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L’abito della detenzione: il sistema di criminalizzazione e di reclusione dei migranti tunisini alla frontiera del Mediterraneo

Zarzis (ph. Silvia Di Meo)

Zarzis (ph. Silvia Di Meo)

di Silvia Di Meo

Essi sempre infimi/essi sempre colpevoli/essi sempre sudditi (…)/essi che vissero come assassini sotto terra,/essi che vissero come banditi in fondo al mare,/essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,/essi che si costruirono leggi fuori dalla legge/essi che si adattarono ad un mondo sotto al mondo (…)

Pier Paolo Pasolini, “Profezia”, in Alì dagli occhi azzurri, 1965 

Partiti dalle coste di Kelibia e Korba, dalle spiagge di Sfax o dalle coste meridionali di Zarzis e Djerba, i migranti tunisini che hanno raggiunto le rive siciliane nel corso del 2020 e del 2021 sono stati la maggioranza sul totale degli arrivi [1]. Coloro che fanno harga, “bruciando” cioè la frontiera del Mediterraneo con i loro barchini di legno o gommoni per giungere sulle coste italiane, vengono quasi automaticamente categorizzati giuridicamente come irregolari da espellere o da rimpatriare, all’interno di un approccio migratorio di stampo securitario. I migranti tunisini sono infatti inseriti all’interno di meccanismi di inclusione differenziale frammentati in più spazi e in più tempi. Una volta giunti in Italia vengono vestiti dell’abito della detenzione: un abito difficile da dismettere, che però non può impedire tentativi di resistenza e di opposizione al sistema di frontiera. 

A largo di Zarzis (ph. Dilvia Di Meo)

A largo di Zarzis (ph. Silvia Di Meo)

Il Mediterraneo del confinamento: le politiche migratorie

Il percorso migratorio che accompagna i cittadini tunisini nel viaggio dalla loro terra di origine fino in Europa è marcato dalla privazione della libertà personale, in maniera più sistematica rispetto a migranti di altra origine che affrontano lo stesso percorso. Questo tipo di trattamento differenziale, precedente alla pandemia, è tuttavia diventato più evidente e più marcato a partire dal 2020 quando le misure sanitarie per la prevenzione da Covid-19 si sono intrecciate con l’intesa politico-economica stretta tra l’Italia e la Tunisia.

Dal confinamento in nave quarantena fino ai respingimenti sistematici, l’Italia ha messo a punto un’efficiente macchina per i rimpatri a partire dall’estate del 2020. Con l’accordo tra i due Stati, l’Italia si è impegnata a finanziare 8 milioni di euro per la rimessa in efficienza di sei motovedette in possesso della Guardia costiera tunisina in cambio dell’impegno della Tunisia nel rafforzamento dei controlli delle frontiere e dell’addestramento di forze di sicurezza che sorveglino le coste [2]. Inoltre, è stato concordato il ripristino dei voli di rimpatrio dei tunisini che erano stati sospesi durante i primi mesi della pandemia: quote settimanali prestabilite di cittadini da espellere attraverso due voli charter a settimana.

Una militarizzazione crescente finalizzata al controllo dei flussi migratori – attraverso l’implementazione sempre più consistente e più sofisticata di mezzi militari attivi nel Mediterraneo – è il segno visibile di una politica di contrasto alla libera circolazione delle persone che si fa sempre più marcata, in nome della sicurezza nazionale e della protezione dei confini. Così, sulla base dell’intesa tra Italia e Tunisia sono aumentati i provvedimenti di espulsione a carico dei tunisini, che tra novembre 2020 e gennaio 2021 hanno costituito l’80,5% dei cittadini stranieri transitati per i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) e il 75,5% dei cittadini stranieri rimpatriati dall’Italia [3]

A causa di tali accordi, soltanto una minima parte del crescente numero di persone tunisine che giungono in Italia ha avuto accesso alla possibilità di richiedere protezione internazionale, per lo più negata in ragione della loro nazionalità: una violazione di diritti [4] che non è neutrale dal punto di vista delle categorie etno-razziali e socio-economiche che colpiscono in termini giuridici e politici i soggetti coinvolti. I tunisini, condannati già in partenza, sono pertanto inglobati nelle procedure di espulsione e rimpatrio che normalmente si realizzano nei tre passaggi spazio-temporali seguenti. 

Scritte in arabo sulla porta di una camerata nel hotspot di Lampedusa (ph. Silvia De Meo)

Scritte in arabo sulla porta di una camerata nel hotspot di Lampedusa (ph. Silvia De Meo)

L’approdo: Lampedusa e Pantelleria 

Normalmente i migranti tunisini approdano sulle coste delle isole di Lampedusa o di Pantelleria. Per quanto riguarda Lampedusa, i migranti vengono portati all’hotspot di Contrada Imbriacola dove viene effettuata una procedura di identificazione, nella quale avviene la compilazione del foglio notizie, il fotosegnalamento, la rilevazione delle impronte digitali. Da quanto osservato, le autorità di pubblica sicurezza applicano una selezione sostanzialmente automatica in base al Paese di provenienza dell’individuo e non viene fornita una corretta informativa socio-legale: i cittadini tunisini, considerati in partenza “migranti economici” vengono esclusi quasi a priori dalla protezione internazionale e dalla possibilità di richiedere asilo, con il rischio dunque di poter essere rimpatriati attraverso una procedura accelerata. Per i migranti tunisini che giungono a Pantelleria, la procedura di pre-identificazione si svolge al centro di prima accoglienza, ex-caserma Barone – dove i migranti sono trattenuti per un periodo di tempo variabile. L’identificazione viene in seguito completata nel CPR di Trapani Milo, nella cui struttura ci sono gli uffici della Questura.

Nelle strutture isolane di Lampedusa e Pantelleria si implementano dunque procedure di segregazione molto simili: trattenimento che può prolungarsi nel tempo, sequestro dei telefoni cellulari e degli oggetti personali, sorveglianza costante, fino alle misure di vigilanza che non permettono la libertà di uscita dalla struttura.

Il ruolo delle due isole del Mediterraneo, seppur diverso, è dunque quello di zone cuscinetto che fungono da luoghi di contenimento e prima identificazione per le persone appena approdate: a Lampedusa – dove un approccio hotspot più normalizzato regola le procedure di selezione dei migranti – vige una maggiore spettacolarizzazione del fenomeno migratorio, anche in ragione di arrivi più numerosi, con una conseguente sovra-esposizione delle persone che sbarcano sull’isola; a Pantelleria – dove una maggiore informalità detta la prima accoglienza delle persone – vige un’invisibilizzazione del fenomeno che, agli occhi esterni, risulta limitato, nonostante l’incremento degli arrivi degli ultimi anni.

Un’ipervisibilizzazione e un ipo visibilizzazione che risultano strumentali, in maniera diversa, all’essenzializzazione delle persone migranti, ridotte a flussi e masse di gente indistinte e informi, nel loro eccedere e nel loro non esserci – in una complementare negazione del loro diritto di migrare e di esistere (Di Meo 2020). La stigmatizzazione riguarda soprattutto i tunisini, la cui presenza è considerata ancor meno tollerabile, secondo il criterio gerarchico che distingue sulla base della provenienza i cosiddetti “richiedenti asilo” dai “migranti economici”: i meritevoli di essere accolti da chi dovrebbe essere respinto. Nell’opinione comune, soprattutto quella degli isolani, i tunisini non hanno ragioni per migrare, non scappano da guerre: sono i “clandestini” a Pantelleria, i “turchi” a Lampedusa, gli “illegali” fagocitati dal sistema di sicurezza messo in atto nella zona di confine. 

Nave quarantena: la medicalizzazione del confine in mare 

Esterno hotspot di Lampedusa (ph. Silvia De Meo)

Esterno hotspot di Lampedusa (ph. Silvia De Meo)

Dall’identificazione si passa al confinamento per il periodo di isolamento previsto per la prevenzione dal contagio da Covid-19. Per più di due anni, la quarantena si è svolta prevalentemente sulle navi da crociera della GNV gestite dalla Croce Rossa Italiana (CRI) [5] per l’applicazione delle procedure di assistenza socio-sanitaria previste dallo stato di emergenza: dispositivi applicati per tutelare la salute pubblica, il cui riconoscimento poggiava però su presupposti discriminatori, riguardando solamente le persone straniere giunte via mare in maniera irregolare [6]. Da Lampedusa a Porto Empedocle, da Trapani a Palermo, da Catania ad Augusta, i migranti sono rimasti da un minimo di 7 giorni fino anche a 20 o 30 giorni detenuti in navi che stazionavano in rada di fronte alle città costiere siciliane.

Su un piano simbolico, questo dispositivo ha un impatto fortissimo. Dal barchino all’hotspot e dall’hotspot alla nave quarantena – dal mare alla terra e dalla terra di nuovo al mare: il migrante trattenuto nella nave quarantena vive un ulteriore atto di esclusione del corpo, posto in uno spazio al di fuori – in mezzo al mare – per una questione di “salvaguardia della salute pubblica”. L’emergenza giustifica ancora una volta il trattenimento come “misura di protezione sanitaria”, la quale di fatto non è poi assicurata (Di Meo, Bentivegna 2021): infatti all’interno di questi dispositivi si è consumata la morte di tre cittadini stranieri – Bilal Ben Massaud e i minori Abou Diakite e Abdallah Said – la cui condizione di salute, paradossalmente, si è aggravata durante la permanenza sulla nave quarantena.

Da un punto di vista giuridico, più che un dispositivo sanitario, la nave quarantena è risultata essere uno strumento bio-politico per l’incanalamento giuridico dei cittadini stranieri: il tempo di permanenza in nave serviva a portare a compimento la selezione dei cittadini stranieri, distinguendo tra chi accede all’accoglienza come richiedente asilo e chi viene espulso, ai fini di determinare i percorsi giuridici e semplificare le procedure di rimpatrio, specialmente quelle riguardanti i cittadini tunisini (Anderlini, Di Meo 2021). In sostanza, l’utilizzo delle navi quarantena si è posto in continuità con le funzioni di selezione e contenimento del dispositivo hotspot: lo stato eccezionale dipendente dalla situazione pandemica è stato normalizzato nella gestione ordinaria degli arrivi. 

CPR di Trapani Milo (ph. Silvia De Meo)

CPR di Trapani Milo (ph. Silvia De Meo)

Allontanamento o espulsione: CPR 

Dopo la fine della quarantena, i migranti riempiono un secondo foglio notizie e qui si completa l’iter che porta all’espulsione dei tunisini. Questa procedura viene eseguita ancora una volta senza avere accesso a informazioni, senza aver modo di raccontare la storia personale, senza permettere alle persone di manifestare la domanda di protezione internazionale, senza la possibilità di esplicitare altre situazioni che impedirebbero il rimpatrio. I cittadini stranieri irregolari che non possono soggiornare nel territorio italiano sono soggetti a uno sbrigativo provvedimento di allontanamento: ciò può comportare il trattenimento dei migranti nel CPR oppure viene emesso un ordine di lasciare il territorio italiano entro 7 giorni. Con l’identificazione da parte dell’autorità consolare tunisina all’aeroporto di Palermo, viene permessa l’esecuzione definitiva del rimpatrio del cittadino tunisino.

Così, in queste poche fasi un migrante tunisino viene rispedito nel suo Paese di origine senza nessuna garanzia a tutela dei diritti. Le restrizioni legate al Covid-19, l’accesso limitato al CPR ad avvocati, ONG, mondo esterno e il sequestro dei telefoni cellulari dei detenuti impediscono ulteriormente l’esercizio effettivo dei diritti e quasi sempre i cittadini tunisini vengono rimpatriati senza aver avuto un colloquio con un legale. Così, passaggio dopo passaggio, l’opera di imposizione dell’abito della detenzione si realizza: dallo sbarco all’allontanamento, il cittadino tunisino – tranne in rare eccezioni – è inserito dentro la macchina della criminalizzazione, della reclusione coatta, della sorveglianza punitiva e dell’espulsione. I tunisini che finiscono in CPR spesso affermano: «noi non siamo criminali, qual è la nostra colpa?»

Infatti, le ragioni della detenzione sono lasciate non dette, implicite, ma sono il frutto di precise scelte politiche nazionali e internazionali: gli accordi Italia-Tunisia per i rimpatri, la presenza della Tunisia nella lista dei “Paesi sicuri” e il razzismo sistemico, trasformano in colpevoli i migranti, i quali vengono abbandonati alla mercé di un potere indiscusso difficile da contrastare (Esposito, Caja, Mattiello 2022): il migrante tunisino, sul cui corpo non si posa lo sguardo umanitario, viene fagocitato dal sistema securitario. 

Interno CPR Trapani

Interno CPR Trapani

Oltre lo stigma della colpa: le storie dei migranti tunisini 

Essi sempre infimi, essi sempre colpevoli, essi sempre sudditi recita la poesia di Pier Paolo Pasolini, “Profezia”, in Alì dagli occhi azzurri (1965), rivolta ai persiani che «si ammassano alle frontiere» che tanto ricordano i tunisini: infimi, poiché si presentano come bisognosi ma le ragioni che fanno abbandonare il loro Paese di origine non sono giudicate valide; colpevoli, per il tentativo di sfidare le frontiere; sudditi, perché condannati a priori, catturati e ingabbiati in politiche e retoriche di sottomissione.

Differenzialmente esposte all’offesa, alla violenza e alla morte – dentro la morsa coercitiva della gestione migratoria – la vita di queste persone è immersa nella precarietà, termine che designa quella «condizione politicamente indotta di vulnerabilità ed esposizione di persone soggette all’arbitraria violenza dello Stato» (Butler 2017: 57). È una storia collettiva di negazione: i corpi maltrattati e umiliati attraverso il disconoscimento dei bisogni fisici, l’asilo non riconosciuto a priori, le storie di vita giudicate inattendibili, le richieste di protezione rigettate. Una negazione che è dunque rimozione di una sofferenza sociale determinata dal potere politico e istituzionale (Kleinman, Das e Lock 1997): forme plurime di strutturazione della violenza di cui è possibile rendersi conto considerando le singole biografie delle persone migranti che agiscono nei contesti di privazione, dalla partenza alla detenzione.

Tra le innumerevoli storie c’è quella di Hedi e Mehdi, giovani di 22 e 24 anni, partiti da Biserta nel novembre 2019 alla ricerca di una possibilità di realizzazione economica che non avevano trovato in Tunisia. I corpi dei due fratelli morti in mare sono arrivati sulle coste occidentali della Sicilia, dove inizialmente sono stati associati ad un traffico internazionale di stupefacenti, poi smentito: la criminalizzazione ha dunque marcato la rappresentazione mediatica dei due giovani, che sono stati trasformati in corpi di un reato, perdendo il loro diritto al lutto.

Una storia tragica anche quella di Bilel Ben Masoud, 20enne tunisino di Sfax morto mentre era recluso sulla nave quarantena Moby Zaza, a largo di Porto Empedocle, nel maggio 2020 durante l’isolamento sanitario. Bilel voleva la libertà ed ha tentato di attraversare il mare per raggiungere le coste siciliane. È stata la prima – e non ultima – persona a perdere la vita durante il trattenimento in una nave quarantena.

Un’altra biografia colpita da questa violenza sistematica è quella che riguarda Wissem Ben Abdel Latif, giovane 26enne tunisino di Kebili, morto nel novembre 2021 in contenzione psichiatrica all’ospedale San Camillo di Roma, sedato e legato mani e piedi ad un letto di ospedale, dopo essere passato per il CPR di Ponte Galeria, dove è stato trattenuto nonostante il giudice di pace avesse sospeso il provvedimento di trattenimento. Per quanto abbia fatto di tutto per uscire da quella prigionia – attraverso proteste e segnalando all’esterno le privazioni che si vivevano nel centro – Wissem ha trovato la morte nelle mani delle istituzioni.

Le prove vissute sulla pelle delle persone parlano delle politiche migratorie europee più di ogni altra cosa, perché diventano luoghi di memoria. Fra il potere sulla vita attuato dalla governance migratoria e il razzismo di Stato legittimato istituzionalmente, si produce la separazione tra le vite che contano e quelle sacrificabili, ossia quelle considerate morte e perdute prima di qualunque distruzione (Butler 2017). In questo senso, la rilevanza del razzismo istituzionale sta proprio nell’essere la condizione sotto la quale si può esercitare il diritto sovrano di lasciar morire e di uccidere (Foucault 2009). 

Imbarco nave quarantena (ph. Silvia De Meo)

Imbarco nave quarantena (ph. Silvia De Meo)

L’abito della detenzione, imposto e dismesso 

Quello della detenzione è dunque il vestito che lo Stato cuce addosso alle persone migranti criminalizzate in partenza, tutte persone che vivono lo stesso trattamento discriminatorio e punitivo dentro le istituzioni totali che attraversano (Foucault 1975). I tunisini sopra tutti, definiti “migranti economici”, gli irregolari per eccellenza, i “criminali”, quelli che non hanno diritto, a cui è imposto sistematicamente il ritorno forzato, la reclusione, l’umiliazione, la violenza. Il vestito che accompagna la detenzione, simbolico o materiale, cucito sulle persone migranti, rappresenta il sistema di schemi entro cui i soggetti migranti sono reclusi e inquadrati: è l’habitus, inteso come «sistemi di disposizioni durevoli e trasponibili, strutture strutturanti, come princìpi organizzatori di pratiche e rappresentazioni» (Bourdieu 2003: 84), che determina l’atteggiamento repressivo verso corpi concepiti e immaginati come “indesiderati”.

In questo senso, il corpo non è solo la presenza materiale del soggetto ma il «luogo dove rimane la traccia del passato» (Fassin 2016: 201), la traccia della violenza strutturale che marca i segni corporei. È una presenza nel mondo – costantemente negoziata – che rimane inscritta ed inserita in una storia, agente e performativa (Di Meo 2022) anche quando si tenta di rimuoverla.

Nizar è uno dei giovani tunisini detenuti per quasi tre mesi nel CPR di Pian Del Lago a Caltanissetta nella primavera 2022, dopo aver vissuto altre forme di reclusione sulla nave quarantena: «Questa è una prigione, nemmeno gli animali sono trattati così» sosteneva a proposito del CPR, dove soffriva la prigionia. Questa condizione di privazione reiterata della libertà lo ha portato ad autolesionarsi: ingoiati degli oggetti di metallo è finito in ospedale, riuscendo poi a scappare e a denunciare questa esperienza detentiva ad una rete di supporto legale. Nizar incorporava la violenza attorno a lui, esponendo sulla pelle la propria precarietà: la sua resistenza a quella condizione prendeva le mosse dall’esposizione del corpo segnata dall’abbandono e dall’assenza di sostegno. Il giovane, infatti, aveva presentato domanda di protezione per il suo orientamento sessuale e paradossalmente all’interno del centro viveva vessazioni e violenze anche a causa della sua omosessualità, abbandonato in Italia a discriminazioni dalle quali sperava di scappare.

Il caso di Nizar mostra come, anche quando la storia è sottratta al corpo – attraverso la rimozione storica, come presenza senza passato e senza memoria –, i corpi resistono attraverso mobilitazioni della vulnerabilità. Una vulnerabilità che non coincide con debolezza o vittimizzazione ma è un atto volontario che può essere descritto come forma di resistenza (Butler 2017) nella misura in cui il divieto di apparire, di muoversi, di parlare e denunciare è la precondizione imposta ai soggetti reclusi. In questo senso l’incorporazione della violenza rende semplicemente esplicito il senso di morte che, di fatto, già esiste in contesti privativi come quelli sopradescritti.

Dunque, gli atti dei migranti non fanno altro che performare ciò da cui sono indotti e a cui cercano di resistere. Nelle forme di rifiuto e di persistenza si esprime il tentativo di sabotare la riproduzione stessa dell’istituzione detentiva (Butler 2017). Allora, esporre il proprio corpo e la vulnerabilità indotta non è una condizione di “nuda vita” ma una forma di lotta, spesso distruttiva, ma anche rivendicativa della propria presenza e dei propri diritti. 

Carcasse barche dei migranti, porto di Zarzis (ph. Silvia Di Meo)

Carcasse di barche dei migranti, al porto di Zarzis (ph. Silvia Di Meo)

Rimpatrio: doppia logica, doppia criminalizzazione 

Tra i corpi le cui storie non possono essere cancellate c’è quello di Akram Taamallah: tunisino di Menzel Bourguiba, morto in un naufragio nel 2019, seppellito nel cimitero di Cefalù. Un corpo tra molti di cui né lo Stato tunisino né tanto meno quello italiano si sono fatti carico per riportarlo in Tunisia tra i suoi cari, come volontà della famiglia.

Il caso di Akram mostra ulteriormente il trattamento destinato alle persone migranti, alle esistenze che si considerano sacrificabili, non solo da vive, ma anche da morte: se da vivi i migranti sono corpi su cui si esercita dominio e oppressione, fagocitati dalla macchina del contenimento e del respingimento, da deceduti hanno ancor meno valore e, in questi casi, il rimpatrio – che comporterebbe il riconoscimento delle responsabilità politiche – diventa un carico individuale delle famiglie verso cui lo Stato si mostra indifferente. Il rimpatrio della salma risulta infatti difficilmente praticabile, e implica continue azioni, sollecitazioni e pressioni legali. Inoltre in questo caso, il rimpatrio non avviene tramite una procedura accelerata ma prevede tempistiche lunghissime e modalità di gestione amministrativa contorte. Anche in questa circostanza si afferma il principio di negazione e di non riconoscimento: la criminalizzazione delle persone è determinante anche nella morte: Essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi in fondo al mare, recita Pier Paolo Pasolini in “Profezia”.

Tuttavia, quei corpi continuano ad essere corpi politici che reclamano giustizia, attraverso le voci di altre persone, i familiari e gli attivisti che si sono attivati in loro supporto. La morte è politica, come sostiene Achille Mbembe (2016), e nel riconoscimento della morte c’è un’espressione intensa della vita politica che ancora una volta ruota attorno ad un corpo. Un corpo che, benché privato dei diritti e della vita, continua ad essere performativo nella sua capacità di attrarre e condensare un’azione rivendicativa. Come sostiene Didier Fassin, «alla cancellazione della storia i corpi resistono» (2016: 201): dunque i segni della contenzione lasciati sugli arti di Wissem dai lacci che lo legavano, le ferite interne di Nabil provocate dagli oggetti ingeriti e i resti di Akram seppelliti in Sicilia, esistono e resistono alla rimozione storica del regime di frontiera.

Infatti, raccontare una storia di vita e anche solo pronunciare un nome può costituire una forte forma di riconoscimento quando si diventa dei numeri, quando si viene ricoperti dallo stigma di “clandestini” o addirittura non si è degni di essere chiamati in nessun modo. Inoltre, in tempi di guerra in Europa, dove emerge esplicitamente la doppia morale che legittima la gerarchia delle vite, questi corpi sono la testimonianza emblematica del razzismo selettivo del confine europeo applicato a chi esercita il diritto di fuga, che seleziona e classifica chi è “meritevole” di accoglienza e chi non ha diritto alla libertà di movimento, che individua le vite “degne” di essere protette e quelle da lasciar morire senza alcun lutto. 

Carcasse di barche al porto di Sfax (ph. Silvia De Meo)

Resti di barche al porto di Sfax (ph. Silvia De Meo)

Leggi fuori dalla legge: resistere alla detenzione 

Eventi come pandemie e guerre, sistemi politici e istituzioni che implementano approcci sempre più discriminatori e securitari, rendono evidente che non si può dare per scontato che tutti gli esseri viventi abbiano lo status di soggetti portatori di diritti. Le persone migranti rientrano sicuramente tra le categorie sociali che più ne sono private. La situazione dei tunisini, in modo specifico, rende chiaro che tale status va rivendicato continuamente e quando viene negato, la deprivazione va resa nota e visibile: con i gesti, con le parole, con il silenzio, fino all’autodistruzione. Davanti a vite segnate dall’abbandono e dall’assenza di supporto, l’esposizione del corpo al potere può essere un’azione plurale di opposizione. In questo senso, gli atti distruttivi o violenti praticati dai migranti vanno letti in un’ottica agentiva, corporea e politica (Ravenda 2011).

Nel corso di questi ultimi due anni numerosissime sono state le iniziative di protesta dei migranti in tali contesti di segregazione coatta: ad esempio le manifestazioni di dissenso delle persone trattenute nell’hotspot di Lampedusa nell’estate del 2020, in una struttura al collasso dove si viveva in promiscuità e abbandono; o le proteste del febbraio 2021 sulla nave GNV Allegra quando i migranti si sono arrampicati sul parapetto, con il corpo sospeso, gridando “Tunisia no, Tunisia no” in riferimento alle prassi di negazione sistematica della protezione internazionale ai cittadini provenienti dal Paese nordafricano; o ancora, quando i tunisini trattenuti sulla nave quarantena al largo di Augusta, nell’agosto 2021, hanno diffuso un video social con un appello pubblico per la loro liberazione e si sono poi gettati in mare. E ancora, le rivolte nei CPR: in Sicilia nel 2020 nel CPR Pian Del Lago (CL) i migranti hanno appiccato un incendio con dei materassi dopo che un loro compagno di detenzione, il tunisino Aymen, era morto per un malore, in assenza di un soccorso tempestivo.

È evidente come, dall’hotspot alla nave quarantena fino al CPR i migranti, in particolare i tunisini, esposti a radicali forme di violenza, deprivati delle più essenziali forme legali e politiche di protezione, non sono privati di ogni forma di agency. Essi che si costruirono leggi fuori dalla legge, essi che si adattarono ad un mondo sotto al mondo recita ancora Pier Paolo Pasolini, con lo sguardo agli stranieri giunti sulle coste italiane, con versi che possono descrivere bene quello che riguarda anche i tunisini giunti via mare in Sicilia.

Esclusa attraverso svariati dispositivi di contenimento e segregazione – in tempi e spazi variabili – la presenza dei migranti viene irregolarizzata progressivamente, dentro un ordinario stato di eccezione. Dal momento dello sbarco fino all’ultimo passo prima del rimpatrio – quando si compie l’esercizio del massimo potere sovrano da parte dello Stato – i migranti vivono costantemente un’applicazione della regola che è spesso anche sospensione della giustizia intesa in senso più ampio, quella giustizia rivendicata dai migranti stessi nelle loro richieste di aiuto: tutela psico-fisica, rispetto dei diritti fondamentali, sostegno socio-legale.

Eppure in questa macchina repressiva ben rodata e funzionante, i migranti non sono passivi e negoziano costantemente la loro presenza, nel tentativo – spesso disperato – di fuggire dalla prigionia. Il riposizionamento costante e la negoziazione della propria presenza è possibile grazie alla costruzione di un universo di azione – fatto di discorsi, strategie e tattiche informali – che riscatti il loro esserci a discapito dei tentativi strutturali di oppressione, di occultamento, di respingimento: i contatti informali con reti di supporto legale, le proteste, le azioni rivendicative, gli scioperi della fame, gli appelli sui social, l’autolesionismo e tutte le pratiche di esposizione del corpo, sono quindi atti di resistenza alla violenza sistematica; azioni performative che spesso hanno prodotto il riconoscimento di diritti e il raggiungimento di una qualche forma di giustizia.

«Ho fatto harga e ora ho bruciato i vestiti che indossavo nel CPR. Finalmente sono libero dalla prigione», ha detto Nizar, una volta scappato. Fuggire, prendere la parola, manifestare o rifiutare il cibo, per quanto siano azioni diverse, sono tutti atti di svestimento dell’abito della detenzione. Come si sfida la limitazione della libertà di movimento “bruciando” il mare con l’harga, come si appicca un incendio nel CPR per protesta, così si dà fuoco all’abito della detenzione per ricercare la libertà negata, per ridurre simbolicamente in cenere le sbarre di quelle prigioni che hanno lasciato in tanti senza respiro. 

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022 
Note
[1] Secondo l’UNHCR, nel corso del 2021, i migranti tunisini che hanno raggiunto le coste siciliane sono stati circa 15.671: https://data.unhcr.org/en/documents/details/90906 
[2] Il finanziamento arriva dal Fondo di premialità per le politiche di rimpatrio, con lo scopo di realizzare il progetto “Support to Tunisia’s border control and management of migration flows”, volto a sostenere il Paese nordafricano nelle attività di controllo delle frontiere e di contrasto al traffico di migranti. https://sciabacaoruka.asgi.it/tunisia-8-mln-rafforzament-controllo-frontiere-marittime/ 
[3] I dati raccolti dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) fotografano e analizzano tale approccio securitario:
https://inlimine.asgi.it/molti-rimpatri-poche-garanzie-unanalisi-dei-dati-sui-rimpatri-dei-cittadini-tunisini-degli-ultimi-mesi/
https://www.asgi.it/asilo-e-protezione-internazionale/un-approccio-sempre-piu-securitario-lo-studio-sui-rimpatri-in-tunisia/ 
[4] La Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati (1951) stabilisce che, a prescindere dal Paese di provenienza, una persona possa avanzare domanda di protezione in ragione di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche. Le domande di asilo vanno esaminate in modo individuale e circostanziato sulla base della storia personale della persona richiedente. 
[5] Dal 31 maggio 2022 sono state dismesse le navi quarantena, due mesi dopo la fine dello stato di emergenza nazionale, avvenuto il 31 marzo 2022, che giustificava l’utilizzo di tali dispositivi restrittivi. 
[6] Sulle criticità del dispositivo della nave quarantena si veda il documento “Diritti in rotta. L’esperimento delle navi quarantena e i principali profili di criticità: https://www.asgi.it/notizie/report-diritti-in-rotta-navi-quarantena/ 
Riferimenti bibliografici
Jacopo Anderlini, Silvia Di Meo, Navi quarantena e approccio hotspot, Rivista Il Mulino, 2021 
Pierre Bourdieu, Il senso pratico, Armando Roma, 2003 
Judth Butler, A chi spetta una buona vita? Nottetempo Milano, 2013 
Judith Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo Milano, 2017 
Silvia Di Meo, Ritrarre i migranti ai confini europei. Antropologia visiva fra analisi critica e proposta fotografica, Voci, Annuale di Scienze Umane, 2020
Silvia Di Meo, Boza e la presenza migrante: avventura, combattimento e tattiche nell’attraversamento della Frontera Sur, Franco Angeli, Mondi migranti: 1, 2022: 177-199 
Silvia Di Meo, Enrico Bentivegna, Migrants’ Quarantine and COVID-19 Pandemic in Italy: a Medico-anthropological View. SN Compr Clin Med. 2021;3(9): 1858-1862. 
Francesca Esposito, Emilio Caja, Giacomo Mattiello (a cura di), Corpi reclusi in attesa di espulsione. La detenzione amministrativa in Europa al tempo della sindemia, Edizioni Seb 27, 2022 
Didier Fassin, L’espace politique de la santé, Presse Universitaire de France, Paris, 1996 
Didier Fassin, Quando i corpi ricordano. Esperienze e politiche dell’Aids in Sudafrica, Argo Editrice Lecce, 2016 
Didier Fassin, Le vite ineguali. Quanto vale un essere umano, Feltrinelli editore Milano, 2019 
Arthur Kleinman, Veena Das, Margaret Lock (a cura di), Social suffering, University of California Press, 1997 
Michel Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Editions Gallimard, Paris, 1975 
Michel Foucault, Bisogna difendere la società. Corso al College de France 1975-76, Feltrinelli Milano, 2009 
Achille Mbembe, Necropolitiche, Ombre Corte Verona, 2016 
Pier Paolo Pasolini, “Profezia”, in Alì dagli occhi azzurri, 1965 
Andrea Ravenda, Alì fuori dalla legge. Migrazione, biopolitica e stato di eccezione in Italia, Ombre corte Verona, 2011
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Silvia Di Meo. antropologa, è attualmente dottoranda in Scienze sociali presso l’Università di Genova. Il suo terreno di ricerca è l’area mediterranea e i suoi confini esternalizzati, in particolare la Sicilia, la Tunisia, il Marocco e la Spagna. In questi campi si occupa di etnografia delle frontiere, di mobilità e mobilitazioni transnazionali e di politiche migratorie europee. Si interessa di pratiche di memoria e utilizza la fotografia per indagare i processi migratori, le storie di vita e di viaggio. Collabora con associazioni italiane ed estere impegnate nel monitoraggio e nella tutela dei diritti dei migranti nell’area mediterranea.

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