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L’abbandono che sostiene la conoscenza. Modi e mezzi della tradizione costruttiva abruzzese

Sperone (Aq). Resti dell’antico borgo (ph. Luciana Serafini)

Sperone (Aq). Resti dell’antico borgo (ph. Lucia Serafini)

CIP

di Lucia Serafini [*] 

Entrare in confidenza con le case abbandonate

e intraprendere un viaggio (…).

Saperci entrare non da ladro ma da esploratore,

fino a intuire quella loro particolare

propensione a ritornare alla terra.

(Mario Ferraguti, La voce delle case abbandonate)

È un paradosso che lo stato di abbandono e ruderizzazione in cui versano, in tutto o in parte, tanti piccoli centri abruzzesi abbia reso più conoscibili le loro strutture urbane ed edilizie, rivelando aspetti altrimenti nascosti da intonaci, paramenti murari e controsoffitti, e guadagnando alla ricerca argomenti preziosi per eleggerli a principali se non unici documenti di se stessi e della cultura cui rimandano. Aspetto imprescindibile di questa cultura è come noto la circostanza ambientale e geografica che ne ha tessuto e accompagnato le vicende, facendo delle risorse locali il filo rosso di una storia costruttiva di lunghissimo corso che è arrivata praticamente indenne fino al secondo dopoguerra, quando i cambiamenti radicali portati dalla modernità hanno combinato l’abbandono di centri abitati e campi coltivati con la dismissione delle antiche pratiche agricolo-pastorali che per secoli ne avevano supportato le economie locali e le comunità di riferimento.

Per essere una storia di lunga durata, quanto meno coincidente con un arco temporale che si può far partire dal Medioevo e dal fenomeno di incastellamento del territorio regionale, tale storia non può che essere di carattere processuale, ossia densamente stratificata e ibrida, arrivata al presente con le tante trasformazioni intervenute nel corso del tempo, all’interno però di una cultura della manutenzione, oggi sconosciuta, che procedeva in maniera puntuale, riparando il riparabile, sostituendo l’irrecuperabile, rinforzando le parti inefficienti, senza mai cambiare, di fatto, la sostanza della costruzione, tanto alla scala edilizia che a quella urbana.

 1.Salle (Pe). Resti dell’antico centro. Rilievi di T. Mastrantonio, T..F. Petrella


 Salle (Pe). Resti dell’antico centro. Rilievi di T. Mastrantonio, T..F. Petrella

Col suo libro La casa rurale in Abruzzo, del 1961, è stato il geografo Mario Ortolani a segnalare con efficacia come la complessità geomorfologica dell’Abruzzo, con la sua natura prepotentemente montagnosa, sia all’origine della nascita e sviluppo di centri più o meno compatti, a seconda dell’asperità del pendio. Si tratta in ogni caso di centri fortificati, non solo perché “naturalmente” muniti ma perché all’eventuale presenza di castelli e/o torri – in genere in posizione dominante – hanno aggiunto la prerogativa di perimetri dove le case formavano una massa compatta a guisa di muraglia, perciò dette case muraglia o a muro di fortezza, all’interno dei quali si distribuiva l’abitato e le stesse strade. Disposte secondo le curve di livello o perpendicolarmente ad esse, queste erano non solo di larghezza appena utile a far circolare uomini e animali ma anche di numero appena sufficiente a fare da spine funzionali alle case, strutturando il tutto in un sistema a gradinata ancor oggi riconoscibile, nonostante il progressivo scivolamento a valle che si è prodotto con le espansioni successive.

La natura di centri compatti deriva direttamente dalla stretta dipendenza fra assi viari e unità abitative, collocate l’una accanto all’altra a formare cortine continue, con affacci in genere dal solo lato prospiciente la strada, e costituite da ambienti quadrangolari di circa 20-30 mq. La presenza di muri di spina tra una cellula e l’altra, destinati a portare solai e coperture, ha fatto da struttura resistente dell’intero organismo urbano perché capace di un comportamento diretto al massimo contenimento degli sforzi. Dal loro canto, le facciate delle case hanno riscattato il ruolo subalterno loro assegnato nell’economia strutturale dell’insieme, con la funzione di delimitazione dello spazio urbano e di definizione della qualità ambientale. Non solo. Alla necessità di portare ingressi e aperture – di ampiezza peraltro esigua – si è infatti combinata la circostanza di pareti tirate a scarpa fino all’attacco del tetto, oppure, ancora più efficacemente di archi cosiddetti “soprastrada” perché costruiti tra una cortina edilizia e l’altra, in genere all’altezza del primo piano, a coprire tratti di strada in modo puntuale e ripetuto lungo il percorso, oppure nella maniera continua e pervasiva di veri e propri tunnel voltati, capaci di garantire in ogni caso un’azione di mutuo contrasto e resistenza al ribaltamento. L’aspetto di testuggine che ancora presentano tanti centri visti dall’alto, dipende proprio dalla densità del tessuto edilizio, talvolta cresciuto, per guadagnare spazio alle abitazioni, anche sulle volte sopra le strade, a configurazione di impianti urbani così densi da divenire tutt’uno con quelli edilizi.

2.Corvara (Pe). L’antico centro. (ph. Lucia Serafini)

Corvara (Pe). L’antico centro. (ph. Lucia Serafini)

Tanto le pareti a scarpa quanto gli archi e le volte sopra le strade sono elementi estremamente identificativi a tutt’oggi di tanti centri abruzzesi, abbandonati o meno, e preziosi, per le tracce che conservano, di una realtà regionale che ha dovuto fare i conti con i terremoti e il necessario affinamento degli espedienti utili a contrastarne gli effetti. Muri con un piede più robusto, cosi come archi di controspinta tra le case, sono i documenti più evidenti di una tradizione costruttiva tanto radicata da decretarne un loro uso generalizzato su tutto il territorio regionale e senza soluzioni di continuità tra le zone ad alto rischio sismico e le altre. In questo uso rientrano, con una funzione strettamente complementare, gli stessi “radiciamenti” praticati nelle murature, con questo termine intendendo le travi di legno annegate nelle pareti, in punti ritenuti strategici utili a conferire loro una sia pur minima elasticità, tanto come sistema di consolidamento che di rinforzo preventivo. Altro aspetto interessante sono le tante finestre con architrave timpanato ancora numerose sulle facciate, soprattutto nelle aree della pietra calcarea, caratterizzate da robusti piedritti su cui si imposta un elemento orizzontale aumentato di altezza in mezzeria per contrastare gli sforzi di taglio nel suo punto più vulnerabile. Un’alternativa agli architravi timpanati sono, soprattutto nelle aree dov’è l’argilla a dominare, piccoli archi di mattoni posti sulle aperture con la funzione di deviarne sui fianchi il peso delle murature superiori.

Indipendentemente dall’orografia dei luoghi è noto che la casa della tradizione abruzzese è “rurale” perché funzionale al lavoro contadino e alla necessità di tenere insieme, all’interno della stessa unità, l’abitazione e il cosiddetto rustico, destinato a stalla, magazzino, bottega. Come ha messo in evidenza Mario Ortolani, è proprio il rapporto tra questi due elementi a realizzare la complessa varietà dei casi particolari, con l’abitazione e il rustico sovrapposti l’una sull’altro oppure giustapposti secondo l’inclinazione del pendio, a formare comunque dei blocchi, in genere variabili da due a quattro/cinque piani, non sempre tuttavia emergenti dal terreno. Soprattutto nei centri più elevati del Gran Sasso e della Maiella, le case hanno spesso i locali destinati a rustico in buona parte incassati nella roccia, talvolta utilizzata come base d’appoggio della volta superiore. Altro elemento fortemente identitario della casa abruzzese, soprattutto nei siti più aspri, è la scala esterna, anche nota come “profferlo”, utile a risparmiare spazio dentro le case, ad evitare buchi sulla volta del rustico per passare da qui al piano superiore, nonché a ricavare sotto la rampa ambienti supplementari da usare come pollai, porcili o legnaie.

3.Ofena (Aq). Le cortine edilizie lungo via Girardelli. Rilievi di A. Marziale

Ofena (Aq). Le cortine edilizie lungo via Girardelli. Rilievi di A. Marziale

Spesso gli ambienti sono unici per ogni livello, sovrapposti l’uno sull’altro come in un casellario, e usano, per l’accesso ai piani superiori al primo, scale a pioli fino al soffitto. adibito in genere a pagliaio, a granaio, a deposito di prodotti che temono l’umidità e fanno da isolamento per il resto: sorta di casa torre che sembra assimilabile alla maison en hauteur riconosciuta da Demangeon nella Francia meridionale.

Se la tipologia delle case rurali è dipendente dalla funzione rurale e dalla geomorfologia del sito, la loro concreta realizzazione è intimamente legata alle risorse locali, che variano a seconda delle zone, dei tanti cantoni e vallate che caratterizzano la complessa geografia regionale. Queste risorse hanno condizionato il cantiere storico tanto riguardo alle strutture degli edifici che alle loro finiture, facendolo discendere quasi sempre dalla necessità di eludere la carenza dei mezzi disponibili con accorgimenti tanto elementari quanto a loro modo raffinati.

4.Rosello (Ch). Antica porta urbica (ph. Lucia Serafini)

Rosello (Ch). Antica porta urbica (ph. Lucia Serafini)

A regnare incontrastata in tutto l’Abruzzo montano è la pietra, calcarea nell’area del Gran Sasso e della Maiella, arenaria nel territorio dei Monti della Laga, al confine col Lazio. In ogni caso si tratta di pietra che nell’edilizia di base è stata raramente usata in conci, quasi sempre invece impiegata nella varietà dei blocchi e delle bozze, in elementi cioè grossolanamente lavorati e messi in opera con l’ausilio necessario di elementi di supporto, come scaglie e zeppe – talvolta frammenti laterizi – destinati a compensare la mancanza di ripianamenti e mettere in tensione tutta la muratura. Ed è la stessa pietra, cotta e lavorata nelle tante “calcare” sparse un tempo sul territorio ad aver fornito il materiale per confezionare i giunti tra gli elementi e realizzare le superfici di sacrificio, soprattutto quelle esterne esposte all’aggressione degli agenti atmosferici. Non sempre si tratta di intonaci, nel senso classico e vitruviano del termine, ma di rivestimenti superficiali realizzati spalmando sui muri la malta di rabbocco dei giunti oppure scialbando le murature con impasti di grassello e acqua dati a pennello, tanto più coprenti le tessiture sottostanti quanto più denso il composto. È stata in genere la povertà di questi espedienti ad accelerare il processo di degrado innescato dall’abbandono delle case, fino talvolta a decretare i crolli di intere strutture, soprattutto quando all’abbandono si sono aggiunti fenomeni tellurici e/o idrogeologici. Sicché, se è stata la caduta dei rivestimenti superficiali a rivelare i paramenti murari, in termini di materiali e tecniche, è stata la caduta parziale o totale delle murature a mostrarne le sezioni e gli espedienti usati per ottenerne dimensioni consistenti e di sicura resistenza.

In molti dei casi visibili le sezioni mostrano murature a sacco e con una dimensione media compresa tra i 60 e gli 80 centimetri corrispondenti ai 2 palmi e mezzo – 3 palmi della tradizione costruttiva abruzzese, considerando la misura del palmo napoletano corrispondente a 26.4 cm. Non sembra una coincidenza che tale dimensione corrisponda a quella indicata a metà Ottocento dall’architetto vastese Nicola Maria Pietrocola, quando nei suoi Taluni scritti di architettura pratica – all’epoca unico manuale della costruzione storica in Abruzzo – afferma che da sempre in Abruzzo i muri si fanno «con midollo di pietra e con uno spessore medio di due palmi e mezzo». Si fanno cioè a sacco, usando materiale di scarto per l’interno – preferibilmente ciottoli, purché spaccati e dimezzati per consentire un migliore attrito tra le parti – e procurando di collegare i due paramenti con elementi il più possibile passanti da parte a parte, in pietra e in qualche caso anche in legno, tali da legare le facce e stringerle in un sistema il più possibile robusto.

5.Atessa (Ch). Ortofoto del centro antico e delle prime espansioni (Google earth)

Atessa (Ch). Ortofoto del centro antico e delle prime espansioni (Google earth)

Fino alla seconda metà del Novecento, è raro rinvenire nei centri abruzzesi murature realizzate avendo presente la distinzione tra parti resistenti e parti di tamponamento, quella che Leon Battista Alberti già cinque secoli addietro aveva nel suo Trattato proposto a rinnovamento della tradizione vitruviana, separando il concetto di struttura da quello di costruzione col binomio degli “ossami” e dei “ripieni”, con i primi destinati ad una funzione portante, gli altri ad un ruolo di riempimento.

Nella varietà delle loro soluzioni, le murature delle case storiche abruzzesi sono fondamentalmente masse inerti, il cui spessore serve non solo a eludere la qualità della sua costruzione con la quantità del materiale usato, ma anche a ricavarvi dentro nicchie e vani utili a fare da complemento alle funzioni abitative. Gli stipi presenti in tanti muri, oggi resi ancor più veri ed evidenti dalla caduta degli infissi in legno che un tempo li nascondevano alla vista, sono ancora una volta il risultato di una cultura materiale costretta a fare di necessità virtù.

Quanto detto a proposito delle case in pietra vale anche per le case costruite in laterizio: filo rosso di una pratica di cantiere secolare che connota l’edificato storico in una progressione che si fa sempre più marcata nel passaggio dalla zona appenninica a quella costiera, dove la realtà geologica del territorio si è tradotta in riserve di argilla che ne hanno scritto la cultura materiale, anche per l’industria di arti e mestieri cui la lavorazione dell’argilla si è connessa nel corso del tempo, in termini di cave, di fornaci per la cottura dei mattoni e non ultimo di maestranze, anche provenienti da regioni esterne all’Abruzzo.

6.Borrello (Ch). Radiciamenti su vecchi muri del centro storico (ph. Lucia Serafini)

Borrello (Ch). Radiciamenti su vecchi muri del centro storico (ph. Lucia Serafini)

Ed è significativo come sia il tipo di argilla, con le sue componenti minerali, a contrassegnare i luoghi e farsene carattere distintivo. Come per i centri montani costruiti con la stessa pietra delle rocce su cui sorgono e di cui, soprattutto a seguito dell’abbandono, appaiono propaggini naturali, così anche per i centri dov’è la costruzione in laterizio a dominare incontrastata, è il colore e la composizione dell’argilla estratta a individuare i paesaggi urbani. E ciò è vero, ad esempio, sia per l’area del subappennino Teramano dove prevale l’argilla marnosa azzurra, presente in banchi scistosi, spesso alternati a banchi di sabbia, sia per l’area del Chietino, caratterizzata dalla presenza, soprattutto intorno a Lanciano, di giacimenti calcarei e ocracei, utilizzati per ottenere, a seguito della cottura, prodotti ceramici variabili dal giallo paglierino al rossastro.

Riguardo alle dimensioni dei mattoni e agli apparecchi murari usati è difficile fare generalizzazioni, quantomeno per il periodo che precede il XIX secolo e il processo di normalizzazione legato alla misura del palmo napoletano. È noto infatti che prima di allora le dimensioni variavano da luogo a luogo e che quando erano definite non sempre erano rispettate. A ciò si aggiunga che l’edilizia storica ha usato mattoni cotti nelle fornaci temporanee, con elementi accatastati gli uni sugli altri in fosse vicino alle cave d’argilla o nel migliore dei casi in strutture precarie addossate a pendii naturali. Col risultato di prodotti cotti in maniera diversa, secondo la vicinanza o lontananza dalla fonte di calore prodotta col legname disponibile, quindi con resistenza e consistenza altrettanto diversa, segnalata in genere dai colori più chiari e più scuri che ancor oggi si leggono sulle cortine.  Nel contesto di tale carenza di risorse vanno letti anche gli apparecchi, in genere mai regolari ma con mattoni messi di testa e di costa in maniera poco alternativa tanto in larghezza che in altezza, raramente arrotati e talvolta con giunti “a sorella”, ossia sovrapposti gli uni sugli altri e come tali lontani dalla migliore arte costruttiva. In questi casi ad assicurare il collegamento fra i paramenti – stante gli spessori di cui si diceva per le murature in pietra – è in genere la frequenza di mattoni messi di testa, a fungere da diatoni, con una progressione che varia dalla base fino alla sommità delle murature, spesso tirate a scarpa, sebbene con variazioni appena percettibili.

Casa in pietra a secco sui monti della Maiella (ph. Lucia Serafini)

Casa in pietra a secco sui monti della Maiella (ph. Lucia Serafini)

All’uso delle risorse disponibili, nella situazione di contingenza economica e materiale che ha sempre caratterizzato il cantiere tradizionale, vanno riferite anche le cosiddette murature miste, la maggior parte di quelle presenti su tutta l’area regionale, che hanno usato tanto la pietra che i mattoni, con proporzioni che variano in funzione delle aree e anche delle trasformazioni vissute nel corso del tempo, soprattutto a seguito degli eventi sismici e dei provvedimenti conseguenti. In questa chiave vanno ad esempio lette le murature listate, di pietra cioè, ma con listature di mattoni su uno o più filari, che si diffondono dopo la ricostruzione dei centri della Marsica danneggiati dal terremoto del 1915. Qui come altrove la costruzione in pietra ha in questo caso usato il mattone per garantire alla scarsa lavorazione dei suoi elementi fasce di ripianamento ripetute in altezza ad intervalli regolari di 50-70 cm.

Come per la costruzione in pietra, anche per quella in mattoni vale la concezione di muro come massiccio indifferenziato, continuo e pieno, solo eventualmente alleggerito da aperture, riseghe e stipi. E anche in questo caso la povertà di murature miste e irregolari era comunque destinata ad essere elusa con la presenza di superfici di sacrificio, per quanto povere ed elementari anch’esse.

Raro l’uso nei centri abitati dell’argilla cruda, priva di cottura cioè, solo addizionata con paglia e sabbia, lavorata a mano in genere nella forma del massone – masso di terra foggiato a pagnotta – e lasciata asciugare al sole; più frequente invece nelle contrade rurali, ancora oggi rappresentate dai pochi esemplari rimasti, spesso allo stato di rudere, in provincia di Chieti e Pescara. Si tratta di case anche note come pinciare – dal nome delle fornaci di campagna – a variante locale delle trunere piemontesi, i casoni veneti e romagnoli, gli atterrati delle Marche, le casedde calabresi e lucane, le domu in ladiri sarde: solo alcune delle tante realtà in terra cruda che da nord a sud d’Italia, comprese le isole, segnano la storia costruttiva della penisola, restituendo nella verità del dialetto una somma di lemmi assolutamente aderente al paesaggio, anche antropico, delle regioni di appartenenza. Per intenderne la diffusione, e solo limitatamente all’Abruzzo, si pensi che nel censimento del 1934 promosso dall’Istituto Nazionale di Statistica, le case di terra presenti tra le province di Pescara, Chieti e Teramo, ammontavano a oltre 7000, a fronte delle poche decine ancora in piedi e oggi oggetto di nuove attenzioni da parte della cultura locale.

Avezzano (Aq). L’antica fornace in muratura listata (ph. Lucia Serafini)

Avezzano (Aq). L’antica fornace in muratura listata (ph. Lucia Serafini)

Una variante delle case di terra, ancor più rara vista la fragilità e povertà della costruzione, è il cosiddetto “pagliaro” costituito essenzialmente da uno scheletro di legno o canne, cui aderiscono stuoie intessute con paglia di frumento, con tetto pure di paglia, destinato a ospitare la paglia, ma il cui nome deriva probabilmente proprio dal materiale con cui è costruito.

Nell’area della provincia di Chieti è diffusa anche la pietra di gesso, segnalata dalla toponomastica di centri come Gissi e Gessopalena, costruiti interamente col gesso, almeno nelle loro parti più antiche, soprattutto nel caso di Gessopalena, progressivamente abbandonata dopo il terremoto della Maiella del 1933 e oggi ridotta a pochi resti. È soprattutto dalle cave presenti nel territorio di questi centri che proviene la malta di gesso che il cantiere tradizionale abruzzese ha usato per gli intonaci interni alle case e per la costruzione delle volte.

Coerentemente con la sua esigenza di rispondere soprattutto a istanze di funzionalità, l’edilizia abruzzese ha fatto quasi sempre a meno di apparati decorativi, quando presenti limitati alla maggiore accuratezza riservata alle mostre di porte e finestre e talvolta alla presenza di cornici in corrispondenza dell’attacco dei tetti, realizzati con mattoni disposti a dente di sega o di ruota oppure con più filari di coppi progressivamente sfalsati rispetto al filo delle facciate. Si tratta in quest’ultimo caso delle cosiddette cornici “a romanelle”, usate frequentemente anche sugli edifici religiosi e destinati, soprattutto nei centri di più aspra altitudine, ad aumentare lo sporto del tetto e nel contempo riscattare la rusticità delle pareti.

Loreto Aprutino (Ch). Vecchia casa in mattoni crudi (ph. Lucia Serafini)

Loreto Aprutino (Ch). Vecchia casa in mattoni crudi (ph. Lucia Serafini)

Quanto detto sulla costruzione delle murature d’ambito non cambia nella sostanza i principi e i metodi usati nella realizzazione delle strutture orizzontali. La presenza di vani voltati, spesso con apparecchiature di gran pregio, nella regione è tanto più frequente in chiese, palazzi, ville padronali, castelli e torri, quanto carente nell’edilizia di base, ancora una volta a causa della carenza di risorse e soprattutto di manodopera adatta allo scopo.

Come già accennato, sono di norma gli ambienti destinati a rustico ad essere voltati. Anche quando in pietra, è raro tuttavia che gli elementi abbiano una lavorazione non grossolana, spesso ricavata col solo uso di martelli, e non necessitino dunque di un apparato di zeppe e scaglie legate e interzate al resto con l’uso abbondante di malta. In alternativa sono state usate anche volte in concrezione, con inerti di piccole dimensioni e malta abbondante, versata su centine di legno di cui rimangono ancora tracce sulle superfici. Rispetto alla crociera è la tipologia a botte quella più ricorrente – sia nella variante a tutto sesto che in quella a sesto ribassato – soprattutto perché di più veloce realizzazione in vani di piccole dimensioni.

L’abbondanza della pietra nelle aree del Gran Sasso e della Maiella, non ha impedito che anche qui siano talvolta presenti volte in mattoni, certamente in virtù della loro versatilità e della possibilità di assemblarli con maggiore varietà: il tutto prescindendo dalle possibili trasformazioni che nel corso del tempo gli edifici hanno subìto e ai probabili rifacimenti delle strutture a seguito di cambi d’uso o raffinamento della loro statica.

Gessopalena (Ch). Resti dell’antico borgo (ph. Lucia Serafini)

Gessopalena (Ch). Resti dell’antico borgo (ph. Lucia Serafini)

Nelle aree dove è diffusa l’argilla sono di mattoni non solo le murature ma anche le volte, quando presenti. Aspetto rilevante sono soprattutto gli spessori, ottenuti disponendo i mattoni “di coltello” – ossia con i lati corti, le teste, rivolti all’estradosso e all’intradosso – oppure “in foglio” – ossia con le due facce grandi del mattone girate in questo caso a guardare rispettivamente l’intradosso e l’estradosso. In entrambi i casi è possibile che i filari siano doppi e sovrapposti gli uni sugli altri, avendo cura di alternare la linea dei giunti. Nei vari terranei, per ragioni evidentemente strutturali, sono le volte di coltello quelle più diffuse, mentre, nei pochi casi in cui i vani superiori delle case presentano volte, queste sono più sottili, dunque con fogli di mattoni, rigorosamente apparecchiati, indipendentemente dalla geometria, con malta di gesso, in virtù della capacità di questo di aumentare di volume durante l’indurimento, mettere in tensione la struttura e costituire in definitiva un sistema di consolidamento preventivo realizzato in corso d’opera.

Questa circostanza ha consentito inoltre di evitare o ridurre al minimo la presenza di centine, esaltata talvolta da apparecchi molto versatili, funzionali allo scarico delle forze nei punti ritenuti più resistenti. Ma è lo svelamento, spesso a seguito dei crolli legati all’abbandono, di alcuni particolari tessuti all’estradosso delle volte a rivelare accorgimenti di grande perizia tecnica. Tra questi ci sono i cosiddetti “pettini”, ossia arconi paralleli alle generatrici nelle volte a botte, tessuti lungo le diagonali nelle volte a crociera, e cosiddetti perché realizzati con fasce di mattoni da cui ne fuoriescono alcuni, in maniera regolare e alternata, ma proprio come i denti di un pettine, a fare da struttura portante, se non esclusiva, di compagini murarie dove la differenza tra ossami e ripieni di cui si diceva, è qui ben evidente e consapevole. Si tratta, in altre parole, di sistemi costruttivi che, quando presenti, hanno guidato e condizionato la fattura delle volte, facendo essi stessi da centina delle parti riempitive comprese tra i loro segmenti.

Ofena (Aq). Volta in blocchi di pietra calcarea. Rilievi di A. Marziale

Ofena (Aq). Volta in blocchi di pietra calcarea. Rilievi di A. Marziale

Sempre agli estradossi non è raro rinvenire i cosiddetti ‘frenelli’, noti alla trattatistica ufficiale almeno dalla fine del Settecento. Si tratta di muretti di pietra o di mattoni messi nei punti di scarico delle volte per frenarne la spinta sui muri. Anche se si tratta di opere realizzate soprattutto a seguito di interventi di consolidamento, non è raro che siano stati costruiti contestualmente alle volte come sistema di consolidamento preventivo.

Per i rinfianchi delle volte, i crolli hanno messo in evidenza l’uso di detriti e pietrame di piccole dimensioni, tenuti insieme a secco per questioni di leggerezza, e destinato a fare da base del massetto di alloggiamento della pavimentazione, all’interno delle abitazioni frequentemente realizzata con pianelle o tavolato. Rare nell’edilizia di base la presenza di false volte, invece frequenti nell’edilizia palaziata, e realizzate con travi di legno a più orditure, piegate a seguire la geometria voluta, in genere a padiglione.

Molto più delle volte, i piani superiori delle abitazioni storiche abruzzesi sono chiusi da orizzontamenti in legno nella varietà, tanto diffusa in Abruzzo, del castagno, la quercia, il leccio e il faggio. A differenza che nel cantiere monumentale, dove lavorazioni e provenienze delle strutture lignee fanno capo ad una storia completamente diversa, quella del cantiere dell’edilizia di base ha fatto in genere uso di legni grossolanamente lavorati, spesso soltanto a colpi di ascia, dunque rustici, combinati in soluzioni dipendenti dalla disponibilità della risorsa e dalla contingenza del vano da coprire, da parte di manodopera che solo poteva confidare sull’esperienza e il buon senso. Come per i materiali lapidei, anche per il legno si è inoltre fatto spesso ricorso a legni di recupero provenienti da edifici dismessi, riassemblati alla meglio con l’uso di zeppe di supporto.

Resti di volta in mattoni con pettini di irrobustimento (ph. Lucia Serafini)

Resti di volta in mattoni con pettini di irrobustimento (ph. Lucia Serafini)

Soprattutto in prossimità di riserve boschive, dove la materia prima era più abbondante, i solai sono a doppia orditura, con due travi principali tessute lungo il lato minore e travi secondarie, di sezione più piccola, tessute perpendicolarmente e destinate a fare da appoggio delle tavole superiori. Il tutto eventualmente rivestito di massetto e coperto dalla pavimentazione superiore. Rispetto a questo modello, infinite sono le variabili, con soluzioni che talvolta contemplano la presenza di regoli sulla linea delle travi per impedire la caduta dei detriti di calce dal massetto, il ricorso, nei casi più poveri, a travi ramificate utili a raggiungere le dimensioni richieste, la predisposizione sui muri d’ambito di travi supplementari destinate a portare quelle del solaio, anche nei casi frequenti di consolidamento di questo per soccorrerne parti imbarcate.

Talvolta sotto i solai rustici sono stati costruiti controsoffitti ad incannucciata, con un sistema resistente di travicelli o rami variamente connessi, nascosti all’intradosso da canne dimezzate con la concavità rivolta verso il basso per creare una superficie sufficientemente scabra per accogliere uno strato di malta, spesso a base di gesso, facente finitura.

Resti di copertura con controsoffitto ad incannucciata (ph. Lucia Serafini)

Resti di copertura con controsoffitto ad incannucciata (ph. Lucia Serafini)

È chiaro che laddove sono ancora presenti, sia i solai che le volte raccontano molto della vicenda costruttiva abruzzese, purtroppo scalzata a partire dall’Ottocento dall’uso massiccio per gli orizzontamenti delle voltine in ferro, realizzate in genere con travi a doppio T e pignatte di laterizio, anche loro oggi parte integrante di scenari di abbandono tanto più impattanti quanto più poveri i materiali e i contesti di degrado cui partecipano.

Una propaggine dei solai è il cosiddetto “gafio” diffuso nell’area del teramano: una sorta di balcone interamente in legno, destinato a dare luce e affaccio ai livelli superiori al primo, facendo uscire dalle murature di facciata uno o due travi su cui poggiare le tavole di calpestio con ringhiere talvolta collegate in maniera puntuale a una soprastante gronda, anch’essa in legno.

Di tutte le componenti della costruzione storica abruzzese sono state le coperture quelle più colpite dagli effetti dell’abbandono, per gli evidenti motivi legati al ruolo di principale interfaccia con gli agenti atmosferici. E ciò è vero anche quando hanno subìto operazioni di manutenzione e rinnovamento realizzati non sempre in maniera congrua, per materiali e tecniche. Vale per le coperture quanto detto per i solai, a proposito di lavorazioni ed essenze usate. La quasi totale assenza di capriate nei tetti dell’edilizia di base è compensata da strutture a due puntoni disposti a capanna – più o meno accentuata secondo l’asperità dei siti – poggiati sui muri di spina e raccordati in sommità da un incastro oppure da una trave di colmo ad essi perpendicolare incassata sui muri di prospetto. Anche in questi casi l’orditura è in genere doppia, con le tavole che per evidenti ragioni di protezione dalle intemperie lasciano spesso il posto a pianelle di laterizio, a loro volta destinate a portare i coppi oppure, nelle zone più montagnose, lastre di pietra calcarea.

Valle Siciliana (Te). Resti di gafio in legno (ph. Lucia Serafini)

Valle Siciliana (Te). Resti di gafio in legno (ph. Lucia Serafini)

Non è raro che alle pianelle, in alcuni casi più poveri, si siano sostituite le canne, legate con corde di canapa e irrigidite da canne trasversali. Come per l’uso delle canne nei controsoffitti anche le coperture storiche confermano in questo modo una tradizione diffusa su tutta l’area regionale, solcata dai tanti fiumi che dalle montagne scendono al mare e dall’abbondanza di una risorsa lungo tutto il loro versante. È a questa abbondanza che si lega anche l’uso di canne per tessere muri divisori tra i vani delle abitazioni, confidando nella loro leggerezza, nella facilità della realizzazione e di agile dismissione, in caso di eventuali trasformazioni legate ad esigenze d’uso.

Laddove ancora presenti sono i tetti delle case a fare lo skyline dei centri storici e costituirne uno dei principali tratti identificativi. Anche il loro andamento era tutt’altro che casuale, giacché legato alla necessità di smaltire le acque piovane, se non la neve, sulle strade ove affacciavano, sia che fossero quelle principali lungo cui le cortine edilizie si schieravano, sia che fossero le “rue” o “rughe” della tradizione, vie di sezione spesso molto ridotta, dove l’accesso alle case si combinava, soprattutto nei centri più compatti, con la necessità di smaltire su esse anche i rifiuti legati alla funzione abitativa.

Talvolta sui tetti delle case mancano i camini, altrimenti molto diffusi ma certamente prodotti di trasformazioni successive agli impianti originari. Bastava infatti un buco nel soffitto della cucina per disperdere il fumo, oppure una piccola apertura ricavata nell’infisso in legno delle porte d’ingresso per dare un minimo di sanità all’ambiente, anche in considerazione del fatto che l’apertura di una canna fumaria nei muri d’ambito avrebbe richiesto troppo dispendio di energie e avrebbe peraltro indebolito la struttura.

Il quadro che si è qui proposto sui modi e i mezzi del cantiere storico abruzzese non è certo esaustivo, sia perché si appoggia prevalentemente sui documenti diretti che sono gli edifici e i centri storici in rovina, sia perché manca il confronto, solo accennato, fra la tradizione costruttiva che ha guidato la realizzazione di case e centri abitati e quella che, pur all’interno di questi, ha governato il cantiere monumentale. Si può tuttavia affermare che si tratta soltanto di livelli diversi, all’interno di un orizzonte di qualità, in termini di perizia tecnica e sanità edilizia, che non solo ne ha garantito la sopravvivenza, nonostante l’abbandono e l’incuria, ma che trattiene a tutt’oggi conoscenze e informazioni pregne di potenzialità per il futuro. 

Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025  
[*] Il presente contributo consiste in una sintesi degli studi e delle ricerche svolte presso il Dipartimento di Architettura dell’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, di cui si danno di seguito i riferimenti principali. 
Riferimenti bibliografici 
A. Di Nucci, L’arte di costruire in Abruzzo. Tecniche murarie nel territorio della diocesi di Valva e Sulmona, Gangemi Editore, Roma 2009.
L. Serafini, Nicola Maria Pietrocola. Architetto e teorico nel Mezzogiorno preunitario, ill. in b/n e colori, Gangemi Editore, Roma 2015.  
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Lucia Serafini, è professore ordinario di Restauro Architettonico nei Dipartimenti di Architettura e Ingegneria dell’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara. Oltre che nei corsi Istituzionali ha svolto e svolge attività didattica in corsi post-laurea, sia in Italia che all’estero. Numerose sono le partecipazioni a progetti di ricerca nazionali ed internazionali. Si occupa di studi sul tema dell’incontro fra antico e nuovo nel restauro, sia a scala architettonica che urbanistica, di archeologia industriale, di aree interne e di centri minori e abbandonati. Ha anche svolto ricerche sullo stato del patrimonio dopo il terremoto dell’Aquila del 2009, partecipando, in seno al Dipartimento di Architettura di Pescara, ai progetti per la ricostruzione di alcuni centri del cratere.

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