Pagina per pagina, ho sostato sul libro di Dionigi Albera per Lampedusa. Una storia mediterranea, trovandomi di fronte a un unicum: perlustrati i quadri, naturali e antropici, dell’isola–ponte tra Italia e Africa.
Quasi un viaggio planetario – temporale, mentre scorrevano le situazioni e le forme marcatamente diverse, pur se concernenti la medesima isola, lungo gli otto capitoli, cui si aggiungono l’iniziale Ouverture. L’isola– mondo, il finale Teatro della frontiera, e l’aggiornamento apposito per l’edizione italiana.
Alla Lampedusa dello schermo televisivo, anteriormente, mi corrispondeva un’immagine sbiadita, quella su cui si proiettano le cronache attuali degli sbarchi, frequenti, talora falliti e finiti in tragedie. Non ero informata delle diversità accadute lungo la linea del tempo. Infine, mi trovo nel contrasto di molte sensazioni e di molte riflessioni, prima di risolvermi per una valutazione. Come afferrare i vari fili, come disporli nel confronto con i miei percorsi personali? Sono con il fiato sospeso e rischio di perdermi in una vertigine. Pure mi accingo al ripensamento complessivo, alla “scheda” ideale da aggiungere alle letture cumulate sulla questione. È il momento della sintesi, della raccolta dei fili. Li prospetto: in primis, la scoperta di una storia, di natura e di umani, amplissima entro uno spazio minuscolo: un vero ossimoro. Poi, la consapevolezza della mia ricezione, perché certo, leggendo, ho avvertito anche uno scostamento di giudizio con l’autore, una personale, certo scontata e ingenua, “diversità di paradigma”. Infine, inevitabile premessa, “il situarsi”: intendendo, che le date in cui avvengono gli incontri contano.
Esaurisco subito questo aspetto: non è di poco conto considerare i tempi. Quelli del libro, innanzitutto: la prima formulazione è uscita nel 2023 in Francia, il che porta a datare la raccolta dei materiali intorno al 2020. La postfazione, però, per la versione in italiano, presso Carocci, marzo 2025, è, dichiara l’autore, del settembre 2024. Le vicende intorno, dunque, sono segnate da grandi eventi: dal 24 febbraio è guerra combattuta sul terreno dell’Ucraina, a opera della Russia di Putin. Intanto qui in Italia, con l’attuale governo entrato in carica il 22 ottobre 2022, è cambiata profondamente la politica dell’accoglienza relativa ai migranti. Poiché sono modificati i dispositivi anche per Lampedusa, luogo – meta, l’autore avverte dei cambiamenti occorsi nella postfazione (Settembre 2024): un testo che tralascio, per il tono autobiografico.
Sono dunque alle coordinate della lettrice: oltre a trascurare la postfazione, so che, nell’impegno del commento, non dismetterò il sentimento presente. Rilevo: ora, agosto 2025 – “agosto”, menologio di commemorazioni: Bologna e la strage del 2 agosto 1980, nonché Hiroshima e Nagasaki, e l’orrore nucleare del 1945 –. In me ora si sovrappone, all’immagine austera-inquieta del mare Mediterraneo, la consapevolezza dei meccanismi di sorveglianza in atto, certo anche coadiutori della guerra in corso sulla sponda orientale, specie nello spazio di Gaza: mirando a quello spazio, gruppi immobiliari si strutturano per l’architettura urbanistica gradita agli speculatori, in un processo che finalizza il “domicidio” delle strutture, lo strazio della comunità abituale, nel subentro di immobiliari per inquilini del lusso.
Input molteplici, dunque: ma preziosa, da non disperdere, a lettura ultimata, la sensazione di vertigine. Inevitabilmente, come accade che le sensazioni ravvivino letture anteriori, mi aggrappo al titolo calviniano Cosmicomiche – dove, è chiaro, quel “comico”, accanto al cosmo, vale per “volubile in quanto umano”: volubile nelle gamme umorali, come negli impatti di ambienti e di incontri. Calvino, constaterò presto, qui c’è, ma come saggista. C’è un cosmo al di sopra dell’isola, ma funge da lente per perlustrare la zona: poco si eleva sulla verticale, insistendo sulla terra, sul mare, sui gruppi umani che si scambiano. È proprio la vicenda esposta che fa da cosmo, lungo la sua documentazione: Lampedusa terra di frequentazione ineguale, di intervalli che sono stati, si documenta, prolungati, vuoti di opere umane. Lungo questi silenzi supplisce l’esame del terreno, delle forme vegetali e animali, delle impronte. La materia, insomma, richiama piuttosto l’Ariosto, il poema delle intricate vicende che si snodano, si sospendono, si riconnettono, tra i capitoli, sospesi in soste intriganti. Pure, Italo Calvino è suggerito dallo stesso Albera: non per le Cosmicomiche, tuttavia. Invece, per il suo commento, appunto, all’ariostesco Orlando Furioso: come lettore di particolare esperienza. Il narratore – saggista è citato infatti a p. 54 (e relative note a p. 231) come interprete affidabile del disegno spaziale d’Ariosto. Egli abbracciandone complessivamente il poema, dice Albera, suggerisce di adunare il girovagare vertiginoso degli scenari in uno spazio raccolto, con perno «sulle isole piccole e grandi del Mediterraneo». A quel perno Albera dà il nome appropriato e specifico: Lampedusa – e Lampusa in Ariosto – «vero epicentro della conclusione del dramma, con il suo duello interminabile ed estenuante che segna la fine della guerra tra cristiani e musulmani» (ivi: 54).
Uomo del Rinascimento, Ariosto alimenta di spazi e viaggi la sua immaginazione: non però con l’esperienza reale, restìo com’era a lasciare la sua casa; piuttosto con i sussidi presenti nelle biblioteche estensi, mappe e mappamondi. Erano tali gli strumenti che, già dalla fine del Trecento, sotto l’impulso dei portoghesi e in particolare di Enrico il Navigatore, fornivano l’assist necessario per le scoperte intercontinentali. I variatissimi incontri etnici dei navigatori portoghesi, intrapresi in genere sulle coste – comunque nel 1518 Leone X consacrò il primo vescovo nero, condotto dal Kongo – erano diventati conquiste, sancite da poteri autorevoli del Vecchio Mondo.
Un poema fantastico, l’Orlando Furioso,
in cui tralucono, però, molte esperienze dirompenti. Allo scioglimento, la fine di Orlando è indotta per ellissi, mentre il racconto esplicito indugia sulla coppia capostipite degli Estensi protettori del poeta, Ruggero e Bradamante. Alla conclusione del poema, sono questi che diventano i protagonisti, ed è significativo per riflettere su Lampedusa, il loro intreccio, che è sentimentale e insieme interculturale: il cavaliere ha precedentemente difeso l’Islam, mentre la donna è campionessa del campo cristiano. La prospettiva di tolleranza, qui segnata, è consolante per Albera. Egli annota come sia equanime lo spazio poetico e valoriale espresso lungo il poema: «Se lo scontro è innegabile, esso si situa in uno spazio orizzontale, abitato da concorrenti bellicosi, che sono per molti versi simili ed equivalenti [...] Che siano Franchi, Inglesi o Saraceni, parlano tutti la stessa lingua e si capiscono tra di loro. L’amore non conosce barriere di religione o di razza» (ivi: 58). È però da dire che i dovuti protocolli sono infine recuperati: Ruggero, nato da genitori cristiani, ma educato poi in Oriente dal mago Atlante come musulmano, e protagonista di episodi fondamentali del Furioso – tra tutti, ricordo la sosta nell’isola incantata della maga Alcina – alla fine comunque si converte al cristianesimo: una “normalizzazione dottrinale” richiesta nella diplomazia europea dell’epoca.
Una spazialità – vertigine, dunque, condotta in uno spartito disinibito di lieta armonia: così posso definire l’impressione complessiva ricevuta dalla memoria ariostesca, e con una tale connotazione posso inserirne la “stringa” nel data-base delle mie letture, per confronti e analogie di atmosfere. Si affaccia però qualche perplessità: pur aderendo per lo più ai punti di vista espressi, del resto accordandosi Albera con gli studiosi più autorevoli, ho pure realizzato qualche obiezione, in alcuni momenti, durante la lettura: in particolare per la storia dell’isola tratteggiata nella fase postrisorgimentale. Certo, la narrazione storica è lo sguardo aggiunto, rispetto al metodo dell’antropologo, la cui specificità è tessere connessioni tra simboli e luoghi. Tuttavia non posso eludere di esplicare le divergenze, in coerenza con lo scrupolo del mio sguardo, filologico – storico.
In particolare, ho dato uno sguardo d’insieme a come la cultura classica è stata trattata alla fondazione dell’Italia – nazione: il processo era stimolato, ma anche modellato sulla precedente Costituzione dello Stato greco (1832). L’argomento non è ozioso rispetto alla ricerca di Albera, dove registro – titolo di un’opera del Crusius, o Krauss, filologo contemporaneo d’Ariosto – come “Turcograeciae”. Si tratta di documenti dei territori greci sotto sovranità turca, conseguenza del “grande evento”, la “caduta di Costantinopoli”, nel 1453. Per l’area di confine, in cui la ricerca storica tocca la filologia, a suo tempo rilessi i “maestri fondatori”, in quanto confermati nell’attualità: come Momigliano, Mazzarino, Gaetano De Sanctis. Lo specifico argomento del mio studio ha riguardato la fusione delle tradizioni instaurate nei vari Stati della penisola, fino al riconoscimento dell’Unità, nel 1861, e nel percorso dei decenni successivi. Le potenze europee, quelle che avevano fiancheggiato l’Italia – Stato, ne troncarono presto le velleità mediterranee, smobilitando ovunque le culture praticate prossime all’italiana – quelle che erano state coltivate in territori vari, coadiutori dell’Impero Asburgico, della Dinastia borbonica, o di Venezia – concedendo una vaga promessa che guardava in direzione della penisola balcanica: ma intanto, di fatto, si prospettava l’affondo all’Impero Ottomano.
Non ebbero credito le aspirazioni del recente Stato, né al tempo della vittoria nella Prima grande guerra (“mutilata”, fu definita), né con l’esito complesso del Secondo conflitto. Gli Stati vincitori hanno poi mirato a direzioni distinte, oltre i tavoli delle trattative, proseguendo verso finalità coperte, forse egemoniche. Personalmente considero spesso le profonde tensioni degli ultimi due secoli. Nell’attuale lettura su Lampedusa mi colpisce che, giunti al capitolo ottavo – il finale, cioè, se si escludono le appendici – tratteggiando l’epoca in cui l’isola, infine inserita nel progetto nazionale italiano, diventa una periferia sbandata tra programmi governativi penalizzanti e incerti esperimenti economici, dall’autore venga accreditata una complessiva atmosfera pacifica nel Mediterraneo. Vengono bensì citate, ma come fatti neutri, le nuove presenze della Gran Bretagna a Cipro, della Francia a Tunisi – mentre non c’è menzione di Gibilterra –. Segno qui una differenza: la nuova Italia ha ambizioni, e recrimina di fronte ai successi altrui, certo altrettanto impaziente, per esercitare una complessiva egemonia politica, di percorsi innovativi, a conferma della propria forza. L’insistenza sull’Africa dello Stato italiano, pur dopo Crispi, così come l’incursione provocatoria nei Dardanelli, nel 1912, ne sono prova. Qualche diverso accento, dunque ho colto nel giungere all’imbocco delle Grandi guerre. Comunque la tensione, concordo, non ricade sull’isola, se prevale l’efficacia della tradizione d’ospitalità, che nell’isola così di frequente si dispiega.
Ho troppi echi in mente, mentre mi si sovrappongono i paragrafi letti. Difficilmente imbroccherò il canale ultimo della bonifica, quello dell’acqua filtrata, tornata pura come di sorgente, così da arrivare ad un commento personale che sia sintetico e pertinente. Mi concedo di nuovo lo sguardo complessivo – repetita iuvant, come i nodi si sciolgono – per distinguere le tradizioni documentarie, di diverso statuto, a cui, leggendo, vado ascrivendo l’opera. Nell’opera ha gran parte la documentazione sociale: fondamentale è la più antica perlustrazione dell’isola, narrata nell’ambito delle fonti storiche relative al re Luigi IX di Francia (1214 – 1270), san Luigi. Risulta che in suo nome fu perlustrata per la prima volta l’isola, verificandone la sostanziale desolazione, se non come occasionale ricovero, equanime, per attracchi sia di cristiani sia di musulmani, in una grotta ospitale, sacralizzata dal culto di Maria. Altro segmento che ha un preciso sottofondo storico è quello citato accanto a Fernand Braudel: tale da soppesare la funzione del Mediterraneo dopo la caduta di Costantinopoli e lo sviluppo della navigazione globale, che comportò il declassamento del Mediterraneo.
In tale punto avviene l’innesto con la storia letteraria, in primis con Ariosto, in cui il rilievo dato all’isola coincide con l’omaggio al casato d’Este, che con il cavaliere Ruggero si fonda. È dopo Ariosto, e per sua fama, che Lampedusa esce dal chiaroscuro della fantasia, per diventare consistente memoria. Ma due sono le direzioni seguite in cui questa memoria si instrada: da una parte, le indagini sociali e militari sugli approdi del Mediterraneo, dall’altra le ambientazioni letterarie, con diverso peso fino all’attualità. In questo settore, gli autori moderni, per primo Diderot, avviano atmosfere nuove proprio a partire da una personale appropriazione delle informazioni sull’eremita di Lampedusa: un intreccio di utopia e antiutopia. Ultima appendice a questo filone, può considerarsi l’opera teatrale di Shmuel-Yankev Harendorf, The king of Lampedusa, del 1944, che ha trasposto in chiave teatrale l’episodio inaspettato, accaduto appunto a Lampedusa nel 1944, in cui un aviatore sceso nell’isola in quanto il suo mezzo era in panne, venne acclamato capo – anzi “re” –, verificando il grado di sbandamento in cui la popolazione si era trovata, dopo i bombardamenti alleati subiti nel 1943 e esasperata dalla paralisi civile susseguente.
Il versante di Albera di più spiccato statuto sociologico – antropologico, comunque sempre attento al dato storico, emerge quando l’antropologo indaga sulla propagazione del culto della Vergine, presenza antichissima, primigenia nella facies antica, verificata al tempo di San Luigi, ma prolungatasi in forme analoghe, con l’aggiunta di una presenza vigile, quella dell’“eremita”, più menzionata al tempo della sovranità aragonese.
Da questo focus cultuale si è generata una varia espansione cultuale. Precisamente, Albera indica due direzioni. Il primo scenario si sviluppa dai culti che si elaborano nel Mediterraneo, a partire dal più antico, nel borgo ligure di Castellaro. Lo avrebbe instaurato Andrea Anfosso, originario del luogo, che, nel secondo ‘500, liberandosi dalla condizione di schiavo catturato dai Mori, avrebbe portato con sé, rimpatriando, l’immagine della Madonna di Lampedusa.
Molti e vari, differenti, sono i capitoli che arricchiscono il dossier antropologico, seguendo lo sviluppo del culto negli approdi dell’economia schiavistica transoceanica. Albera rileva profonde differenze di statuti cultuali e sociali tra il Mediterraneo e i continenti oltreoceano: qui si registra un composito meticciato, costituitosi per transiti e approdi ben più vari, con impronte sia dell’Africa, sia dell’America del Sud, che afferiscono al culto di Nossa Senhora da Lampedusa mediante «confraternite formate secondo criteri di razza e di classe, le confraternite erano luoghi di evangelizzazione, di devozione e di aiuto reciproco» (ivi:107).
Dalla profonda competenza antropologica di Albera scaturiscono osservazioni di particolare lungimiranza: sono quelle che, avendo per tema la frontiera, in particolare nei due modelli contrapposti di Malta e di Lampedusa, proiettate nella temperie di Carlo V, tratteggiano modelli definiti, riutilizzabili in una politica lungimirante. Lampedusa è l’isola inerme, che resta deserta, laddove Malta, isola militarizzata, diventa sopraffollata. Ma Lampedusa «è anche un luogo aperto a tutti, compresi i nemici giurati dell’ordine. Prende così forma uno spazio di incontri pacifici, di sospensione delle ostilità e perfino di soccorso» (ivi: 77). Poco oltre, elencando, intorno al concetto di “frontiera”, le “figure” che le consuetudini diplomatiche hanno abilitato a passarla o, invece, a rimanervi bloccati, è trattato il tema dello “schiavo”, rilevando diversità sostanziali concretizzatesi, tra gli schiavi del Mediterraneo, generatisi nel traffico transahariano, e quelli delle Americhe, legati alla «tratta transatlantica verso l’America» (ivi: 81). La prigionia nel Mediterraneo, in relazione alla vicinanza dei luoghi e delle relazioni, ha potuto essere transitoria, e tenere aperte alternative: il cambiamento di religione, secondo la figura del “rinnegato”, la possibilità del “riscatto”, a opera di una serie prevista di mediatori. Su questo tema, l’autore tratta dunque delle “zone di contatto”, adottando nozioni analizzate da un’altra studiosa, Mary Louise Pratt.
Albera giunge infine alla condizione contemporanea di Lampedusa: dopo aver sintetizzato i cambiamenti accaduti nel dopoguerra e già studiati da antropologi contemporanei, concordando, lo studioso ne rileva la relazione con l’irrigidimento delle frontiere verificatosi. Questa politica ha incentivato «l’emigrazione “clandestina” [....]. Il Mediterraneo si è trasformato in un’immensa zona di confine in cui convergono le traiettorie che partono dall’Africa del Nord o da molto più lontano (Asia, Africa subsahariana), per affrontare gli steccati con attrezzature di fortuna, fornite da reti clandestine che beneficiano di evidenti complicità all’interno degli apparati statali della riva sud» (ivi: 177). Base operativa per le azioni di controllo e salvataggio, è tornata a essere, come è accaduto per secoli, un’isola – frontiera: di particolare consapevolezza, direi, considerata la sua storia.
Ho dipanato la lettura sul piano della testualità, consapevole di non avere lo scandaglio specificamente antropologico: con una partecipazione, tuttavia, che ha portato a rovistare nella memoria, anche risvegliando studi d’antan. Per esempio, ho sostato con Albera, quando ha invitato a fare, della «dimensione letteraria della frontiera», un tema di studio, indicando autori come Giovanni Boccaccio e Masuccio Salernitano. Mi si è attualizzata allora la compilazione che, a beneficio di chi ha interessi storici, ho fatto su una novella del Decameron [1], quella che ha per protagonista la principessa egiziana Alatiel – nella narrazione di Panfilo, che interviene per settimo nella seconda giornata –. Dopo le molte disavventure, assecondate dalla giovane con spregiudicato coraggio e con sapiente resilienza, andrà comunque sposa del “re del Garbo”, oggi “Marocco”, come si proponeva all’inizio, quando la tempesta l’aveva sbalzata sulla riva mediterranea cristiana. In particolare, all’epoca, riflettendo anche sull’ambito linguistico, realizzai: “Garbo” è, semplificato, il toponimo “Ma-ghreb”: da cui Firenze traeva molta lana, materia prima trattata dalle imprese dei filati. Con un certo stupore, collego: il termine si è fissato in parole italianissime e, direi, essenziali: ecco il verbo “garbare”, i sostantivi “garbo”, “sgarbo”. L’ambientazione di Boccaccio, come è noto, è posta al tempo del grande contagio di peste, nel 1348. I legami, in genere dei vari Stati, e in particolare di Firenze con tutto il Mediterraneo erano fondamentali: il potere politico intorno alla compagnia dei novellatori, che, autoesiliandosi in villa, pone la distanza fisica a difesa del contagio, era notevole: era quello dei traffici commerciali spregiudicati, e vigilati con compagnie d’armi, intensi nello spazio compreso tra i due mari, il Mediterraneo e il Mare del Nord: tra il 1342 e il 1343 era stato arbitro contestato di Firenze il Duca d’Atene, Gualtieri di Brienne [2].
Fu quello il tempo, il gran tunnel, dei troppi poteri concorrenti – i commerci lucrosi accanto all’instabilità politica e le compagnie di ventura, l’imprecazione di Petrarca contro le piaghe incessanti nel “bel corpo” d’Italia, il vano impegno di Caterina da Siena a restituire Roma all’arbitrato del pontefice, la Guerra dei Cento anni e, ultima tragedia, la caduta di Costantinopoli nel 1453. L’esperienza dei disastri, ivi compreso il contagio, aveva promosso suggestive, apocalittiche visioni: come il Trionfo della morte di palazzo Abatellis a Palermo, che, datato a circa un secolo dalla testimonianza del Boccaccio, si inseriva comunque in un filone che quell’esperienza pur comprendeva.
È vero, la mia immaginazione, durante la lettura di Albera, è costantemente implicata. Anzi, infine mi interrogo: perché, in particolare, mi risuona, accanto a “Lampedusa”, e quasi a determinarlo, proprio un termine latino in vocativo, precisamente “ocelle”?
Mi rioriento: ecco, mi giunge dal XXXI carme del Liber di Catullo. È il saluto – emozionato, imprevedibile – del poeta: per Sirmione, penisola del lago di Garda, sua patria. Da un viaggio lontano e sofferto, il poeta torna alla dimora e saluta la terra diletta: «Sirmio, ocelle» [3]: il che la rende unica tra tutte le isole e penisole che il mare sorregge. L’impatto che Albera mi comunica riguardo a Lampedusa, dà alla mia emozione quella parola preziosa, mi riattualizza un incontro caro. In che modo giunge questa memoria? Perché qualificare anche Lampedusa come “ocellus”? Si usa trasporre, in italiano, il termine con “gemma”. È una soluzione accettabile; però, propriamente, il termine latino, “oculus”, qui alterato al diminutivo – vezzeggiativo, si appunta al “vedere”, letteralmente valendo “occhio”: e certo i pur diversi luoghi, Lampedusa, proprio come Sirmione, “sono guardati”. Ma raffino: le due visioni che intreccio dicono che quegli stessi specifici luoghi sono “occhi”: Lampedusa stessa, come Sirmione, è “sguardo”: in qualche modo, un riconoscimento ad una qualche capacità di “aiutante, in propria autonomia”.
Così avverte forse anche l’antropologo Albera, in certe suggestioni operative cui si accinge: ma che poi lo sopraffanno, così che deve adattarsi a nuove formulazioni. Ecco, mi passa nella mente un’associazione, che fisso. Di fatto, sono stati i fari che hanno dato corpo a isole e coste, percepite così come corpi viventi: una buona fama di aiuto. O possono essere strumenti ambigui, talvolta? Penso ai capovolgimenti verificati da Virginia Woolf intorno al suo Al faro. E penso ai sofisticati droni attuali, scolte ambivalenti alle frontiere, nel portare aiuto o morte.
Ricapitolando, Albera alla fine attenua le certezze. Aveva pur preventivato, confessa, di sfogliare le facies del popolamento di Lampedusa come ripercorrendo «gli strati geologici sovrapposti», in analogia con le linee di calcare: quelle che «si affastellano adesso davanti [agli] occhi, pennellando di striature il litorale» (ivi: 181). Invece si è accorto che le verifiche contestavano i modelli semplici: il mero accumulo è sosta, è conciliazione momentanea «con i cicli naturali», che per un po’ può illudere di «un’esperienza ancestrale», perpetua, immodificabile. Ma non dura: possono erompere forze non calcolate, nascoste, riproponendo «strati di una storia remota e apparentemente esaurita». La riflessione si indirizza molto, credo, alla razionalizzazione dei processi che vige nella cultura francese: il “modello braudeliano” cui pure l’antropologo ricorre, è valido solo per qualche segmento temporale: «Lampedusa introduce anche un certo disordine e talvolta sconvolge la disposizione verticale dei tempi storici», con scelte della popolazione che ad un certo punto si mostrano come cultura così consapevole, da sembrare «ancestrale» (ivi: 183).
Alla percezione di Albera molto si confà la scenografia labirintica di Ariosto: e degli autori che sanno procedere nel labirinto, come Italo Calvino, buon interprete di Ariosto, o come Jorge L. Borges: «labirintica e sproporzionata» desidera la biblioteca adatta all’isola, tale, egli dice, da “incuriosire Borges”. Il “labirinto”: l’isola è definita subito, nel primo capitolo, quello di “Ouverture”, un «intricato labirinto», una «enigmatica complessità»: un refrain che, come sottofondo di lettura, ha rivitalizzato in me schemi universali complessi ricevuti dall’antico, su cui, giustamente, si continua a interrogarsi.
Del resto, non è molto che ho salutato l’uscita del libro del filologo Gioachino Chiarini sul “labirinto” [4], dedicato a un’indagine ardita, ben articolata tra documenti e interpretazione, documentata su molti reperti, disposti in una serie lunga di anni. Tutt’altro che strumento mirato a tortura e morte, il labirinto, in questa ricerca, confrontata con molti scienziati, che ne rileva i significati più antichi: il disegno che risulta confermato rappresentava la mappa del «percorso annuo del sole, ma forse non ancora il Labirinto di Cnosso» (ivi: 55). La simbologia non fu coniata come pianta di un luogo eccellente: l’ipotesi è invece di una traccia – chiave del percorso solare nell’anno, avviso e monito previsionale. Una interpretazione cosmica: che ha accompagnato i viaggiatori, dicono i reperti, non solo rintracciato in tutta l’area del Mediterraneo, ma quelli sparsi, oltre le colonne d’Ercole, fino al Mare del Nord.
Una simbologia, dunque, intrisa dell’antropologia vigente nelle civiltà mediterranee, ad un certo livello di antichità: cielo e terra comunque vi sono inclusi, anche secondo l’intreccio di maschile e femminile, e della fecondità della danza, attribuita anche agli astri. Qui, infatti, secondo lo sguardo connotato di antropologie antiche, anche il periodo del sole e degli astri è danza: come gli umani la imitano e la ricreano, secondo una vocazione di riproduzione che aspira al perpetuo. Poi, in un assetto diverso, la mappa fu recepita come intrigo, “dedalo” voluto da un sistema di potere organizzato, per liberarsi di nemici, con un meccanismo perverso, amplificato dalla propaganda. Fu allora elevato a simbolo, a segno del potere che non solo abbraccia, ma domina: poi fissatosi, riproposto, lungo piste di eventi di diverso significato, come il luogo di punizione che si stende nell’intrigo delle cavità di Creta. Allora non è più mappa, ma un racconto altro, ritornante in molta letteratura successiva, comunque antica, favorito da schemi narrativi che, assecondando schemi simbolici diversi, scivolano nel fraintendimento. Ben altro che armonia, ben altro che effetto – danza: il corpo a corpo si fa truculento, sanguinario, mostruoso.
Un’ambivalenza che incombe anche nello studio di Lampedusa. Se torno a quanto Albera dice nella sua indagine, enfatizzo la modifica che alla fine egli avverte nell’aver adottato il modello Braudel. La conferma verso lo studioso, che sa muoversi tra “movimento e frontiera” e che, avvertendo al di là del dato le “correnti sotterranee”, attua “connettività”, è alla fine meno assertiva: la “sorpresa – Lampedusa”, che risorge oltre le ferite delle frontiere, va oltre il modello del maestro: alla fine, Braudel risulta solo “abbastanza” buono, perché il caso studiato «introduce anche un certo disordine e talvolta sconvolge la disposizione verticale dei tempi storici» (ivi: 79).
Ripercorro dunque un’ultima volta la lettura e meglio metto a fuoco la sintonia con Ariosto: che, certo, pone “Lampusa–Lampedusa” come meta ultima, ma soprattutto esprime, intorno al compimento dell’equilibrio rinascimentale, la tortuosità del vivere e la precarietà dell’intendersi. La tensione del “labirinto”, in Ariosto, è costituente primario: e questa figura – concetto acquista rilievo sempre più pregnante per Albera lungo la ricerca. Questo si evidenzia nell’attualità: con il nuovo millennio si aprono fratture che mostrano scene che sembravano superate, «l’uomo torna a essere una merce», ricompare «un’economia violenta e predatoria» sulle coste dell’Africa del Nord, nel Sahara si riattivano «le antiche rotte degli schiavi», la tecnologia della navigazione praticata torna a essere primitiva, l’isola attira i professionisti del classificare, dello smistare.
La conclusione della lettura mi lascia con il fiato sospeso: la grande trasmigrazione in atto, qui relativa al Mediterraneo, ma che nell’attualità complessiva avviene tra realtà varie del mondo, è filtrata da volontà politiche diverse, per lo più taciute. Qui sono tradotte in metodi e approcci attraverso gli operatori “del vedere”, dell’“interpretare”, dell’avviare a zone gradite nei Paesi di arrivo. Il popolo di Lampedusa finora ha preceduto di gran lunga rispetto ai protocolli: sarà seme fondativo per sviluppare l’incontro? Resto con il fiato sospeso.
Come resto con il fiato sospeso a metà del saggio di Gioachino Chiarini. Egli va molto oltre, lungo la sua ricerca, facendo di Ulisse l’incarnazione perfetta dell’“astronomo – dominatore – signore del cielo come del mare”. L’eroe è il signore del mare per eccellenza, da Creta a Delo a Itaca al regno dei morti. Mentre si moltiplicano gli scenari mi rendo conto anch’io, come Albera rispetto a Braudel, di avere marcate difficoltà a associarmi pienamente a ogni parte del libro sul labirinto: la tesi centrale mi torna; il modo in cui sono classificati i reperti, confrontati nelle costanti e nelle varianti, tra le mappe astronomiche, anche. Ma la competenza astronomica di Chiarini – che sta indagando nella materia fino al sapere odierno, partendo dai più antichi reperti, comprese le credenze di cui si è intrisa – precede di gran lunga la mia comprensione.
Per le mie letture scolastiche, è la composizione del nuovo scudo di Achille, nella fucina di Efesto, gioia degli occhi e della mente – in quanto il brano descrittivo, nel XVIII libro dell’Iliade è una vera ekphrasis –, la summa antica cui ritorno come sintesi complessiva dell’universo. Esso, appunto, ha forma di scudo, dal circuito estremo dell’Oceano all’umbone dominato dallo sbalzo degli astri. L’opera non è solo arte orafa: è filosofia di vita partecipata, dai gruppi umani che vi compaiono, accettando la contiguità del territorio riservato al sovrano. Vi sono zone distinte per la parte urbanizzata, recinta da mura, e per i coltivi, poi per le mandrie e per le greggi. Bene e male sono distinti e contigui: pacifico il lavoro nei campi, ma preparazione alla difesa sugli spalti, assalto del leone alla mandria, ma vignaioli soddisfatti nei campi. Germe di ogni aspetto della vita nei suoi contrasti, è la danza dei giovani, adolescenti e ragazze, ai vv. 597 – 605:
«Queste portavano corone, e quelli spade d’oro nei foderi d’argento; e a tempo danzavano con passi esperti, scioltamente, come quando seduto il ceramista prova con le mani il tornio, se giri; e talora movevano la danza in fila, gli uni verso le altre. Un gran pubblico circonda l’amabile coro, gioioso; e un duo di acrobati, dando inizio alla festa, volteggiava in mezzo a loro».
In che misura ancora ci si attiene, nelle zone che oggi precipitano in guerra, a questa antica antropologia delle spedizioni ambiziose? Viene assillo nella mente, pensando a come la futile scusa – Elena e Patroclo in fuga – avesse prodotto una situazione così eclatante e tenace, da incistarsi per così lungo tempo davanti alle mura di Troia: una facies di civiltà che si consumava, intanto, in un’impresa che era un vuoto senza garanzie. Lo scudo divino, splendido come una biblioteca di saggezza, trovava Achille nell’impazienza della vendetta, dopo la morte di Patroclo, l’amico, dopo quindi la perdita dello scudo originario, caduto nelle mani di Ettore. E infatti, la vendetta viene attuata: ucciso Ettore, e imbrattato con rabbia il suo corpo di ferite e di polvere. La guerra dei Greci, dunque, abbattuto Ettore, il campione avversario, consegue lo scopo: direi, riconfermato e insieme fuori tempo – se intanto tutto risulterà cambiato, al ritorno, nelle patrie dei vecchi dalle parole confuse.
Resta, profondamente dolente, l’apparire del vecchio Priamo, propiziato dagli dèi, alla tenda di Achille. Recupererà il cadavere di Ettore, dopo giorni di strazio inferto: e il duplice pianto, del dominante e dell’umiliato, ugualmente disperato, sia pure per ragioni diverse, ai vv. 507 – 512, si fissa indelebile nel lettore:
«Disse così il vecchio, e ad Achille suscitò l’impulso di piangere suo padre: prese per mano il vecchio e delicatamente lo scostò, entrambi presi dal ricordo: l’uno piangeva dirottamente Ettore sterminatore, curvo davanti ai piedi di Achille, e Achille piangeva ora suo padre, ora Patroclo, e il pianto risuonava nella dimora».
Resta, ai vv. 635 – 642, l’analisi della desolazione, del dolore corrosivo che inebetisce, che in questo caso tocca al vecchio, sopravvissuto al giovane:
«Ora fammi coricare al più presto, allievo di Zeus, ché beneficio infine dal dolce sonno prendiamo dormendo: non mi si chiudono infatti gli occhi sotto le palpebre da quando per le tue mani mio figlio perse la vita, ma sempre piango e macino dentro infinito cordoglio, rotolandomi nel brago dentro al recinto del cortile; solo ora ho mangiato del cibo e ho mandato vino nero giù in gola: da tempo non mi ero affatto nutrito».
Ma nel tornare alla sequenza in cui Omero descrive il lutto, è l’oggi che turba: quale voragine e vertigine è in atto, quale sguardo e quale voce potranno far rialzare dal baratro. Quali considerazioni, quali dottrine, infine, potranno restituire limpido lo sguardo per dare senso alla costruzione della civiltà.
Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025
Note
[1] Franca Bellucci, Lo scrittore, il suo sguardo onnisciente sulle donne, in I secoli delle donne. Fonti e materiali per la didattica della storia, a cura di Franca Bellucci, Alessandra F. Celi, Liviana Gazzetta, con la collaborazione di Monica Di Barbora, Roma, Viella, 2023: 153 – 156.
[2] E. Sestan, Brienne, Gualtieri di, in Dizionario Biografico degli italiani <https://www.treccani.it/enciclopedia/gualtieri-di-brienne_(Dizionario-Biografico)/>
[3] Così la strofa, in trimetri scazonti, di senso compiuto: «Paene insularum, Sirmio, insularumque/ ocelle, quascumque in liquentibus stagnis / marique vasto fert uterque Neptunus,/ quam te libenter quamque laetus inviso».
[4] Gioachino Chiarini, Alle origini del labirinto, Roma, La Lepre Edizioni, 2023.
Riferimenti bibliografici
Albera, Dionigi, Lampedusa. Una storia mediterranea, Roma, Carocci, 2025
Bellucci, Franca, Lo scrittore, il suo sguardo onnisciente sulle donne, in I secoli delle donne. Fonti e materiali per la didattica della storia, a cura di Franca Bellucci, Alessandra F. Celi, Liviana Gazzetta, con la collaborazione di Monica Di Barbora, Roma, Viella, 2023: 153 – 156.
Chiarini, Gioachino, Alle origini del labirinto, Roma, La Lepre Edizioni, 2023
Sitografia
Sestan, Ernesto Brienne, Gualtieri di, <https://www.treccani.it/enciclopedia/gualtieri-di-brienne_(Dizionario-Biografico)/>
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Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008); La Grecia plurale del Risorgimento (1821 – 1915) (Pisa, 2012), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).
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