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La solitudine del Papa. Benedetto XVI, con un gesto di grande umiltà e di fede, rinuncia al soglio pontificio

Posted By Comitato di Redazione On 2 aprile 2013 @ 11:20 In Attualità,Religioni | No Comments

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di Piero di Giorgi

Parafrasando Dante che, riferendosi a Celestino V nel terzo canto dell’Inferno, lo definisce “colui che, per viltade, fece il gran rifiuto” si potrebbe dire che Benedetto XVI è colui che per umiltade fece il gran rifiuto. In verità, al di là dello sferzante giudizio dantesco, Celestino V era stato un monaco ascetico molisano, noto come Pietro Angelerio, detto Pietro da Morrone, proprio perché, nel 1239, si era ritirato sul monte Morrone sopra Sulmona in solitudine e aveva fama di santità. E infatti santo fu proclamato dalla stessa Chiesa, anche se era stato fatto arrestare dal suo successore Bonifacio VIII e rinchiuso in carcere, dove morì. Fu poi lo stesso Bonifacio a iniziare il processo di canonizzazione.

L’elezione unanime da parte del Sacro Collegio di un semplice monaco eremita, completamente privo di esperienza di governo e totalmente estraneo alle vicende interne della Santa Sede, era stata determinata dal fatto che il conclave, riunito a Perugia, non riusciva a mettersi d’accordo sull’elezione del nuovo papa. Tant’è che Giacomo II d’Aragona, re di Napoli, che aveva occupato la Sicilia all’indomani dei Vespri siciliani del 31 marzo 1282, poiché si stava per giungere alla stipula di un trattato con Carlo d’Angiò e aveva necessità dell’avallo pontificio, stante la situazione di stallo dei lavori del Conclave, si recò, insieme al figlio Carlo Martello, a Perugia dove era riunito il Conclave, con lo scopo di sollecitare l’elezione del nuovo Pontefice, che avvenne il 5 luglio 1294.

È possibile che i cardinali fossero pervenuti a questa soluzione pensando, data la totale inesperienza del vecchio monaco eremita, di poterlo guidare, ciascuno per propri vantaggi personali.

Circa quattro mesi dopo la sua incoronazione, Celestino V, nel corso di un concistoro, diede lettura di una bolla nella quale si contemplava la possibilità di una rinuncia al soglio pontificio per “umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità …al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta”.

Il percorso di Joseph Ratzinger è abbastanza differente da Pietro da Morrone, ma le analogie della scelta di abdicare non possono sfuggire. Il primo ha un passato di raffinato teologo di elevata cultura e non estraneo alle vicende curiali; il secondo di un monaco semplice, votato all’ascetismo, totalmente fuori dalle vicende interne della gerarchia. Ma entrambi, caratterizzati da una fede costruita su una pietra di roccia. Come Celestino V abdicò nel pieno della lotta di potere tra gli Orsini e i Colonna, così Benedetto XVI ha abdicato in mezzo a una lotta tra fazioni all’interno della curia ma anche all’interno di un contesto caratterizzato da scandali (Calvi, IOR, Marcinkus, il caso Orlandi, pedofilia, fughe di notizie, il maggiordomo Paolo Gabriele, Vatileakes, Gotti-Tedeschi).

E che sia soprattutto questo il contesto che ha portato il pontefice a un gesto giunto così inatteso alla comunità cristiana mondiale non è, ormai, soltanto un’ipotesi ma una certezza. Le parole stesse del pontefice, “le divisioni nel corpo ecclesiale che deturpano il volto della Chiesa”, pronunciate nell’omelia delle Ceneri, quelle dette in occasione della comunicazione di abdicazione nel corso del concistoro e quelle successive nell’udienza generale nella sala Nervi, lasciano intravedere che, al di là della mancanza di energie, giocano sulla sua scelta sentimenti di angoscia e di impotenza di fronte alle inquietanti divisioni e lotte di potere, agli intrighi curiali, al carrierismo, agli intrecci tra politica, economia e affari, alle resistenze al cambiamento incontrate nella struttura di potere della gerarchia vaticana, alla corruzione morale. In particolare, dalla commissione d’indagine da lui nominata sul c. d. Vatileaks (corvo, carte trafugate dall’appartamento del papa ecc.) e dalle interviste di numerosi prelati emerge un quadro che viene riassunto così: “Tutto ruota intorno alla non osservanza del sesto e del settimo comandamento”, ossia non fornicare e non rubare fino a incontri sessuali avvenuti in Vaticano, come quelli raccontati da un monsignore in un’intervista su La 7.

Certo i mali attuali della Chiesa non sono nuovi ma affondano le radici in epoche assai lontane che possono farsi risalire a quel punto di svolta dell’accordo costantiniano, quello che padre Ernesto Balducci ha chiamato il primo concordato della Chiesa, cioè quello derivante dall’editto di Costantino del 313 e che costituì la premessa all’editto di Teodosio del 380, con cui il Cristianesimo divenne religione di stato. Ciò segnò il passaggio da una Chiesa fedele al Vangelo, che tende a realizzare la sua missione di essere sale, seme e lievito del mondo, che svolge un’opera di denuncia per cambiare le strutture ingiuste del mondo, a una Chiesa alleata del potere, fastosa, trionfalistica, che tende alla sua autoaffermazione, che condivide il potere con i potenti della terra, rinunciando a esplicare la sua funzione evangelizzatrice, a perseguire l’affermazione della storia della salvezza per tutti e ad annunciare la liberazione dell’uomo. Con l’inaugurazione dell’era costantiniana e ancor più con quella teodosiana, la Chiesa, da germe di sovversione, divenne fattore d’ordine e d’integrazione.

Un tentativo di trasformazione della Chiesa e di ritorno alla fonte evangelica era stato tentato da un grande papa, Giovanni XXIII, eletto per un pontificato di transizione e che, invece, lasciò il segno indicendo 50 anni fa il Concilio Vaticano II, apertosi l’11 ottobre 1962 e chiusosi l’8 dicembre 1965.

Dal Concilio emergeva una concezione della Chiesa liberata da strutture burocratiche e autoritarie dando spazio alle chiese locali; una Chiesa spogliata dai segni del potere e della ricchezza per essere una Chiesa povera a fianco dei poveri; una Chiesa non identificata nella gerarchia, che pontifica su un popolo passivo e sotto tutela, ma una Chiesa-comunità che dà un importante ruolo al laicato, cioè il passaggio da un’ecclesiologia basata sulla gerarchia per dare risalto a una Chiesa-comunità, popolo di Dio. Nel documento Lumen gentium, il capitolo sul popolo di Dio precedeva quello sulla gerarchia. L’altro documento, la costituzione pastorale Gaudium et spes, s’incentrava, invece, sui rapporti della Chiesa con il mondo esterno e sul suo ruolo nel mondo contemporaneo. Esso delineava un nuovo rapporto tra fede e mondo, tra fede e politica, escludendo ingerenze ecclesiastiche e concordati, ritenuti dannosi per la Chiesa. Il pontificato giovanneo, il Concilio e la Pacem in terris, promettevano una vera rivoluzione copernicana, prefiguravano un’autentica promozione umana di tutti gli emarginati, spingevano all’impegno sociale senza ingerenze e compromissioni della Chiesa, per un agire laico e plurale, riaffermavano infine una piena libertà di coscienza.

Come ha scritto il gesuita padre Sorge, “purtroppo, nella Chiesa italiana, una mentalità clericale, dura a morire, non ha favorito la piena assimilazione degli insegnamenti del Concilio sul laicato e sulla laicità”. Nella Chiesa post-giovannea si è assistito a una vera e propria restaurazione. È aumentato il controllo sui seminari sulle facoltà teologiche, sulle accademie e università cattoliche, sulle riviste e sui giornali cattolici, sono aumentate le interferenze sulla vita politica. Il teologo Diaz Alegria, parafrasando Luigi XIV, ha detto che papa Wojtyla, con la sua apparizione totalizzante, è come se dicesse “l’Eglise c’est moi”.

In sostanza la gerarchia della Chiesa ha di fatto messo in cantina il processo di rinnovamento avviato dal Concilio Vaticano II, continuando a essere schierata a fianco dei potenti e crogiolandosi nei suoi privilegi. Se il mondo è, oggi, un mondo senz’anima, dove domina un dio, anch’esso invisibile e anch’esso presente in ogni luogo, che ha il nome di “mercato”, se le disuguaglianze hanno raggiunto limiti inammissibili, se allo spreco e alla protervia dei ricchissimi corrisponde la privazione di un tetto, del vitto e di ogni bene primario da parte di miliardi di persone, che fanno gridare d’indignazione, c’è da chiedersi come sarebbe potuto essere il mondo se la Chiesa-gerarchia avesse esplicato la sua funzione evangelizzatrice, se si fosse liberata dai trionfalismi, dai segni e dai simboli fastosi di potenza, schierata dalla parte dei poveri e degli ultimi. Forse vivremmo in un mondo meno orribile, meno ingiusto e sicuramente più umano.

la Chiesa

Lo stesso Ratzinger, nell’aprile 2005, prima di essere eletto Papa, parlò di una Chiesa sballottata come una barca. E, l’11 febbraio, nel momento delle dimissioni, ha ribadito lo stesso concetto, aggiungendo che non possedeva più le energie necessarie per combattere.

Ratzinger era entrato da innovatore durante il Concilio Vaticano II e poi, da prefetto della congregazione per la difesa della fede, è diventato, gradualmente, uno strenuo difensore delle tradizioni, manifestandosi concretamente un conservatore ma rimanendo, tuttavia, un uomo di grande fede e un fervente credente, armato di una profonda spiritualità. Refrattario alle lusinghe del potere, non aveva tramato per essere eletto pontefice ed aveva in qualche modo resistito alla sua elezione, accettata poi per ubbidienza e come segnale di una divina volontà.

La decisione del Papa, dunque, mostra tutta la sua solitudine, è un gesto di umiltà e d’impotenza. Ma il suo gesto, oltre a essere un messaggio di fragilità umana, è anche, a mio modesto avviso, un monito al blocco di potere della Chiesa gerarchica e una denuncia delle grandi difficoltà all’interno della Chiesa. Sembra che egli abbia voluto ricordare, con le sue dimissioni, il paradosso di Paolo di Tarso: “Io preferisco gloriarmi delle mie debolezze affinché abiti in me la potenza di Cristo”.

Forse è una casualità che il papa abbia scelto la data dell’11 febbraio per annunciare le sue dimissioni ma è certamente una casualità significativa, perché l’11 febbraio è la ricorrenza dei patti lateranensi del 1929, firmati tra il cardinale Gasparri per la Chiesa e il cav. Benito Mussolini per lo Stato, che riaffermarono, allargandolo, un patto di favori e privilegi a favore della Chiesa in cambio di benevolenza verso il regime.

Mi permetto di leggere in questa coincidenza un messaggio di laicità per la Chiesa da parte di Benedetto XVI e cioè di una separazione netta tra la Chiesa e il suo ruolo spirituale e lo Stato nel suo ruolo di garante dei diritti di ciascuno, credente o non-credente. La stessa abdicazione, che segna il passaggio da un potere assoluto a un potere a tempo determinato, opera una desacralizzazione del ruolo a favore di una scelta umana e laica. Non è casuale che egli abbia espresso rammarico per non avere rinnovato la curia e che abbia affermato che “la vera tentazione è strumentalizzare Dio, usarlo per i propri interessi, la propria gloria e il successo” . Ciò suona come un monito non soltanto contro l’uso di Dio per la propria ascesa sociale o per il proprio arricchimento, come spesso fanno anche i politici, ma anche contro quella concezione antropomorfica della religione, che chiama in causa Dio per la soluzione di ogni problema personale.

Risulta del tutto evidente che, col suo gesto, il Papa ha voluto mettere un suggello sulla crisi epocale della Chiesa, sulla discrasia tra il messaggio liberatore del Cristo e i comportamenti pratici della gerarchia della Chiesa.

Forse è lecito pensare che il messaggio che Benedetto XVI ha voluto lasciare con la sua abdicazione sia proprio quello di una volontà riformatrice della Chiesa: collegialità e democrazia, una Chiesa fedele all’evangelo e schierata a accanto ai poveri e ai più deboli del mondo, una Chiesa dialogante e più laica, che dia uguale dignità alle donne, compresa l’ordinazione femminile per il sacerdozio, una Chiesa meno sessuofobica, che consideri la sessualità come un dono e che ripensi la scelta del celibato.

Se questo è il messaggio di Joseph Ratzinger, sembra che esso possa trovare risposta con l’elezione del cardinale Mario Bergoglio a Papa. Per la prima volta un Papa extraeuropeo, del Sud estremo del mondo siede sul trono petrino. Argentino, gesuita, ha preso il nome di Francesco. La scelta del nome e la sua biografia ci parlano di un uomo semplice, umile, che ha scelto i poveri delle baraccopoli.

Le sue prime parole pronunciate dopo l’elezione mettono in primo piano la collegialità, la Chiesa come popolo di Dio e le chiese locali. Forse il Concilio Vaticano II si potrà rimettere in moto e con esso il rinnovamento profondo della Chiesa.

Dialoghi Mediterranei, n.1, aprile 2013
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