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L’agire sociale verso il riconoscimento delle identità individuali

copertinadi Concetta Garofalo

E il mondo sta a guardare! Continuano a susseguirsi notizie relative a tragedie sociali di ampia portata mondiale. I mezzi di comunicazione raccolgono e amplificano la diffusione di notizie riguardo a atti terroristici, sbarchi e naufragi di migranti, guerre di frontiera e attacchi su centri abitati da civili inermi, cittadini del mondo che subiscono ingiustizie sociali a causa di azioni politiche derivanti da decisioni impersonali e dal fallimento del dialogo interculturale e interreligioso. Siamo giornalmente investiti da una quantità di informazioni che ci lasciano esterrefatti. E tutti stiamo a guardare, come se ciò che accade fosse lontano nel tempo e nello spazio, come se riguardasse “Altri” al di fuori di “Noi”! E di fatto, all’attenzione dell’opinione pubblica, si alterna, in un continuum mediatico, l’andirivieni di politica interna agli Stati-Nazione. Si passa, dunque, dal dentro al fuori, dal vicino a lontano, a tal punto da rischiare di annullare le differenze e il senso critico necessario a strutturare i processi di autopercezione del Sé sociale.

Ma stare a guardare implica, comunque, un punto di vista e l’inquadratura di una prospettiva. E ciò presuppone un posizionamento nel contesto sociale che avviene secondo modalità più o meno consapevoli e più o meno intenzionali da parte dei soggetti, individuali e collettivi.

Le questioni di politica nazionale e internazionale stanno, di fatto, progressivamente, limitando le libertà personali dei singoli individui, stanno sempre più imponendo misure di ingerenza nell’organizzazione e regolamentazione della sfera privata e più intima dei soggetti. Si rende  necessario riprendere le fila del discorso sociale in termini di riconoscimento e di senso di partecipazione e condivisione. Una delle questioni fondamentali, oggi, è ripensare la centralità dei diritti umani e delle modalità dell’essere persona. I diritti umani trovano fondamento nei bisogni fondamentali dell’uomo. Anche l’identità declinata socialmente risponde ad un bisogno fondamentale, quello del riconoscimento sociale del sé all’interno di una collettività. Tale bisogno si traduce nell’esperienza quotidiana del vivere in società sotto forma di micro-sistemi di organizzazione sociale come le istituzioni, la famiglia, la scuola, i gruppi di pari, ecc. La dimensione interazionale, purché sia agentiva e performativa, traduce dal personale al sociale un bisogno che è allo stesso tempo cognitivo, emotivo, psicologico, sociale e culturale.

Al riconoscimento e al posizionamento sociale si accompagna, con dinamiche olistiche di feedback, il processo di percezione dell’autoefficacia e, conseguentemente, la consapevolezza dei propri limiti e delle proprie potenzialità spendibili nell’esperienza sociale del soggetto. Il posizionamento e il riconoscimento sociale concorrono alle modalità dell’essere, esse possono essere considerate un processo di crescita personale e interna all’individuo ma è, anche, la traduzione del sé in termini sociali e culturali. Se la cultura di appartenenza è un sistema simbolico riconosciuto e condiviso, l’identità è la traduzione del sé attraverso un processo di rappresentazione e simbolizzazione del singolo in rapporto alla collettività. L’identità collettiva e il conseguente dialogo interculturale e interreligioso costituiscono la rappresentazione di superficie di un processo profondo di strutturazione dei gruppi umani.

Nel presente contributo intendo esporre alcune, e poche, riflessioni riguardo alla percezione del senso di partecipazione e di condivisione ricorrendo agli assunti teorici di due studiosi, Pierre Bourdieu e Charles Taylor, i quali attraversano diverse discipline di studio e affrontano gli aspetti molteplici della questione. In particolar modo, vorrei sfiorare la trattazione del concetto di spazio dialogico come snodo di negoziazione fra individualità soggettiva, performatività degli agenti sociali e senso di appartenenza a sistemi collettivi sociali e culturali.

Procedo subito a fare qualche esempio tratto da Bourdieu In Risposte. Per un’antropologia riflessiva (1992), l’individuo non è definito in quanto tale. L’agente è un costrutto dell’analisi dell’osservatore. L’agente è attivo solo se socialmente costituito in virtù di un sistema di proprietà riconosciute e, in base alle quali, vengono attribuiti gradi diversi di agentività trasformativa (Garofalo, 2016). Nel 1994, in Ragioni pratiche, ribadendo il modello teorico esitato dal lavoro di ricerca già esposto ne La distinzione, Bourdieu mette in discussione il concetto stesso di classe sociale e preferisce, piuttosto, parlare di “spazio sociale”. Le “classi teoriche” sono astrazioni e rappresentazioni sulla carta dei sistemi sociali osservati. È, invece, nello spazio sociale che l’agire individuale e collettivo riemerge sotto forma di strategie sociali, di dinamiche di difesa e di appropriazione del capitale sociale. È nella ridistribuzione asimmetrica dei capitali e dei conseguenti rapporti di forza che emerge la distinzione fra “agenti specializzati” e agenti “ordinari”, dominanti e dominati. I cosiddetti agenti specializzati di produzione (come i giuristi, i burocrati, ecc.) difendono i propri interessi specifici nei rispettivi campi, sono i detentori di capitale culturale specifico e lo rendono traducibile in capitale simbolico attraverso il processo di universalizzazione dei punti di vista, in virtù del quale producono il discorso sullo Stato e con il dire agiscono nello Stato e fanno lo Stato. Inoltre, in Risposte, Bourdieu parla di “agenti governativi o non governativi”, dotati del potere di controllo sociale in virtù di lotte e giochi di forza. Possiamo, timidamente, parlare di “agentività politica”, se questo potere di controllo delle pratiche viene esercitato «tramite leggi, regolamenti, provvedimenti amministrativi» (Bourdieu, 1992: 80).

1Dunque, anche lo Stato è una struttura strutturante e regolatrice delle pratiche, mediante «una specie di orchestrazione immediata degli habitus» (Bourdieu, 2009: 113) come per esempio il calendario sociale, i provvedimenti per la famiglia nel campo politico ed economico, la gestione del sistema scolastico, i sistemi di sicurezza nazionale, le leggi di bilancio, gli interventi di emergenza. L’azione dello Stato concorre alla formazione di strutture mentali incorporate e inconsce che agiscono sulle pratiche in una relazione di accordo con le strutture oggettive e istituzionali del sistema sociale.

È interessante notare come Bourdieu utilizzi la terminologia dell’imposizione (inculcare, costrizione, soggezione) per spiegare l’adesione degli agenti sociali al potere dello Stato. Questa adesione al sistema e l’attribuzione di legittimità al potere statale trascendono la volontà e l’intenzionalità degli agenti e tale prassi è di fatto doxa, esito di lotte fra dominanti e dominati che la storia ha oggettivato; essa è punto di vista imposto, principio inconscio di riconoscimento, produttore e organizzatore di pratiche, di relazioni e di rappresentazioni. Un punto è particolarmente importante, come si evince da quanto detto finora: l’attribuzione di agentività agli agenti sociali, sia individuali che collettivi, non va di pari passo con l’affermazione di consapevolezza, razionalità, intenzionalità e progettualità. Ai concetti di habitus e di doxa fa eco anche l’illusio, cioè quella disposizione inconsapevole dell’essere nel gioco sociale, dal momento che sono condivise le poste in gioco attraverso il rapporto di coerenza fra le strutture mentali e il sistema strutturato di regole, di strategie e di pratiche accettato e riconosciuto. È evidente che Bourdieu ricorre ad un topos frequente nel lavoro di descrizione e interpretazione di fatti sociali soprattutto nell’ambito degli studi sociologici e antropologici di etnopragmatica, quando utilizza la metafora del gioco e introduce il concetto di illusio, per spiegare, anche, le relazioni fra agenti e campi sociali.

«L’evoluzione delle società tende a far emergere degli universi (che io chiamo campi) autonomi e dotati di leggi proprie. […]. Ogni campo, producendosi, produce una forma di interesse che, dal punto di vista di un altro campo, può sembrare disinteresse» (Bourdieu, 2009: 142 e sgg.).

Gli agenti occupano una posizione all’interno di un campo in quanto “portatori di capitale”. In Risposte, Bourdieu parla di «propensione a orientarsi attivamente» verso la conservazione o la sovversione (Bourdieu, 1992: 77). Ma è bene ricordare che, in Bourdieu, il concetto di attività non implica intenzionalità, poiché le questioni di natura prettamente economica e sociale non si esauriscono in se stesse ma confluiscono nello spazio dialogico, ovvero nel cosiddetto capitale simbolico. Qualsiasi tipo di capitale (sia esso politico, economico, culturale) diventa capitale simbolico quando trova riscontro in un sistema, condiviso e incorporato, di rappresentazioni mentali del fare sociale.

In sistemi sociali pre-capitalistici, l’agire si realizza in termini di “denegazione” della realtà e di illusio, all’interno di sistemi di rappresentazione socialmente riconosciuti, come nella realtà oggettivata delle dinamiche di scambio del dono, dei rituali, delle condotte d’onore, della gestione strutturante dei rapporti familiari all’interno del gruppo di appartenenza, e così via. Ad esempio, nel caso dello scambio del dono in Cabilia, Bourdieu mette in evidenza come il donare attivi una serie di azioni sociali, che, attraverso la gestione strategica dei tempi e degli spazi, mette in relazione l’agire degli individui e dei gruppi secondo un sistema riconosciuto, e quindi oggettivato, di attese e di obblighi, cui fanno seguito esiti sociali non sempre certi (contro-dono, debito, offesa, ingratitudine, ecc.). È utile notare che, come nel caso dei “cicli di reciprocità”, la tendenza di Bourdieu a formulare modelli generatori di pratiche vincola in schemi di previsione e condizionamento delle pratiche anche quelle azioni che potrebbero far emergere un certo livello di intenzionalità e di agentività. Infatti, per quanto il senso pratico orienti le azioni, le pre-venga, nel loro svolgersi nel presente e nel futuro immediato, resta, comunque l’incertezza dell’esito, almeno finché il “ciclo di reciprocità” atteso si possa considerare concluso [1].

2Anche le dinamiche di attribuzione del potere politico ed economico possono essere spiegate attraverso l’efficacia del sistema simbolico di riconoscimento. Gli agenti dominanti impongono la propria gestione dell’agire sociale sulla collettività solo e soltanto in virtù di un sistema condiviso di rappresentazioni, di attese e di princìpi di distribuzione e scambio dei capitali e dei rapporti di forza. In poche parole, semplificando un po’, si potrebbe affermare: se imponi il tuo potere, ci riesci soltanto se la collettività ti riconosce l’attribuzione di tale potere. Ma, è importante sottolineare che a tale manifestazione di agentività da parte dei dominanti trova riscontro un’adesione dossica della collettività. In quanto il sistema simbolico si fonda su un sistema di credenze incorporato nel corso del tempo mediante dinamiche inconsce di imposizione velata e indolore che Bourdieu chiama “violenza simbolica”. Più la condivisione è percepita come “naturale” e legittima, maggiore sarà “l’efficacia simbolica” dell’azione sociale.

Spiegare il come e il perché dell’agire umano in termini di efficacia simbolica implica, inoltre, prendere in esame il potere performativo del dire l’azione. Bourdieu non concorda con Austin: ogni atto linguistico non produce effetti sulla realtà sociale grazie ad una “forza illocutoria”. Gli enunciati sono atti di potere all’interno di un sistema di relazioni e di rapporti di forza fra le posizioni occupate dagli agenti sociali. Gli atti linguistici sono pratiche linguistiche e, in quanto tali, ad esse si può applicare il concetto di habitus, inteso come struttura strutturante le pratiche degli agenti stessi. In questa prospettiva, le parole acquistano performatività sotto forma di potere simbolico, accreditato da un sistema oggettivato di credenze che attribuisce efficacia linguistica al locutore finché l’interlocutore, individuale o collettivo, ne riconosce la legittimità.

L’efficacia simbolica del linguaggio, e il relativo effetto di violenza simbolica, si attua con diversi gradi di velata esplicitazione dei rapporti di distribuzione di forza, sia in contesti relazionali più intimi, come in famiglia e fra amici, sia in contesti di pubblico esercizio del potere. Secondo Bourdieu, è un’illusione pensare che tutti i locutori abbiano accesso in egual misura al capitale linguistico. Infatti, come accade nel campo politico, gli agenti dominanti, in forza del potere loro attribuito, – e come, ad esempio, accade nel campo delle telecomunicazioni, gli specialisti dell’informazione – assumono il monopolio del capitale linguistico e ne attuano l’efficacia simbolica e la performatività sui sistemi relazionali, anche in nome della collettività stessa di cui essi stessi fanno parte nel duplice ruolo di produttori e destinatari dell’azione sociale.

3È, quindi, possibile “agire” il cambiamento dei sistemi sociali di divisione e distribuzione dei capitali e dei livelli di partecipazione solo se si agisce sui sistemi simbolici che ne legittimano l’esistenza e orientano le azioni degli agenti, affinché essi agiscano in maniera conforme alle strutture oggettive. In proposito, Bourdieu sottolinea l’importanza delle dinamiche di lotta all’interno dei sistemi sociali per la costruzione strutturata degli habitus, nell’appropriazione dei capitali, nell’esercizio dei poteri e nel loro riconoscimento oggettivante a livello dei sistemi di rappresentazione che rendono possibili l’agire individuale e collettivo. Se Bourdieu parla di “azione sovversiva” e “carisma”, lo fa, in proiezione dell’istanza di cambiamento insita in ogni sistema culturale, perché riconosce al sistema sociale un «equilibrio provvisorio, un momento della dinamica con la quale si infrange e si restaura continuamente l’adattamento delle distribuzioni e delle classificazioni incorporate o istituzionalizzate» (Bourdieu, 2005: 220).

Possiamo affermare che siamo a questo punto dello stato dei fatti, a livello nazionale e internazionale? Ulteriori aspetti della questione vengono affrontati, nel suo modello di “multiculturalismo”, da Charles Taylor in prospettiva, in un certo senso, diacronica:

«Nell’età premoderna non si parlava di “identità” o “riconoscimento”, e non perché gli uomini non avessero (ciò che chiamiamo) identità o perché le loro identità non dipendessero da un riconoscimento, ma perché allora queste cose erano troppo poco problematiche per essere tematizzate» (Taylor, 2008: 20).

Questo, purtroppo a mio avviso, accade ancora oggi se lo estendiamo non soltanto sull’asse temporale ma anche sull’asse geografico. Le sperequazioni fra Occidente e Oriente, fra Nord e Sud del mondo sono evidenti non solo dal punto di vista della distribuzione delle risorse economiche a livello planetario ma anche dal punto di vista sociale e culturale con conseguenze evidenti e ben note rispetto alle opportunità di accesso alle risorse e alle modalità di partecipazione sociale ai livelli anche più immediati della quotidianità soggettiva.

Nella sua trattazione, che procede con tramatura intensa e articolata, Taylor coniuga efficacemente i presupposti teorici delle dinamiche di riconoscimento, delle politiche dell’universalismo e dell’uguaglianza e delle politiche della differenza con gli assunti teorici dell’ideale di autenticità, del principio di originalità, dell’identità irripetibile e dell’idea di dignità, individuale e soggettiva.

«Ognuno dovrebbe essere riconosciuto per la sua identità, che è unica; ma qui “riconoscimento” significa una cosa diversa. Ciò che si afferma con la politica della pari dignità è voluto come universalmente uguale, come un bagaglio universale di diritti e dignità; la politica della differenza ci chiede invece di riconoscere l’identità irripetibile, distinta da quella di chiunque altro, di questo individuo o questo gruppo» (…) Detto in altro modo: prendiamo debitamente atto di qualcosa che esiste universalmente (tutti hanno un’identità) e in quanto riconosciamo qualcosa che per ognuno è soltanto suo. L’esigenza universale spinge una presa d’atto della specificità» (Taylor, 2008: 24-25).

Nella mia prospettiva, tali assiomi, trattati da Taylor, non sono in contrasto con l’analisi descrittiva di Bourdieu, poiché il sistema dell’habitus, dei capitali e dei campi sociali, può comportare differenti e concomitanti modalità di inclusione e partecipazione rappresentate da un’istanza identitaria generata socialmente e un’istanza interiore di natura dialogica in continuo divenire. Lo snodo vicendevolmente performativo sono gli spazi di negoziazione e di dialogo interculturale, spazi che oggi si configurano fisici e geometrici, virtuali e digitali, diretti e mediati, variamente testualizzati, condivisi, resi pubblici e tradotti da un piano all’altro dei sistemi di comunicazione e di significazione semiotica.

«Dunque il fatto che sia io a scoprire la mia identità non significa che io la costruisca stando isolato: significa che la negozio attraverso un dialogo, in parte esterno e in parte interiore, con altre persone. È per questo che la nascita del concetto di identità generata interiormente dà una nuova importanza al riconoscimento. La mia identità dipende in modo cruciale dalle mie relazioni dialogiche con altri» (Taylor, 2008: 19).

L’istanza interiore dialoga con i riflessi che, come in uno specchio, emanano dalle interazioni. L’istanza interiore non è intrinsecamente data ma, essa stessa, è una risultante in continuo divenire, è costituita della sedimentazione costruita nella dimensione del tempo sociale. Pertanto, possiamo considerare e rivalutare la centralità dell’identità interiore come un’istanza dialogica nella quale si coniuga il processo di elaborazione e rielaborazione personale dell’esistenza. Il tempo sospende la linearità che gli è propria per riattualizzare in divenire il rapporto fra tradizione e innovazione, il dialogo intergenerazionale, l’andirivieni fra il passato individuale e collettivo e il presente sociale, il lontano ed esterno a noi e il vicino condiviso nello spazio sociale più prossimo.

4Consapevoli della estrema complessità delle tematiche che implicano oggettive questioni  multifattoriali, il nostro modesto contributo alla riflessione teorico-concettuale si pone l’obiettivo di cercare di interpretare i nessi agentivi fra i molteplici ecosistemi collettivi e le individualità singole degli agenti sociali, di delineare cioè lo spazio di negoziazione sociale e culturale tra l’universalismo dei diritti umani e dei bisogni fondamentali e il rispetto, la valorizzazione e la centralità delle specificità, culturali e sociali, storicizzate e geograficamente localizzate all’interno delle quali si definiscono le identità plurime soggettive, che del sistema collettivo fanno parte in maniera strutturale e variamente agentiva e trasformativa.

A questo punto, è proprio il caso di trarre qualche considerazione conclusiva riguardo l’analisi dei livelli di attribuzione di agentività nei sistemi sociali, moderni e contemporanei. Seguendo l’impianto disciplinare di Bourdieu, emerge che non sempre il discorso sull’agentività e sull’agire partecipativo si limita, soltanto, a questioni di affermazione o negazione di essi. Piuttosto, la sua correlazione ad aspetti più soggettivi come l’intenzionalità, la consapevolezza, la progettualità viene spesso messa da Bourdieu in discussione, o, addirittura, negata. Di ciò risente in maniera proporzionale il grado di intervento trasformativo sui contesti e sugli stessi agenti, sia individuali che collettivi.

«Di per sé la nascita di una società democratica non fa scomparire questo fenomeno, perché gli uomini possono ancora definire se stessi sulla base dei propri ruoli sociali; quello che è decisivo per scalzare questa identificazione derivata socialmente è proprio l’ideale di autenticità, che quando emerge, per esempio con Herder, m’impone di scoprire il mio modo d’essere originale» (Taylor, 2008: 16).

In Bourdieu e in Taylor, riconosco un assunto comune nel loro definire il proprio oggetto di osservazione: essi mettono in evidenza che l’agire partecipativo e le dinamiche di riconoscimento che ne derivano emergono là dove l’azione crea relazioni, dove i soggetti agenti sono individui sociali, enti collettivi, sistemi simbolici, dove le stesse posizioni sociali sono il prodotto di negoziazioni culturali che avvengono nel tempo e nello spazio. Inoltre, mi sembra interessante il fatto che, in quanto “osservatore” di pratiche, Bourdieu, nel discorso sull’agentività, attribuisce agentività anche a se stesso. Ma questa agentività è sempre ridefinita, teoricamente, in quanto risultato di pratiche che non si fondano esclusivamente sulla coscienza individuale o su un puro principio di intenzionalità. Ciò porterebbe a dire che anche lo scienziato sociale (come nel caso dell’antropologo) è un individuo agente nella rete di relazioni sociali. Nelle interazioni fra persone è implicito il dialogo fra libertà, diritti e doveri individuali che si concretizza nelle quotidiane manifestazioni di stima e rispetto reciproco, nell’assunzione di responsabilità che deriva dall’attribuzione di ruoli e funzioni, nella condivisione delle istanze collettive. Aldilà c’è l’indifferenza, un’istanza rarefatta nella quale il rispetto di sé e degli altri si dissolve.

Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
Note

[1] Per un’analisi più ampia delle strategie di scambio e del dono e una lettura economica del “calcolo interessato”, si rinvia a Bourdieu, 2005: 174 e sgg. Come Bourdieu ha più volte ribadito, il capitale simbolico e il capitale economico sono «inestricabilmente intrecciati». Ciò si evince nella “teoria generale dell’economia delle pratiche”, che considera le pratiche economiche soltanto dei casi particolari di pratiche sociali, e che, quindi, tutte le pratiche, anche apparentemente disinteressate, sono orientate alla «massimizzazione del profitto, materiale o simbolico» (Bourdieu, 2005: 189).
Riferimenti bibliografici
Bourdieu P., Il senso pratico, Armando, Roma, 2005 (1980)
Bourdieu P., Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna, 2009 (1994)
Bourdieu P., Wacquant L., Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino, 1992
Garofalo C., “Habitus e dispositivi. Isotopie dell’agire”, in Dialoghi Mediterranei, n. 20, luglio 2016
 Taylor C., Habermas J., Multiculturalismo, Feltrinelli, Milano, 2008 (1996)   
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Concetta Garofalo, laureata sia in Lettere sia in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli Studi di Palermo, studia i molteplici aspetti teorici e pragmatici della agency e i processi, a breve e lungo termine, di interazione fra soggetti, instaurati nel mondo contemporaneo in relazione ai sistemi culturali di appartenenza, in spazi e tempi configurati soprattutto dai contesti urbani e dai contesti di apprendimento. La sua prospettiva di ricerca interdisciplinare attinge agli ambiti di studio più specifici dell’etnopragmatica e della sociosemiotica.

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