di Antonino Cusumano
Ci sono luoghi del mondo che la natura, i paesaggi, la storia, il caso convertono in simboli, metafore, icone, significanti di significati “altri” rispetto al semplice dato topografico e geografico. Sono luoghi che evocano, suggestionano, incantano o inquietano. Dove si concentrano bellezze e tensioni, energie centripete e spinte centrifughe, exodus e nostos, avventura e radicamento. Alfa e Omega del tempo e dello spazio, come l’Aleph di Borges «ove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli» [1].
Le isole sono per antonomasia questi luoghi, riconducibili alla dimensione privilegiata dei miti, alla geografia dell’immaginario e all’orizzonte dell’alterità. Scogli che interrompono la vastità del mare, di cui partecipano la misteriosa ambivalenza di emerso e sommerso, la polisemia del segno, crocevia di partenze e di approdi. L’isola è sinonimo di riparo dai flutti, di microcosmo protettivo. Ma è anche topos di desideri, di sogni e sortilegi, ricerca di tesori e di epifanie. L’isola è tema fondante e ricorrente di tutte le letterature, di utopie e distopie, sia essa Atlantide o Calipso, Montecristo o Ferdinandea che appare e dispare, referente simbolico la cui ambiguità può ospitare società edeniche e mostruosità terrificanti, naufraghi e avventurieri, Ulisse e Robinson Crusoe. «Le isole sono antecedenti all’uomo, o destinate a ciò che viene dopo» – ha osservato Gilles Deleuze – e ha aggiunto: «l’isola sarebbe soltanto il sogno dell’uomo e l’uomo la pura coscienza dell’isola» [2].
Archetipo della bellezza e del meraviglioso, l’isola, deserta e selvaggia o abitata da indigeni e primitivi, nella tradizione orale e nell’immaginario collettivo è
«modello esemplare – ha scritto Antonino Buttitta – della struttura fortemente contrastiva dei prodotti mitici e della natura ambigua dei loro significati» e in quanto tale «uno spazio chiuso, un luogo per segregare, il confino di polizia appunto, ma anche per liberarsi dal quotidiano, un confine, il limes in cui si combatte l’eterno conflitto tra il logos e il caos, la linea che definisce ogni cosmos, la frontiera invalicabile ma anche il punto di non ritorno, la soglia della presenza e dell’assenza, l’ultima thule dell’essere e del non essere. Come ogni realtà sognata che solo il mito sa rendere vera, l’isola infatti c’è e non c’è, immagine riflessa di un’inquietudine ineludibile» [3].
Di “Isole di significato” ha parlato Antonio Marazzi in un intervento ad un convegno organizzato a Palermo nel 2007 il cui titolo “Il corpo astrale di un’isola” muove da un’espressione di Joseph Conrad che la identifica come «qualcosa di solido, corporeo su cui approdare e al tempo stesso immerso, come una stella nel firmamento, in una sterminata vastità d’altra natura, liquida piuttosto che aerea» [4].
«Isole di significato – chiarisce Marazzi – mobili nella galassia della globalizzazione, sono quelle di cui sono protagonisti attivi, non già passivi portatori e portatrici come viene spesso inteso, i nuovi migranti. Sono isole di significato che si avvicinano, entrano in contatto fino a compenetrarsi, ma senza confondersi. Sono veri e propri laboratori di dinamica culturale» [5].
Lampedusa è isola del Mediterraneo ad alta densità simbolica, atollo più vicino all’Africa che all’Europa, luogo di elezione cui tendono viaggi e diaspore, storie e leggende, vacanze e viatico. Paradigma spettacolare delle categorie dei confini e delle frontiere: una distinzione che vale sul piano analitico per identificare i confini che separano gli spazi con una linea, un muro, una barriera che esclude, e la frontiera che è una sorta di soglia mobile, un’area franca in cui sono possibili interazione, negoziazione, inclusione. Orizzonti incrociati che collidono e convivono.
Limes o finis terrae ma anche limen, passaggio verso altre terre, avamposto e appendice, centro e periferia, ai margini di Stato e istituzioni pubbliche e nella latitudine delle carte punto d’intersezione di rotte e plurisecolari movimenti pendolari che percorrono in profondità questo breve tratto di mare, l’isola – luogo ibrido per eccellenza – è stretta tra due continenti, tra le faglie di due mondi. Nella mappa del racconto dell’immigrazione nel nostro Paese Lampedusa e immigrazione sono due parole che costituiscono una perfetta endiadi concettuale e semantica, immagine e significanti tanto potenti quanto sfuggenti, ambigui, contraddittori. Sotto gli occhi del mondo la piccola isola è diventata teatro di una tragedia epocale, di una cronaca che già scorre nelle vene della storia. Così se da un lato è l’approdo compassionevole di un’Italia accogliente e solidale, dall’altro è l’ultima trincea di un’Europa che guarda al Mediterraneo come ad una foiba che inghiotte profughi e migranti a protezione della Fortezza.
Qui – in questo lembo di terra sperduto nel canale di Sicilia o di Tunisi a seconda della sponda da cui si guarda – troviamo le due figure della società contemporanea che Bauman identificava come metafore emblematiche della postmodernità: il turista da un lato, il nomade dall’altro, l’una alter ego dell’altra, nel segno del viaggio in opposizione alla fuga. Storie profondamente dissimili e pur complementari perché rompono l’isolamento della piccola isola pur restando separate, senza conoscersi e senza riconoscersi. «I destini esistenziali di ognuno di noi si trovano collocati lungo un continuum a uno dei cui poli sta la figura del “turista perfetto”, e all’altro la figura del vagabondo senza speranza» [6]. Nel mezzo tra gli eroi che cercano l’esotico e le vittime scampate alla morte stanno gli abitanti, gli isolani, sbalzati dalle onde della Storia dentro una complessa vicenda di nodi irrisolti.
A Lampedusa sembrano coagulare e precipitare le esperienze liminari più significative del nostro tempo, le antinomie più laceranti del mondo contemporaneo. Da Lampedusa – «isola dal nome sghembo, scivoloso come un pesce di fondale» [7] – si può leggere meglio lo stato di salute del nostro Paese, il volto dell’Europa, il palinsesto del Mediterraneo. Dagli estremi confini lo sguardo si fa infatti più acuto, si misura la distanza dalla patria lontana e indifferente, si comprende meglio la trama oscura della politica, il discrimine tra verità e demagogia, il principio della realtà scientificamente rimosso dalla sua rappresentazione mediatica.
«Lampedusa stessa è oggi una parola contenitore: migrazione, frontiera, naufragi, solidarietà, turismo, stagione estiva, marginalità, miracoli, eroismo, disperazione, strazio, morte, rinascita, riscatto, tutto quanto contenuto in un unico nome, in un impasto che non riesce ancora ad avere né un’interpretazione chiara né una forma riconoscibile» [8]. Così si legge nelle prime pagine del romanzo di Davide Enia, Appunti per un naufragio [9], edito nel 2017 e recentemente rielaborato in forma di rappresentazione teatrale a cura dello stesso autore. Un libro che vale la pena rileggere per sentire le voci dei lampedusani, il racconto del sommozzatore, dell’operatore, del medico, del responsabile della Guardia costiera, del pescatore e di quanti si adoperano in mare e a terra per dare soccorso, in questa Ellis Island del Mediterraneo che da tempo conosce un drammatico stillicidio di naufragi e di morti annegati, caduti sulle rive dell’Europa in nome dei diritti negati e calpestati.
Molto si è scritto in questi anni su Lampedusa «invasa da bare e televisioni», dove nel piccolo camposanto si dà ricovero ai corpi senza nome avvolti nei sacchi neri: l’unico ius soli offerto dalla pietà popolare. E le pagine di Davide Enia sono il necessario viatico per aprire un altro libro, quello di Dionigi Albera, Lampedusa. Una storia mediterranea, edito da pochi mesi da Carocci. L’opera di un antropologo che ha sempre cercato e studiato nei fenomeni religiosi le connessioni culturali e le esperienze di convivenza storica tra le popolazioni del mondo mediterraneo. Un attento e paziente tessitore di fili nell’ordito di una trama in più punti lacerata e sdrucita. Qui una grotta, un piccolo eremo sconosciuto ai più diventa il fulcro e l’epicentro di una narrazione che attorno al microcosmo ctonio articola la fitta rete di relazioni dell’ecosistema mediterraneo, quell’intreccio di connettività umane, quell’”insieme di insiemi” di cui ha scritto Braudel e che Albera esplora e ridisegna in uno splendido affresco di storie, di personaggi, di nomi e di luoghi nel tempo storico della lunga durata braudeliana.
Per quanto a lungo isola deserta, disabitata, vuota, «scoglio incustodito in mezzo al mare», «cicatrice infinitesimale sulla pelle liscia dell’acqua», «una piccola tartaruga di pietra», Lampedusa è stata snodo centrale per la navigazione, terra di passaggio, di ricovero durante le intense rotte di traffici, scambi e conflitti navali tra la Sicilia e l’Africa del Nord. «È una sorta di caravanserraglio marino, un fondaco galleggiante – scrive Albera – un riparo in caso di tempesta. I marinai la conoscono, i portolani la descrivono, le mappe ne inducano la posizione». Ma a farla entrare nella storia non è stata tanto la sua naturale posizione geografica, «ombelico segreto del Mediterraneo», quanto la funzione soprannaturale esercitata da quel minuscolo santuario da cui, a partire dal XVI secolo, è generato un singolare culto destinato a coinvolgere cristiani e musulmani, marinai europei, turchi e arabi, avendo ospitato l’immagine di una Madonna e la tomba di un santo islamico. Forme di venerazione e devozione che travalicano le appartenenze religiose delle comunità e coesistono per secoli in una pacifica e tacita commistione di usi, costumi e pratiche.
Qui, in questa angusta e nascosta fenditura scavata nella roccia, si prega e s’invoca la protezione dai marosi, si offrono ex voto ma anche beni alimentari e altri oggetti in natura destinati a quanti ne avessero bisogno, si costruisce un dialogo tra nemici che sospendono le endemiche ostilità nel rispetto di una tregua e in nome di una solidarietà umana plasmata dalle comuni vicissitudini sul mare. Si realizza di fatto quel circuito virtuoso proprio dei riti tradizionali: donazione-accumulo-distribuzione collettiva delle scorte e delle risorse che vale a istituire legami e a produrre coesione. Da qui, da questa piccola e oscura cavità, densa di manufatti depositati, donati e scambiati, di simboli sacri condivisi e riconosciuti, si irradia dal basso un sistema complesso di relazioni che fanno storicamente di Lampedusa una eterotopia, uno spazio “altro” connesso con altri spazi, una soglia permeabile, una frontiera aperta alla circolazione di uomini e beni, vocata all’accoglienza di naufraghi sopravvissuti, di schiavi in fuga, di crociati, di contrabbandieri, di cavalieri e di corsari. Si incontrano e s’intrecciano le vite e le esperienze più diverse, le storie più rocambolesche, le leggende più fantasiose.
L’antropologo, che ama ripercorrere le vie segrete delle migrazioni culturali dipanandone le aggrovigliate e spesso imprevedibili diramazioni, ha messo insieme numerosissime fonti – letterarie, folkloriche, archivistiche e artistiche – per riconnettere quanto le tradizioni orali e le testimonianze scritte documentano della storia di Lampedusa, del mito di quest’isola per secoli deserta ma mai disertata, oasi di pace e di tolleranza nella incessante tormenta delle guerre mediterranee in età medioevale e moderna. Dionigi Albera che si è sempre opposto ad ogni visione essenzialista privilegiando la prospettiva di ricerca comparativa conosce a fondo le interazioni tra i popoli delle diverse sponde, i punti di contatto, i processi di contaminazione e di ibridazione in un Mediterraneo che «oggi, in un mondo globalizzato, può avere un valore paradigmatico poiché esemplifica lo sfumare delle distinzioni tra “noi” e “loro”» [10]. In questo paesaggio mobile e stratificato scopriamo la forza centripeta che la piccola e sperduta isola di Lampedusa ha esercitato a partire da una narrazione, una credenza, un mito.
Tutto muove attorno alla presenza di un eremita cui fa riferimento un testo del XIV secolo ove si cita un “ermitaňo de la Lamposa” dotato di tali poteri profetici da influenzare la corte aragonese. Albera insegue le tracce lasciate dal nome dell’isola e ci conduce in un periplo di opere di autori millenaristi e di cronisti per arrivare alle pagine dell’Ariosto, a quella Lipadusa campo di battaglia tra i paladini cristiani e i campioni saraceni nell’epica di un poema che esalta il valore della lealtà e della fedeltà alla parola data più della violenza fine a se stessa: «Che s’abbia a ritrovar con numer pare/ di cavalieri armati in Lipadusa/. Una isoletta è questa che dal mare/ medesmo che li cinge è circonfusa». Non poteva che essere qui che Ruggero il musulmano battezzato da un eremita si unisce in matrimonio con la cristiana Bradamante.
Vola la fama di Lampedusa sull’ippogrifo di Astolfo e l’incantesimo ariostesco sarà topos letterario nelle testimonianze di viaggiatori e missionari del XVI secolo che raccontano di una grotta santuario con all’interno l’immagine di una Vergine Maria con il Bambino, ora in forma di statua ora in tavola dipinta, e della tomba di un marabutto «che visse qui come eremita e vi morì in concetto di santità». Cristiani e turchi nel mezzo degli scontri nel Mediterraneo tra l’Impero spagnolo e quello ottomano si ritrovano a Lampedusa non solo per pregare i loro santi ma anche per cercare ristoro, per cacciare conigli, per scambiare e recuperare oggetti utili lasciati dai visitatori. Si narra di una sorta di questua di denaro che si accumulava tra lampade e ceri e che i cavalieri di Malta s’incaricavano di destinare al santuario dell’Annunziata a Trapani: un rito itinerante che attraversava il mare e ribadiva la circolazione di beni e connessioni simboliche insospettate.
Si affollano e si rincorrono nelle pagine di Dionigi Albera le vicende che percorrono i secoli intorno a questo culto, a questa Madonna di Lampedosa ritrovata effigiata perfino su una xilografia conservata presso il National Maritime Museum di Greenwich e poi citata nella Tempesta di Shakespeare, e con l’appellativo di Nostra Senhora da Lampadosa richiamata sulla prua di un’imbarcazione da guerra portoghese e intitolata ad una confraternita in Brasile destinata a proteggere gli schiavi: migrazioni transatlantiche e ibridazioni di iconografie, di credenze, di pratiche popolari che nelle diverse lingue portano in giro il nome di Lampedusa con la sua Vergine. Nel Settecento l’isola, «luogo emblematico dell’aiuto reciproco e della tolleranza nel Mediterraneo» nell’espressione adoperata dallo storico della letteratura Guy Turber-Delof, diventa spazio ideale di una società utopica secondo il progetto di Diderot che fa dire a Dorval, personaggio di una sua commedia del 1757: «Ah amici miei, se andassimo una volta a fondare a Lampedusa, lontano dalla terra, in mezzo al mare, un piccolo popolo felice!». Nel secolo dei Lumi l’identità dell’isola lontana e immaginaria è laboratorio di sperimentazione politica e prefigura una enclave pacifica, comunità incorrotta, in perfetto equilibrio «tra lo stato di natura e il contratto sociale» nel pensiero filosofico di Rousseau.
Entrata nell’orbita maltese in conseguenza della colonizzazione francese, Lampedusa conosce una serie di passaggi di proprietà, pur restando ancora a lungo luogo di attrazione di anacoreti, fisiocratici e avventurieri. Continua il culto presso la grotta-santuario ma nel corso dell’Ottocento sbiadisce la sua funzione di area libera e franca e le tradizioni religiose sono sopraffatte dagli interessi militari e politici. «La Madonna – scrive Albera – perdeva il suo ruolo di icona accogliente nei confronti delle persone di passaggio, a prescindere dalla loro religione, per diventare invece la patrona della colonizzazione, la custode della genesi di un popolo locale». Sotto i Borboni l’isola diventa un distaccamento militare e una colonia penale, luogo di confino per oppositori politici. E così resterà anche dopo l’Unità d’Italia, perdendo la sua storica centralità e trasformandosi in un atollo marginale e periferico. Da allora in poi la Madonna si chiamerà “di Porto Salvo” e assisterà ai profondi mutamenti sociali ed economici del primo e soprattutto del secondo Novecento, quando Lampedusa da piccola comunità di pescatori diventa rapidamente rinomata località di attrazione turistica.
Lo avevano intuito già nel 1970 i due antropologi Matilde Callari Galli e Gualtiero Harrison, che hanno condotto nell’arco di tre anni una intensa e pioneristica ricerca sul campo [11] e hanno osservato la costruzione dei primi villaggi per vacanzieri, le manomissioni del paesaggio e le conversioni delle attività economiche destinate a inventare e valorizzare il profilo esotico dell’isola e a omologare i modelli culturali della popolazione. Destino comune a mille altre isole se la storia non si fosse incaricata di rimettere Lampedusa al centro di un Mediterraneo interessato da nuovi e tumultuosi flussi di migrazione dall’Africa del Nord e dalle regioni subsahariane e perfino dall’Asia in direzione dell’Europa. Le antiche rotte degli schiavi tornano ad attraversare il deserto e spingono sul mare vecchie e precarie imbarcazioni. «Le barche che trasportano il loro carico umano debordante verso il sogno europeo – annota Albera – sono altrettanto fragili quanto quelle di un tempo; una breve traversata comporta gli stessi pericoli mortali che tante volte hanno tinto di lutto questo mare».
Così questo scoglio si è ritrovato ad essere ancora una volta frontiera, teatro di altri traffici e di altri drammi, chiamato a recuperare il ruolo ospitale e accogliente del passato, la sua antica vocazione a soccorrere «ogni essere umano alla deriva»: a dare riparo ai naviganti, ricovero ai fuggitivi, salvazione ai naufraghi e sepoltura ai cadaveri. Così è stato in occasione della tragedia del 3 ottobre 2013 quando a poche miglia dal porto è affondato un peschereccio con a bordo più di 500 migranti, prevalentemente somali ed eritrei: i superstiti furono 155. A questa immane sciagura altre ne sono susseguite e continuano a ripetersi – anche mentre scriviamo queste righe – nell’indifferenza politica e nell’assuefazione collettiva.
L’acuto studioso del Mediterraneo guarda al mare come all’immenso archivio di naufragi che hanno nel corso dei millenni funestato la navigazione in queste acque. E così scrive:
«Cerco di immaginare cosa vedremmo se l’acqua si ritirasse per magia, scoprendo i fondali marini. Apparirebbero allora i relitti di innumerevoli barche. I fragili battelli in cui sono stipati i dannati del mare si troverebbero fianco a fianco con antiche triremi o galee medievali. Si mescolerebbero con i rottami dei molti tipi di navi che hanno percorso questa distesa liquida nell’epoca moderna».
Il Mediterraneo dunque che oggi torna epicentro di movimenti umani e di respingimenti disumani, di sbarchi, di naufragi fanno di Lampedusa crocevia di tensioni, di attenzioni mediatiche e di resilienze morali, le colonne d’Ercole del nostro mondo e del nostro tempo, afflitto dall’ansia securitaria e dalla militarizzazione dei confini.
Se da una parte l’isola salva i sopravvissuti e i dannati del mare, dall’altro li costringe nel centro di segregazione di contrada Imbriacola, chiamato ipocritamente ‘hotspot’. Lampedusa accoglie generosamente e respinge simultaneamente in spazi “altri”, lontani, impermeabili e impenetrabili. Per proteggere il turismo, il mondo dei migranti con le immagini del dolore, delle torture e delle violenze subite resta separato dal mondo dei vacanzieri abbronzati e spensierati: «la contiguità tra questi due volti di Lampedusa è vertiginosa». Da una parte i corpi nudi cosparsi di creme e ben nutriti, dall’altro i corpi estenuati dalla fame e dal viaggio attraverso il deserto e il mare, corpi da sorvegliare più che da accogliere, da rendere invisibili per garantire la sicurezza dai migranti piuttosto che dei migranti. C’è una singolare simmetria tra i flussi turistici e quelli migratori: crescono e diminuiscono insieme nella stagione estiva restando il mare il luogo elettivo comune ai due fenomeni concomitanti: ora il mezzo da attraversare per la sopravvivenza, ora il fine da consumare per la vacanza.
Qui – sul crinale di questo fronte di filo spinato – si rappresenta ad ogni sbarco una scena di pena e di pietà ma anche di dissimulazioni e di inganni, una incerta e ambigua commistione di solidarietà umana e di sorveglianza poliziesca. Qui è la Porta d’Europa realizzata da Mimmo Paladino, un monumento o stele memoriale attorno al quale si svolgono ogni anno le celebrazioni ufficiali del naufragio del 3 ottobre 2013, proclamato “Giornata della memoria e dell’accoglienza” dal governo italiano. Alla risonanza mediatica della manifestazione istituzionale fanno tuttavia contrappunto altre più silenziose cerimonie di commemorazione organizzate da gruppi di abitanti, attivisti e volontari. E sul sagrato del santuario della Madonna di Porto Salvo si tiene da qualche anno un rito a cui intervengono i rappresentanti di varie religioni. «Si rianima così – scrive Albera – per qualche istante, l’antica vocazione al dialogo di questo spazio». L’eco di storie remote che raccontano degli scambi tra cristiani e musulmani praticati in questo stesso luogo, sembra simbolicamente riaffiorare dal fondo del mare – cosmos naturale e orizzonte esistenziale – che guarda e da sempre accompagna la vita dei lampedusani.
L’autore osserva, cammina lungo il porto, partecipa come può alle operazioni di assistenza, racconta in prima persona le sue esperienze di viaggiatore, di ricercatore, di visitatore. Sono le pagine più belle e stimolanti dell‘antropologo che si fa testimone degli eventi e solleva lo sguardo dalle carte di archivio e dalla lettura di documenti per sentire le voci della gente, per cercare tra le tombe del cimitero le vittime senza nome, per descrivere questo difficile e lacerato universo dopo aver visto da vicino, toccato con mano, constatato le drammatiche dissonanze tra la realtà e la sua rappresentazione, percepito «una nuova poetica della frontiera» che sposta i confini, mette a contatto, rimuove le differenze e va incontro all’Altro. «Ci sono mani che afferrano altre mani per salvarle dalla morte; mani che aprono porte; mani che accolgono. Vengono creati luoghi, riti e oggetti per mantenere viva la memoria di coloro che sono scomparsi tra le onde». Ci pare di risentire le parole di Davide Enia:
«Possiamo nominare la frontiera, il momento dell’incontro, mostrare i corpi dei vivi e dei morti nei documentari. Le nostre parole possono raccontare di mani che curano e di mani che innalzano fili spinati. Ma la storia della migrazione saranno loro stessi a raccontarla, coloro che sono partiti e, pagando un prezzo inimmaginabile, sono approdati in questi lidi. Ci vorranno anni. È solo una questione di tempo, ma saranno loro a spiegarci gli itinerari e i desideri, a dirci i nomi delle persone trucidate nel deserto dai trafficanti d’uomini e la quantità di stupri che può subire una ragazza in ventiquattro ore. E saranno loro a spiegarci cosa è diventata l’Europa e a mostrarci, come in uno specchio, chi siamo diventati noi» [12].
Molte pagine di Dionigi Albera hanno una scrittura vibrante di una particolare risonanza e suggestione letteraria. Alcune sono davvero toccanti. Quando l’antropologo incontra i pochi pescatori che continuano l’attività durante l’estate, si ferma a parlare con loro impegnati a riparare le reti lacerate dalle carcasse di imbarcazioni affondate.
«A un certo punto, uno degli uomini accenna ai resti umani che, in qualche caso, si impigliano tra i fili. Ci guardiamo con imbarazzo e non oso fare domande sulla sorte di quelle spoglie dimenticate che vagano nei fondali. Sulle mie labbra cala la saracinesca dell’indicibile. Cosa possono mai fare questi poveri cristi, quando tra le loro mani affiora un arto con il suo involucro di carne fradicia oppure un teschio spolpato? Non me la sento di spingermi più in là, di sondare i terribili dilemmi morali che si devono presentare alla loro mente, nella solitudine del mare».
Nella consapevolezza che l’antropologia non è una scienza astratta ma è fatta di interazioni, contatti fisici, esperienze immersive dirette di coinvolgimento e di corresponsabilizzazione, Albera non sta a guardare quando al molo Favaloro sbarcano i migranti, assetati e affamati, e non esita a mescolarsi ai volontari, a dare una mano, a aiutarli prima che siano inghiottiti e segregati entro i cancelli dell’hotspot.
«Ho dovuto versare ettolitri d’acqua in piccoli bicchieri di plastica, ho dovuto donare spuntini infiniti per capire. Mi sono imbattuto in foreste di mani tese, ho percepito migliaia di fisionomie. Caleidoscopio di capelli, occhi, fronti, menti, labbra; fantasmagoria di forme e di colori differenti. Apparizioni fugaci che si susseguono senza sosta, l’una dopo l’altra (…). Ogni volto esige un’interazione primordiale, quella che è senza dubbio il prerequisito di ogni relazione umana Senz’altro, la responsabilità di questa pena, e dei rischi smisurati che comporta un semplice spostamento, rinvia ad attori e decisioni che sfuggono al mio controllo. Ma si dà il caso che io mi trovi su questo fronte assurdo. E, dopo tutto, è in gioco la mia responsabilità, qui e ora, per compiere un gesto di tatto e di contatto, infinitesimale ma essenziale».
Il sentimento di pietà che ispira e ravviva il racconto di Lampedusa – come dire il “romanzo di Lampedusa” perché la storia ha ritmi e sintassi di racconto o di diario – non spegne l’indignazione della denuncia della «barbarie dell’Europa civilizzata», la critica alle politiche governative che nel fare la guerra ai migranti criminalizzano quanti li soccorrono in mare così che presto «a segnalare i naufragi non rimarrà che l’affioramento sporadico di qualche cadavere». Eppure è qui, in questa piccola isola, che pencola tra due continenti, che sembra prepararsi il futuro. «Nulla rivela il destino del Mediterraneo meglio delle sue isole» ha osservato il grande scrittore croato Predrag Matvejevic [13]. E Lampedusa non è soltanto il bastione più meridionale della Fortezza di Europa. È anche l’ultima propaggine dell’Africa, una terra di mezzo, l’avamposto del grande movimento umano che sembra secondare quello tettonico delle placche continentali che si avvicinano sempre più e sono destinate nei tempi geologici a collidere ovvero a riunirsi.
Nel palinsesto della Lampedusa di Albera sono già i segni del mondo che verrà, i sogni dei viaggiatori che sfidano l’oltraggio di leggi assassine, il travagliato laboratorio di un’umanità pacificata. Nelle acque di questa isola si combatte oggi una nuova e impari “guerra fredda” tra il Nord e il Sud del Mediterraneo, si concentra con tutta la sua virulenza la bieca sovranità dei confini, l’assurda e cieca politica dei respingimenti. Ma per la sua storia la comunità di Lampedusa è impegnata nell’opera di compassionevole soccorso e di generoso asilo dei migranti sopravvissuti ai naufragi. I suoi pescatori ripetono antichi gesti che sono iscritti nei codici umanitari della gente di mare. Chi va per mare, chi ne conosce gli incerti e mai addomesticati orizzonti, chi vi getta le reti ogni giorno avendo confidenza della sua ricchezza e della sua potenza, guarda con fraterna partecipazione e pronta dedizione a questa umanità disperata di uomini, donne e bambini che arrivano dal mare e approdano nell’Europa promessa.
A guardar bene, gli unici europei che agiscono da europei senza essere rappresentanti di alcuna istituzione sono i pescatori di Lampedusa, gli unici che lanciandosi spontaneamente in soccorso dei naufraghi interpretano e applicano la legge che precede le norme giuridiche, il diritto universale che presiede a quella vocazione mediterranea che l’Europa dovrebbe avere e disonorevolmente non ha. Lampedusa come Ventotene, ha scritto Giovanni Gugg su questa rivista:
«Così come Ventotene fu, durante l’abisso della Seconda guerra mondiale, il luogo simbolico in cui si concepì un’Europa libera e unita, oggi Lampedusa rappresenta la nuova soglia simbolica del continente: crocevia di tensioni, sofferenze, ma anche di possibilità. Se Ventotene fu il laboratorio dell’utopia federale, Lampedusa è oggi il banco di prova dell’Europa dei diritti, dell’accoglienza, della solidarietà. Da Ventotene ci giunge l’eredità di un sogno politico; da Lampedusa l’urgenza di una responsabilità concreta» [14].
Nella rappresentazione mediatica Lampedusa è oggi sinonimo di sbarchi, di naufragi, di tragedie. Immagini di motovedette della Guardia costiera, di drammatici salvataggi di notte e di luminose coperte termiche sopra corpi seminudi e quasi invisibili, di bivacchi negli hotspot sporchi e sovraffollati, di cumuli di carcasse di barconi. Ma nella realtà esistono e coesistono diverse identità dell’isola. C’è quella dei turisti e quella dei “clandestini”, quella militarizzata delle numerose polizie e quella disarmata dei giovani attivisti e dei volontari, quella generosa e solidale degli abitanti che aprono le loro case e offrono il pane e i vestiti ai migranti e quella della gente risentita e arrabbiata per l’abbandono delle istituzioni e il tradimento delle promesse politiche: la precarietà dei collegamenti con la terraferma, per esempio, e soprattutto la mancanza di un ospedale e di un punto nascita, che costringe da sempre le donne a partorire a Palermo o ad Agrigento.
La lettura del libro di Dionigi Albera ci consegna comunque la storia di una piccola isola mediterranea che è sempre stata parte di un altrove vastissimo. Lampedusa è e resta infatti un simbolo, lo scenario di un teatro che, nonostante tutto, celebra il rito dell’ospitalità, dell’accoglienza, della convivenza. Microcosmo che per l’arcaica e quotidiana confidenza sentimentale con il mare ha radunato e fatto incontrare forme diverse di mobilità e di comunità etniche e religiose. Nella struttura del racconto l’antropologo sembra adottare il movimento ondivago del mare, aprendo nelle prime pagine con lo sguardo sull’attualità, sviluppando nella parte centrale un lungo excursus sul passato dell’isola, per spiegare le dinamiche del presente che chiudono il volume. Un andirivieni che è un andare per tornare e un tornare per ripartire, la cifra paradigmatica delle migrazioni mediterranee, un sistema di network che collega località e collettività anche lontane nella geografia dei transiti, degli scambi e delle connessioni.
Ecco perché Lampedusa non è un effimero e artificioso set mediatico, il teatro dello “spettacolo dei confini” tra il mondo del Nord e quello del Sud, che dopo la caduta del muro di Berlino sembrano passare proprio in mezzo a quel tratto di mare che bagna l’isola. È piuttosto una ribalta del prossimo futuro, metonimia di un altro Mediterraneo, metafora di un’insularità aperta, porosa, mai del tutto isolata. La più grande isola delle Pelagie non è pensabile fuori della sua geografia e della sua storia, fuori della genealogia filologicamente ricostruita da Albera – da Lamposa a Lipadusa, da Lampadosa a Lampedusa – nel complesso ordito dei fili che nel quadro della storica talassocrazia connettono le rotte della mobilità del passato ai movimenti migratori contemporanei.
Ciò che oggi è cortina di ferro e presidio militare, era e rimane un luogo dove attorno ad una grotta santuario è nata una sorta di religione laica con i suoi riti e i suoi miti fondativi, è praticato e rispettato il diritto di asilo ante litteram, in nome di una speciale extraterritorialità capace di generare processi storici imprevedibili, di inventare un senso nuovo dei confini del mondo abitato. Se mai ci sarà nell’orizzonte delle prossime generazioni un ordine globale post-nazionale alternativo alla modernità atlantica, Lampedusa con tutte le sue contraddizioni può rappresentare la società mediterranea di frontiera che i migranti stanno lentamente e involontariamente costruendo con la loro insopprimibile volontà di sfidare il presente e di muoversi verso il futuro. Questa piccola isola – «questa vecchia tartaruga testarda e sassosa» – può forse oggi parlare all’anemica e greve coscienza europea, come afferma Albera in conclusione, per «accogliere ancora i sogni viaggiatori di tante persone ostinate che rifiutano la trasformazione del mare in un muro di filo spinato», per aiutarci a ritrovare un nuovo nomos, un equilibrio più giusto di umana e pacifica convivenza tra cielo, terra e mare. Come aveva in fondo immaginato l’utopia visionaria di Denis Diderot più di trecento anni fa.
Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025
Note
[1] Jorge Luis Borges, L’Aleph, trad. it. di Francesco Tentori Montalto, Adelphi Milano 1998: 131.
[2] Gilles Deleuze, L’isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, Einaudi Torino 2001: 4
[3] Antonino Buttitta, Dei segni e dei miti, Sellerio Palermo 1996: 139
[4] Antonio Marazzi, Il corpo astrale di un’isola, in M. Giacomarra (a cura), Isole: Minoranze migranti globalizzazione, Fondazione Ignazio Buttitta Palermo 2007: 103
[5] Ibidem: 104
[6] Zygmunt Bauman, Il disagio della postmodernità, Bruno Mondadori Milano 2002: 104
[7] Davide Camarrone, Lampaduza, Sellerio Palermo 2014: 24
[8] Davide Enia, Appunti per un naufragio, Sellerio Palermo 2017: 17
[9] Ne abbiamo scritto una recensione, I migranti ci guardano e ci dicono chi siamo, pubblicata sul n. 27 di “Dialoghi Mediterranei”, settembre 2017: 86-91
[10] Dionigi Albera, Anton Blok, Il Mediterraneo e gli studi etnologici: una retrospettiva, in D. Albera, A. Blok, C. Bomberger, Antropologia del Mediterraneo, Ediz. italiana a cura di A. Miranda, Guerini Scientifica Milano 2007: 61
[11] Matilde Callari Galli, Gualtiero Harrison, La danza degli orsi, Sciascia ed. Palermo 1974
[12] Davide Enia, Appunti per un naufragio, cit.: 146
[13] Predrag Matvejevic, Il Mediterraneo e l’Europa, Garzanti Milano 1998: 24
[14] Giovanni Gugg, Immaginare l’Europa nel tempo della disgregazione, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 73, maggio 2025: 237, 233-241.
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore). La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020). Per la stessa casa editrice ha curato il volume Per Luigi. Scritti in memoria di Luigi M. Lombardi Satriani (2022).
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