermarsi a guardare gli occhi dei bambini di Gaza. Che muoiono a frotte ogni giorno. Di bombe, di malattie e di fame in un paesaggio lunare. È tutto distrutto. Guardate i loro occhi, dovete farcela… E mi tornano in mente i versi di Peter Handke:
Quando il bambino era bambino,
camminava con le braccia ciondoloni,
voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente
e questa pozzanghera il mare.
Quando il bambino era bambino,
non sapeva di essere un bambino,
per lui tutto aveva un’anima
e tutte le anime erano un tutt’uno.
Il terrore di questi bambini si trasformerà in odio, contro di noi, contro l’umanità intera. Non possiamo sopportare che soffrano così. Anche il dolore deve avere un limite, Dio ci è testimone per sempre. Quegli occhi ci dicono che è stato superato ogni limite umano, di questo passo non c’è futuro per nessuno. Se quegli occhi continueranno a guardarci così – perché guardano ognuno di noi, non solo chi li ammazza – sarà per sempre l’odio a prevalere. Non c’è possibilità di sfuggire a quello sguardo. È come quando da bambina – ma io non ero in guerra, no, io potevo ancora giocare, mangiare, dormire, crescere – non riuscivo a evitare gli occhi del quadro con il Sacro Cuore di Gesù che mi seguivano anche negli angoli più nascosti della casa, come una silente accusa nei miei confronti. Anche la crudeltà ha un limite… un limite.
I pensieri si addensano come nuvole cariche di pioggia. Roma è lì che mi circonda con quella sua aria già estiva che odora di gelsomini appoggiati al travertino. Il caldo comincia a farsi sentire, tutto è ovattato come sospeso tra cielo e terra. Nella mia mente c’è la confusione della mosca nella bottiglia che sbatte contro pareti invisibili fino allo sfinimento. Sono io, quella mosca? Io che non vedo vie d’uscita dalla bottiglia, finché non mi fa male, finché non mi tocca direttamente, che non vedo la realtà dietro il vetro delle mie incertezze…
Salgo sul primo autobus, altro luogo chiuso, contenitore di pensieri che si muove nello spazio e raccoglie e deposita corpi e ansie, preoccupazioni e sogni di sconosciuti che per un po’ condividono la stessa traiettoria geografica e forse esistenziale. Fuori dal vetro, il traffico, incurante, scorre attorno a una danza urbana, eterna lotta dell’uomo contro il tempo. Al lungotevere Arnaldo da Brescia l’autobus si ferma proprio davanti al monumento a Giacomo Matteotti, assassinato dai fascisti nel 1924. Sulla lapide rileggo le parole che pronunciò alla Camera dei deputati poco prima del rapimento e della morte: «Uccidete pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai».
Nel clima attuale mi sembra uno dei monumenti più esposti di Roma, insieme alle pietre d’inciampo che ricordano le deportazioni degli ebrei nei lager durante la Seconda guerra mondiale. Questo pensiero mi toglie la pace: come può l’odio conservare tanta forza dopo decenni? Come fa a sopravvivere, a rigenerarsi, a trovare sempre nuove forme e nuovi bersagli?
Quante domande, dubito di tutto, di me soprattutto. Di una cosa però sono certa: non sopporto le manipolazioni sfacciate e chi le fa, l’illusionismo degli incantatori. Così li definiva Don Chisciotte. Anche solo a pensarci provo un senso di repulsione che arriva fin dentro le ossa. E addio vita tranquilla… Quando ne avverto la presenza smonto tutto, pezzo per pezzo. Anche ieri sera, come un orologiaio d’altri tempi, ho scomposto la realtà in frammenti minuscoli. Per capire, interpretare, punto per punto. Puntualmente tutti quei pezzettini di realtà sparsi sul tavolo della mente si mescolano al bagaglio ingombrante dei miei ricordi, condizionamenti che non riesco a depositare da nessuna parte. E mi perdo. Non di rado arriva in soccorso Pasolini, anche lui è dentro di me. Lo sguardo, le parole, il suo mondo sono diventati per me come un filtro. In tanti anni di studio ho imparato a dialogare con lui, consapevole che nel dialogo anche Pasolini diventa una proiezione di me stessa. Ma è l’unico modo, l’unico per capire il mistero che siamo di fronte a noi stessi.
Sono sovrappensiero, devo fuggire anche dai luoghi comuni e dalle frasi fatte che inquinano l’interpretazione della realtà. Ah, ma ecco Castel Sant’Angelo. Quante vite diverse in due millenni, mausoleo, rifugio, prigione… i significati si sovrappongono come strati di pittura sulle pareti. E il travertino lì, immobile, testimone di secoli che scivolano via come l’acqua del Tevere sotto le fondamenta. Che magnificenza architettonica! Adriano sfidava la morte o aveva manie di grandezza? A equilibrare arriva il ricordo di Tosca che sente di non avere più futuro e si getta nel vuoto proprio da qui. Ah, il mio Puccini e quelle creature così preziose per il suo mondo interiore…
Il fiume scorre in silenzio: le viscere, come l’acqua, seguono il loro corso e a noi non resta che tentare di capire dove ci conducono. Quanta strada dalla mutazione antropologica di Pasolini. Il mondo mi pare un teatro di marionette governate da fili invisibili come le onde del wi-fi e algoritmi che manipolano desideri, pensieri, pulsioni. Ci muoviamo con gli stessi gesti obbligati, prevedibili. Come chatbot che rispondono con frasi studiate per sembrare umane: “Ciao, come stai?” “Bene, grazie, e tu?” Danze di cortesia programmata e smartphone di ultima generazione che sanno tutto di noi, prima di noi. Dove andiamo prima che lo decidiamo, cosa compriamo prima che apriamo il portafogli. È l’epoca del burattinaio perfetto che ci illude che siamo noi a scegliere. E nel frattempo governa i fili con precisione millimetrica.
Qualche volta ci spingiamo oltre: restiamo marionette anche quando sappiamo di esserlo. Non sempre, certo, ma accade di tenersi stretti ai fili perché in fondo seguire un copione pensato da altri è più semplice che scriversene uno da soli, dà più sicurezza. La libertà spaventa, la sincerità stanca, pensare con la propria testa richiede energie che si preferisce investire altrove. La vera rivoluzione sarebbe tagliare i fili e riconquistare l’insicurezza.
Sì, ha ragione Rilke. Ogni angelo è tremendo. Troppa distanza ci separa da loro. Da bambina non lo sapevo, il mio angelo custode mi sembrava così vicino da sembrare il mio doppio…
“Angelo di Dio, che sei il mio custode…” Ma tu che angelo sei?” gli chiedevo. “Un angelo e basta, o uno che vuole diventare come me?” Avevo sentito dire che succede. Lasciano la loro natura immortale per entrare nella vita degli esseri umani. Fanno scelte. Sbagliano. Amano. Muoiono. Come gli angeli del Cielo sopra Berlino. Scelgono di cadere, rinunciano all’eternità per i sentimenti. Per la fragilità. È questo che ci rende speciali? La nostra fragilità?
Forse la bellezza sta nel cadere…
Al semaforo, un gruppo di turisti attraversa la piazza con una moltitudine di telefonini alzati verso Ponte Sant’Angelo: facce illuminate da un’estasi mistica come chi cerca dio nelle chiese e lo trova nel piccolo schermo. L’ombrellino giallo-arancione della visita guidata si ferma all’inizio del Ponte, davanti alle statue di San Pietro e San Paolo; mi ricordano le antenne, delle antenne umane rivolte tutte nella stessa direzione mentre dagli auricolari ricevono informazioni su pietra e storia… di riflesso, alzo lo sguardo alla ricerca delle antenne vere, quelle metalliche, che spuntano dai tetti dei palazzi come i grandi fiori tecnologici di una modernità che ha sempre bisogno di essere connessa, comunque, dovunque, anche se mi sembra comunichi sempre di meno, o, peggio, comunichi il falso.
Come abbiamo perso il rapporto con il sacro? Quando abbiamo smesso di tenerci per mano? Mi appoggio al parapetto, fa ancora caldo e mi sembra di avere la pressione bassa. Dovrei riposare ma mi sento come se avessi la febbre. Penso ancora a Rilke che lo sapeva, sapeva degli angeli. E Simone Weil, anche lei lo sapeva, forse anche lei era un angelo. Il mio non aveva fatto quella scelta, rimaneva in cielo ma mi stava vicino perché non dimenticassi di non essere solo materia. Chissà se anche Scout… Gliene parlerò. Giuro che gliene parlerò. “Scout, dove sei? Quando è necessario non ti fai mai vedere, è la tua specialità.”
Mi affaccio dal parapetto, giù in basso il Tevere scorre silenzioso. Sarà perché riconosco i luoghi – il Barcone del Ciriola nell’aria «tesa come la pelle d’un tamburo» – sarà che mi manca Scout, ma insomma comincio a sentire forte la presenza di Pasolini. Non dell’intellettuale ma dell’uomo che frequentava quegli stessi luoghi. E li amava.
Tutto oggi è cambiato. I ragazzi delle borgate che urlavano e menavano per affermare la loro esistenza non ci sono più. Al loro posto, c’è una popolazione diversa: clochard, senzatetto, anime alla deriva. Angeli caduti, mi viene da pensare. Sorrido di questa mia tendenza all’angelologia, ma non riesco a resistere. Forse davvero esistono stirpi millenarie: creature celesti “cadute” che non hanno mai imparato i codici dell’umanità ordinaria. Ma qui sta il punto, Pier Paolo – sì, quando lo sento così vicino lo chiamo per nome, gli parlo come se fosse proprio qui accanto a me –: questi non sono i tuoi sottoproletari. Può darsi anche che alcuni di loro provengano dalla piccola borghesia che detestavi. Può darsi che abbiano fatto una scelta radicale: l’essere al posto dell’avere con tutte le conseguenze. Ma tu non riuscivi neppure a immaginare una possibilità simile, prigioniero com’eri di categorie sociologiche rigide che separavano il mondo in compartimenti stagni. Scout ha ragione quando dice che è un azzardo rifiutare la borghesia in blocco. Considerarla solo falsa coscienza, come facevi tu, una sorta di immutabile categoria dello spirito, significa rischiare di non capire molti aspetti della realtà.
L’Arcangelo Michele con la sua spada mi guarda dall’alto. La mano ferma sul fodero sta per colpire o ha già colpito?
La mercificazione dell’esistenza, l’antitesi tra essere e avere, l’esplorazione degli istinti distruttivi del capitalismo sono tutti temi trattati anche da Erich Fromm in libri-culto che attraversavano le classi sociali e che ogni giovane con ambizioni intellettuali doveva aver letto: Psicoanalisi della società contemporanea del 1955, L’arte di amare dell’anno dopo, Anatomia della distruttività umana e infine Avere o essere? del ’76. Eppure, Pasolini non cita mai il filosofo della Scuola di Francoforte emigrato in America, compagno di percorso di Adorno e Horkheimer. Un’assenza che stupisce perché le intuizioni di Fromm anticipano e rispecchiano le sue stesse battaglie. È singolare camminare su sentieri vicini e non incrociarsi mai…
Neppure in America dove invece incontra la Beat Generation. Eppure, anche Kerouac e Ginsberg erano ossessionati dal primato dell’essere, fuggiaschi della rispettabilità borghese. Ma niente, a Pasolini sfuggiva il fatto che la loro rivoluzione partiva dall’interno della classe che per lui era il nemico. E così anche quando la borghesia generava i propri eretici, la sua visione seguiva correnti profonde che la ragione faticava a decifrare. Le viscere. Perché, Pier Paolo? Vorrei comprenderti con giudizio e senso del limite, senza scorciatoie, perché ti sento come una ferita aperta nel corpo della cultura italiana e anche dentro di me. C’entra il grembo materno di estrazione contadina, ma anche un po’ piccolo borghese? C’entra il rapporto con tuo padre, piccolo borghese di estrazione vagamente aristocratica? A me sembra che anche tu abbia commesso l’errore di cui accusavi i ragazzi del ‘68, non ti sei cioè confrontato con il potere dei Padri, volevi abbatterlo, o abbandonarlo.
Le tue deduzioni sul nuovo fascismo sono poetiche, presentano spunti di verità. Ma non sembrano aver fatto i conti con il vecchio fascismo, quello nel quale sei cresciuto fino alla fine dell’Università. L’abbandono dello Stile della grande tradizione è segnato dal senso di colpa per la morte di tuo fratello Guido, morto partigiano. Ne scrivi nella Religione del mio tempo molti anni dopo. L’abbandono graduale della cultura della Tradizione, l’ingresso nella Storia, la realtà che si esprime solo con la realtà – che cosa difficile da comprendere… – tutto sembra passare attraverso quel dolore che non finirà mai. Non hai avuto il tempo, non ti hanno dato il tempo di elaborare i tuoi lutti… sei morto troppo presto, troppo presto…
Cammino oltre, arrivo nel punto più a sud dell’Isola Tiberina. Qui succede qualcosa, come un’improvvisa variazione di luce. Vedo le basi della chiesa di San Bartolomeo apostolo costruite sulle rovine di un tempio dedicato a Esculapio – Asclepio per i greci – semidio figlio di Apollo e di Arsinoe, secondo il racconto di Esiodo. Sposto lo sguardo di poco, verso destra, e scopro l’imponente cupola della Sinagoga del ghetto ebraico. In un solo sguardo tremila anni di civiltà. Una rivelazione improvvisa: tre fedi, tre visioni del mondo che si sono succedute e sovrapposte senza mai cancellarsi completamente. La cultura si costruisce per sedimentazione di senso. Ma oggi che stiamo facendo? La complessità mi sembra in pericolo mortale, tutto è ridotto a codici binari, formule semplificate che non colgono sfumature, contraddizioni feconde, chiaroscuri dell’esperienza.
Questo stesso panorama deve averlo visto anche Pasolini. Forse allora sembrava scontato, per questo on ne trovo traccia nei suoi scritti. Ma ora appare come un tesoro da salvare. No, certo, non voglio rimproverarlo per un’assenza quando i suoi doni sono stati così immensi. Ma ho bisogno di confronto vero, la sua opera è una bussola per orientarmi nella selva oscura in cui siamo sprofondati. C’è bisogno di guide esperte, voci che abbiano attraversato il buio prima di noi. Il nostro lavoro di comprensione è diventato titanico. La mutazione antropologica che Pasolini denunciava negli anni Settanta si è trasformata in un cataclisma che sommerge ogni cosa. Serve una capacità di discernimento quasi soprannaturale, un’attenzione che sappia filtrare il rumore per trovare il senso. E serve il coraggio di amare e di lottare in un tempo che incentiva l’indifferenza e la resa.
Mi piacerebbe confrontarmi con il nuovo Papa. Non per fede – anche se forse una scintilla sopravvive, chissà… – ma perché vedo in lui un discendente spirituale di Sant’Agostino, qualcuno che non smette mai di esplorare gli abissi interiori. Da dove viene questa capacità di scrutare dentro sé stessi, mi chiedo, quando la Storia ci travolge come una tempesta che non lascia respiro? Ma qui non si tratta solo di frugare dentro noi stessi. Con Leone XIV vorrei parlare dei bambini di Gaza. Quelli che si aggirano fra le macerie alla ricerca di qualcosa da mangiare e di una goccia d’acqua e che a volte, mentre la fame li divora e le bombe cadono a grappoli sulle loro teste, sembrano manifestare ancora qualche brandello di un viscerale bisogno di giocare. Anche loro hanno un angelo custode. Ma giocare non si può nella tenaglia della morte, soprattutto della morte in vita. Cosa c’entra l’antisemitismo, cosa c’entra l’antisionismo delle polemiche di questi giorni? L’ho detto anche ai miei amici ebrei del ghetto: evitiamo di cadere in questo tranello che noi stessi ci tendiamo. Molta gente non sa nemmeno cosa siano. Ci sono le macerie, i bambini, la gente che muore di bombe, di malattie, di fame. Si ammazzano i civili per raggiungere i terroristi. E nel frattempo, gli occhi dei bambini non sanno più nemmeno piangere. C’è qualcosa, o qualcuno che possa farci pensare alla salvezza?
Secondo la tradizione è nato a Betlemme, a sud di Gerusalemme, poi Giuseppe e Maria sono tornati con lui in Galilea, a Nazareth. Come Pasolini, anch’io sono stata in quella terra a cercare i luoghi del Vangelo. La Galilea conserva ancora la sua dolcezza antica, Gerico mantiene un’aura sinistra che attraversa i secoli. Ma Betlemme è prigioniera di un muro che lacera l’anima: fratelli che si guardano come nemici, monoteismi che si fanno guerra in nome di Dio. Anche tu, Pier Paolo, sei partito per cercare ispirazione e hai trovato desolazione: modernità selvaggia, paesaggi sacri trasformati. Dov’è Emmaus, dov’è Betania? Il monte degli Ulivi offre solo la vista di una Gerusalemme bellissima e dannata, città santa che si è fatta prigione di sé stessa. Prevale la presenza minacciosa di Meghiddo, dove secondo la tradizione ebraica si combatterà la battaglia finale, l’Armageddon. No, mi dico fermandomi un istante lungo la riva, non può, non deve essere questo l’epilogo.
Possiamo ricreare continuamente la realtà dentro di noi, che lo riconosciamo o meno. Ogni momento può essere un nuovo inizio, il percorso più familiare può deviare, condurre in territori inesplorati che aspettano di essere scoperti e nominati – come nei romanzi di Conrad. È l’attenzione che ci permette di frenare la fretta di Kronos e dilatare l’istante fino a trasformarlo in Kairos: quell’attimo infinito nel quale la Storia può improvvisamente diventare un’altra Storia. Il Kairos al quale Gesù invitava inutilmente i suoi discepoli, prima di essere catturato e ucciso. La solitudine è anche questo: non essere riconosciuti per quello che si è in un momento cruciale, quando la vita sta diventando Kairos. Allora senti come peggiore della morte il tradimento di chi avevi scelto come compagno: come nel Getsemani, con il bacio di Giuda, ma anche con l’incapacità di tutti gli altri di vegliare pregando insieme a lui. O il silenzio dell’Altro per eccellenza, del Padre che dovrebbe dare sicurezza e salvare, come sulla croce.
“Ely Ely lama sabactani, Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”
È un grido che attraversa i secoli senza trovare risposta, come è accaduto al popolo ebraico nei lager, come accade oggi al popolo palestinese e a tutti i popoli che subiscono lo sterminio. Dov’era Dio durante la Shoah? Dov’è ora mentre Gaza brucia? Dov’è quando i bambini muoiono sotto le macerie?
È il silenzio più assordante della Storia, che speranza resta agli uomini di buona volontà? Forse la risposta non sta nel cielo, ma in terra, nelle mani di chi sceglie di non voltare lo sguardo. No, non vado dal Papa. Forse l’indignazione e il dolore non riescono ancora a vincere la sfiducia nelle sue reali possibilità di intervento. Cammino lungo il Tevere, verso Testaccio.
Dev’esserci una scuola di musica qui vicino, sì, a Testaccio. Ci sono stata una volta, era diretta da Giovanna Marini, scomparsa da poco. Andai da lei perché mi dicesse qualcosa sul suo primo incontro con Pier Paolo Pasolini, quando lei era ancora una concertista classica e lui un poeta che studiava musica e canto popolare. Scenette gustose nelle quali brillava l’umanità di questi due artisti che s’incontravano per la prima volta. Ma io ero tesa, pensosa. Per andare da lei ero passata per quella parte del Tevere, quasi sotto il ponte di Orazio Coclite – un solo eroe che difende la neonata Roma dagli Etruschi – che sta dirimpetto alle muraglie che sorreggono l’Aventino. Era il tramonto di una giornata piovosa quando ricordo di aver sentito un flicorno solitario con le sue note lunghe che si perdevano nell’eco che rimbalzava dalle antiche muraglie dell’Aventino. Un altro Orazio Coclite, ho pensato. E mi sono riconosciuta in lui, solitaria anch’io nella ricerca costante di qualche risonanza che mi facesse sentire viva. Forse è questa la condizione di tanti giovani: cercare disperatamente un’eco, eppure essere animati da uno spirito titanico come quello di Orazio Coclite. Uno spirito che però risulta inutile, perché le orecchie del mondo sono sigillate.
La solitudine di quel flicorno somigliava a quella del flauto del viaggio in India di Pier Paolo, quando gli sembrava che con quei suoni un ragazzo volesse comunicare l’incomunicabile. Troppo diversi i mondi, ma forse la musica; sì, la musica che non richiede la mediazione esplicita dei significati, come scrive nel Poeta delle ceneri. Forse… Cos’è un essere umano che non ha la possibilità di farsi comprendere? Cos’è soprattutto oggi, con gli spostamenti continui di milioni di persone di culture ed esistenze anche radicalmente diverse in tutto il mondo per mille ragioni. Persone in fuga, o alla ricerca di nuove radici, di nuove relazioni il più delle volte nell’ostilità generale. Cos’è? Solitudine immensa che nemmeno l’eco delle muraglie dell’Aventino vale a vincere. È la morte per Pasolini. Sì, è la morte che si sconta vivendo, scrive Ungaretti facendogli eco.
Quella sera la Marini chiese anche a me di provare a cantare in un coro della Scuola, a me e a Scout che mi accompagnava. Lui se la cavò egregiamente – e qui devo dire una cosa su Scout, che si adatta a tutto con una facilità che francamente certe volte mi fa venire una rabbia assurda, perché è come se avesse questo superpotere di entrare in sintonia con qualsiasi gruppo, situazione, dinamica sociale. Mentre io sto lì a sforzarmi di trovare la mia nota, la mia frequenza, il mio posto nel mondo, lui è già dentro, già parte del meccanismo, già integrato, come se fosse nato per quello specifico momento, per quell’armonia collettiva – comunque, dicevo, lui se la cavò egregiamente. Io no. Facevo una fatica sovrumana a inserirmi in un gruppo musicale, e non è che fosse una questione di capacità tecniche (anche se magari pure quelle non è che brillassero particolarmente), è proprio che mi sentivo come quel flicorno solista di prima: con questo bisogno di comunicare ma allo stesso tempo senza riuscirci, e allora finivo per ricorrere all’eco. Cioè a ciò che mi restituivano gli occhi e i comportamenti altrui… Ci ho lavorato però, eh. Non mi sono arresa e quell’incontro con Giovanna Marini, fu determinante per farmi comprendere qualcosa della dimensione collettiva: attraverso i suoi racconti sulla musica popolare e soprattutto i suoi cori, mi aveva mostrato cosa può essere un mondo diverso. Ne parlai a Scout, come di una rivelazione che poteva cambiare tutto.
Così, ricordando, arrivo alla Piramide Cestia. La sua forma antica si staglia contro il cielo di Roma come un enigma di pietra, un frammento d’Egitto trapiantato nella città eterna. Entro nel Cimitero degli inglesi – o degli anacattolici, come preferisce chiamarlo chi conosce la storia di questo luogo. Cerco qualcosa, o forse qualcuno. I miei passi mi portano verso la tomba di Antonio Gramsci… sento crescere in me un’ammirazione profonda per la fibra morale di quest’uomo. Gramsci, morto in un carcere fascista prima della guerra, con la sua intelligenza cristallina, la sua cultura vastissima, quella disponibilità commovente a mettersi al servizio della classe lavoratrice che, secondo lui, doveva sostituire presto la borghesia alla guida del Paese. Una borghesia che lui – come del resto Marx nell’Ottocento – non demonizzava per niente. Una generosità che ha pagato con il carcere e con la morte. Quanto è bello questo pensiero che mette insieme tutte le classi, più o meno sfruttate, offrendo loro una nuova dignità attraverso la cultura e la politica. Bisognava lavorare moltissimo sulla cultura, pensava Gramsci, perché la nuova classe dirigente non fosse un’accolita di dilettanti allo sbaraglio, ma una realtà responsabile verso tutti. Che combinazione, penso: sul lungotevere questa mattina sono partita da Giacomo Matteotti e sono arrivata da Antonio Gramsci.
Mi viene in mente Ciàula – il caruso di Pirandello che esce di sera dalla miniera nelle viscere della terra siciliana e per la prima volta in vita sua scopre la luna. La meraviglia di quello sguardo verso il cielo, dopo anni passati nel buio delle profondità. Quanti Ciàula ci sono stati e ci sono ancora nel mondo? Quanti vivono nelle profondità senza mai alzare lo sguardo, senza sapere che esiste un mondo di luce sopra le loro teste? Che forma ha il nostro buio oggi? La vera tragedia non è nascere nella miniera, ma decidere di restarci quando si ha la possibilità di uscirne. E ancora peggio: impedire ad altri di vedere quella luna che potrebbe illuminare anche le loro vite.
Mi allontano dalla tomba di Gramsci con il cuore pesante e leggero insieme. Pesante per tutto il dolore del mondo che questo nome evoca, leggero per la speranza che quelle idee ancora alimentano. Sento la presenza di Scout, mi guardo intorno un po’ timorosa e lo vedo seduto accanto a una tomba sovrastata da una scultura bellissima.
“È l’Angelo del dolore”, mi dice dalla panchina dove si è fermato. “Vieni, siediti. Lasciati catturare dalla bellezza.”
La scultura è del 1895, opera di un americano, William Wetmore Story. L’ha scolpita per la moglie Emelyn, e per il figlio Joseph, morto a sei anni. Terminato il lavoro è morto anche lui ed è stato sepolto qui insieme a loro. Non ho mai visto un monumento funerario così bello. Il marmo sembra respirare, l’angelo tiene il capo chino in un gesto che racchiude tutto il dolore del mondo, eppure c’è una bellezza così potente in quella sofferenza che mi toglie il respiro. “Sai,” dico a Scout, “questo angelo mi ricorda qualcosa che scriveva Rilke. Gli angeli non sono consolatori, sono tremendi nella loro bellezza. Questo qui però consola, perché piange con noi”. “È vero,” risponde Scout, e la sua voce sembra venire da molto lontano, “ma guarda bene. Non sta solo piangendo. Sta vegliando. È un guardiano del dolore, non è suo prigioniero”.
Penso ancora a Gramsci. Quanto dolore anche per lui, morto in carcere senza alcuna colpa, la moglie ammalata e i figli lontani che non potevano venire in Italia, perché il vecchio fascismo non era solo un complesso di idee bislacche, ma una cappa di piombo sulla testa e una colata di cemento intorno al cuore. E mi sembra di vedere Pier Paolo che entra in questo cimitero nei primi anni Cinquanta, appena arrivato dal Friuli con la madre. Erano poverissimi. Lui prendeva due o tre autobus per insegnare in una delle tante periferie, dopo i fatti di Ramuscello per i quali doveva subire un processo che poi lo prosciolse e sugli autobus studiava, si guardava intorno. La madre, Susanna, che in Friuli era stata una maestra elementare, faceva qui e là la collaboratrice domestica, con l’aiuto di qualche amicizia.
“Scout,” gli dico, “credi che sia possibile che il dolore si trasformi in qualcos’altro? In bellezza, in compassione, in…” “In vita,” completa lui. “Sempre. Ma bisogna attraversarlo, non aggirarlo. Come questo angelo. Sta attraversando il dolore, non lo nega lui”.
Una strana luce dorata inizia a filtrare tra i cipressi, anche se il sole è già basso. È come se il cimitero si trasformi in qualcosa di diverso, un luogo dove il tempo non ha più presa. Vedo ombre che camminano tra le tombe, ma non sono inquietanti. Sono i morti che vengono a trovare i vivi, per ricordare loro che l’amore non finisce mai, nemmeno quando i corpi si dissolvono nella terra. L’amore che, come il dolore, ha qualcosa a che fare con la bellezza.
“Questo è il vero realismo magico,” sussurro a Scout. “Non è che accadano cose impossibili. È che le cose possibili diventano improvvisamente visibili”. Ma Scout sorride e non risponde. Sa che ho capito.
Dall’autobus che mi riporta a casa lo vedo allontanarsi con passo pensoso. Chissà dove sta andando. Rientro mentre cala la sera, mi accascio sul divano, nella mente ho ancora gli uomini macchina dell’ultima intervista di Pasolini, l’angelo custode del nostro dolore, e il ricordo angosciante di quel flicorno alla ricerca di sé stesso dentro l’eco delle muraglie dell’Aventino. E scivolo nel sonno.
Nel sogno Scout è in quell’incrocio di vie dove avevo sentito il flicorno solitario. Ma è tutto trasfigurato: è lui che suona ora. Non è più solo. Attorno a lui si materializzano delle figure, ombre che prendono consistenza all’Isola Tiberina, in quello spazio sacro dove si incontrano Esculapio, San Bartolomeo e la Sinagoga. Hanno strumenti musicali: flauto traverso, contrabbasso, violini. È un susseguirsi di note e ritmi che si propagano fino all’Aventino e riempiono la notte di echi festosi. Altro che flicorno solitario! Qualcuno accende un fuoco e tutti si radunano intorno suonando. Arrivano anche i senzatetto, uno con un cane che si accuccia sereno. E poi – visione che sfida ogni logica! – stormi di angeli dalle ali luminose si posano in cerchio perfetto, le vesti candide che fluttuano come seta nel vento. Si muovono in una danza rituale che sembra governare le stelle stesse, mentre dal loro movimento nasce una Bourrée di Bach trasformata in jazz cosmico. Ogni battito d’ala scandisce il tempo, ogni gesto traccia geometrie celesti che si riflettono nella musica terrestre. È come se l’intero universo avesse trovato il suo ritmo, e cielo e terra danzassero insieme in una sinfonia che abbraccia galassie.
“Arriva Michele!” grida qualcuno. Scout solleva la mano, interrompe la musica con un gesto che sembra comandare ai pianeti. Nel silenzio che si fa cosmico risuonano versi di Pasolini che conosco a memoria. «Solo l’amare, solo il conoscere conta… non l’aver amato, non l’aver conosciuto. Dà angoscia il vivere di un consumato amore. L’anima non cresce più». Ma quella che li sta urlando sono io, è la mia voce. È questo il prodigio? Questo noi che abbraccia l’intero creato? L’ha fatto per me, maledetto Scout, penso nel sogno. Sì, l’ha fatto per me, oddio, proprio per me. E io gli ho risposto con quei versi di Pasolini, mentre il coro degli angeli – quelli destinati a cadere e quelli che resistono alla caduta – unisce cielo e terra in un tutt’uno indistinguibile. Non so più se sto ancora sognando. Piango. E un fuoco che rischiara la scena trasforma la notte in giorno.…
Noi fummo
mani,
tuffate a vuotar le tenebre, e trovammo
la parola che risaliva l’estate.
Fiore.
P. Celan
Lasceremo quel fiore al lido di Ostia, dove tutto si è fermato… ma si è fermato veramente?
Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025
Nota
[1] Cfr. www.youtube.com/@Pasolinielamusica e https://viaggioconpasolini.blogspot.com/
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Claudia Calabrese, dottore di ricerca in Storia e analisi delle culture musicali all’Università La Sapienza di Roma, studiosa di musica e letteratura, docente di lettere. Attratta dagli studi interdisciplinari, si è occupata di Giacomo Puccini e di Pier Paolo Pasolini. In Alchimie pucciniane (Accademia di Scienze lettere ed arti di Palermo, 1999) e Manon Lescaut, presagio di una trasmutazione (Avidi Lumi, rivista della Fondazione del Teatro Massimo, 2000) si è accostata all’opera e alla vita del compositore toscano con gli strumenti della psicoanalisi junghiana. Il suo Pasolini e la musica, la musica e Pasolini. Correspondances (Diastema Studi e Ricerche, Treviso 2019) ha ricevuto la menzione speciale per l’originalità e il rigore analitico dalla Giuria del XXXIV Premio Pasolini bandito dal Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Fondazione della Cineteca di Bologna.
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