di Giovanni Isgrò
Dopo la grande stagione del dramma liturgico, l’esclusione della sfera religiosa dagli orientamenti dell’impero svevo all’indomani della scomunica inflitta da Innocenzo III a Federico II, come pure la successiva stagione angioina, troppo breve per lasciare segni significativi nonostante la vicinanza della Chiesa, non consentirono una regolare affermazione dello spettacolo devozionale promosso coevamente nel resto della Penisola italiana con la nascita degli ordini mendicanti.
A loro volta i re aragonesi, in particolare nei primi decenni dopo il loro insediamento fino al regno dei due Martini, diffidarono dal concedere spazio al fenomeno confraternale, espressione culturale autonoma, importata dalle colonie straniere presenti nell’Isola. Problema, questo, che si aggiunse a quello ben più grave del potere feudale esercitato dai grandi baroni nelle tre “valli” nelle quali si erano distribuito il loro effettivo dominio in Sicilia.
Per controllare le spinte baronali autonomistiche, la monarchia aragonese avviò ben presto una strategia “nazionalista”. Nacque così la forma della “festa nazionale” con intenti chiaramente didascalici, tendente, soprattutto nelle città, a coinvolgere direttamente i rappresentanti delle diverse classi sociali nella realizzazione di cerimoniali che rendessero visibile l’idea della nazione unita e coesa nell’affermazione della propria identità. In questo senso l’ufficiale avvicinamento fra Stato e Chiesa, in occasione del matrimonio di Federico III, contribuì a regolarizzare il fenomeno del teatro celebrativo urbano e consentì la presenza del sacro nella vita sociale dell’Isola.
Fu così che lo spettacolo religioso si sviluppò su due piani complementari. Da un lato la festa di devozione cittadina diventò espressione dell’ideologia politica del monarca: nel 1385, in occasione della festa dell’Assunta a Palermo, le maestranze ebbero l’“onore” di partecipare al corteo paratattico della processione, portando enormi cilii. Su un altro piano, prese consistenza il fenomeno dello spettacolo devozionale che, avviato attraverso le pratiche confraternali introdotte dalle “nazioni” straniere, provocò processi di emulazione soprattutto nei quartieri popolari della città, arrivando a forme di accesa esaltazione collettiva dei valori della fede nei momenti di maggiore pericolo per la comunità.
In occasione della peste del 1347-50 che decimò completamente Trapani e che fece nell’isola circa mezzo milione di vittime, moltissimi si diedero alle penitenze, ripetendo le scene dei flagellanti e dei battuti che numerosi peregrinavano in vari centri dell’isola cantando e recitando litanie e miserere. Così tutte le disgrazie cittadine come terremoti, epidemie, carestie diedero luogo a pubbliche penitenze generali. Nonostante la diffusione di questo fenomeno, non ci è pervenuto però finora alcun laudario. Ciò ha fatto sollevare seri dubbi se effettivamente, sia pure in epoca tarda rispetto all’Umbria e ad altre aree italiane, sia stato in uso da parte dei flagellanti cantare laudi liriche e se si arrivò alla lauda drammatica. Il fatto che non ci siano pervenuti non solo laudari ma neppure frammenti di laudi, tuttavia, non esclude necessariamente l’effettiva diffusione di questo genere anche a livello popolare, per quanto inizialmente esso sia stato frutto di importazione. È più credibile, invece, che i monologhi e i dialoghi drammatici di contenuto religioso, in quanto espressione di devozione popolare, non interessarono l’autorità né la cultura dominante; e che per questo motivo non ci sono pervenuti nella loro forma originale. Ci sono invece giunte, come vedremo fra poco, alcune testimonianze di matrice dotta, e al tempo stesso di timbro popolaresco. La cultura dominante cioè, al di là delle nenie e delle espressioni di dolore per la calamità incombente, formulate dai devoti processionanti, si preoccupò di diffondere, tramite le confraternite, testi e salmi in lingua volgare, in modo che potessero essere appresi anche dal popolo minuto.
Per quanto non articolate in forma di lauda drammatica, tuttavia utili a comprendere la connotazione scenica dell’animazione devozionale che caratterizza la Sicilia a partire dalla metà del Trecento, vanno citate due liriche scritte nel 1347 in occasione della peste che sconvolse Messina. Sono due sonetti letti entrambi da Pipitone Federico nel retro di una pergamena del tabulario del monastero di Santa Maria della Valle di Giosafat: uno è rivolto a San Sebastiano, l’altro alla Madonna. La lingua è un volgare infarcito da latinismi [1].
La forma della supplica lascia intendere la partecipazione collettiva di una comunità che agisce in una atmosfera penitenziale di intensa concentrazione e di forte suggestione spettacolare. Il tucte accurremo a te vera salvatrice della supplica alla Vergine Madre, così come il tocti accorremo con devocione e il prego chino en genochione della supplica a San Sebastiano, lasciano intendere un movimento di massa nello spazio scenico urbano, nel caso della lauda alla Vergine, effettuato soltanto da donne, verisimilmente convergente verso l’interno della chiesa.
Al vitalismo scenico diffuso nelle strade e nelle piazze dei quartieri, gli stessi abitanti, del resto, per una sorta di contrappeso determinato da una gestione per così dire “interna” della misura e dell’equilibrio esistenziale motivato dalla “devozione”, dovettero far corrispondere, in determinati periodi dell’anno, il dovere della contrizione e del pentimento. Anche in questo caso l’impianto urbano non mancò di svolgere il suo ruolo scenico. Le sedi delle congregazioni divennero, in questo modo, luoghi deputati della disciplina rituale, spazi scenici di cerimoniali dal rigore talvolta “eccessivo”, al punto da risultare teatralmente molto efficaci e coinvolgenti nelle proiezioni esterne, per le strade animate da flagellanti e battuti. In molti casi, inizialmente, si trattò di fenomeni importati dalle colonie continentali, in particolare da quella genovese. Dagli statuti veicolati da quest’ultima, nacquero infatti quelli delle nostre più antiche confraternite trecentesche. La prima testimonianza è quella della confraternita di S. Nicolò, i cui capitoli furono redatti in volgare siciliano nel 1343 sull’esempio di quelli della compagnia di S. Domenico di Genova [2].
In essi vengono date istruzioni precise anche sul modo di prendere parte alle processioni penitenziali con l’obbligo di indossare un vestimentu di cannavazzu vili e una disciplina. Questo accorgimento di indossare un umile indumento, in verità, fu un’altra conseguenza della vigilanza “morale” delle norme aragonesi che proibivano di partecipare alle processioni flagellandosi a torso nudo [3]. Ciò è confermato da un necrologio del 1396 di un’altra confraternita di battuti, quella dei SS. Simone e Guida, che riporta l’immagine di quattro disciplinanti con indosso una tonaca “regolamentare”, forata alle spalle [4]. Siamo di fronte, pertanto, come sempre, a un doppio registro: quello della fruizione autonoma della festa con le sue espressioni più forti, siano esse sotto forma di esibizione delle proprie energie fisiche e delle proprie abilità, ma anche della esternazione sia individuale che collettiva del “bisogno” da affidare alla pietà divina, e quello della gestione da parte del potere religioso o civile che sia, pronto ad attenuare o a bloccare il pericolo del sovvertimento dell’ordine costituito. In un caso o nell’altro, rimane il significato del rapporto complementare e di mutua corrispondenza fra spazio urbano e spettacolo.
Dalla fine del Trecento la consuetudine del sacro rappresentare, attuata anche nei centri minori grazie alla diffusione del monachesimo e al sorgere di numerose realtà conventuali, dovette alimentare un substrato culturale popolare ampiamente diffuso anche nei paesaggi rurali dell’interno della Sicilia. Questo spiegherebbe come l’acquisizione di pratiche di rappresentazione sacra di età quattrocentesca trovasse terreno favorevole negli spazi scenici naturali e urbani della nostra Isola. La consuetudine di attraversare processionalmente spazi aperti di campagna e vallate verso eremi o sedi conventuali isolate, o ancora, di raggiungere santuari collocati al culmine di declivi, fu infatti testimonianza di un addestramento continuo all’invenzione di percorsi sempre più articolati e diversificati, che la configurazione paesaggistica contribuiva a definire e a caricare di senso.
Abati e feudatari vicini alla Chiesa giocarono un ruolo determinante in questo meccanismo di décentralisation e di messa in moto di teatralità en plein air in aree extraurbane, fino a quando la reggenza vicereale non trovò in Sicilia una sua stabilità, dopo l’unione della corona di Aragona e di Castiglia, ristabilendo il concetto della centralità del potere e una concezione statica dei rapporti di classe.
Andando in senso opposto alla passività del teatro tradizionale, inteso come creatività di pochi e delega di tutti gli altri, prende avvio, in questo modo, una sorta di epopea sociale, in questo caso di ispirazione devozionale, una sorta di teatro dinamico, di azione, per quanto rituale, che fa travalicare lo spettacolo nella strada e, contingentemente, nei sentieri dei campi e delle colline, o, nelle zone costiere, verso il mare: una sorta di consuetudine al teatro di relazione più che di rappresentazione, a contatto diretto con la natura.
Da qui l’assunzione di valore e l’attualizzazione della scena della sofferenza (di Cristo) e della successiva resurrezione come positiva rinascita della natura. È così che la Chiesa lega lo status del bisogno e dell’incertezza dell’uomo e di comunità intere del mondo rurale alla scena del sacro, estendendo il fenomeno anche alle vicende edificanti delle vite di santi e martiri.
L’assenza della separazione fra teatro e vita quotidiana determina una sorta di radicalizzazione dell’idea scenica, per la quale la folla dei processionanti, ma anche i figuranti, i dilettanti, i personaggi dei riti, insieme ai devoti che vi partecipano, sentono essi stessi il concetto antropologico della concentrazione che garantisce unità e sintonia all’interno della comunità. E poiché il territorio, inteso come luogo del lavoro rurale o/e artigianale, o commerciale, è lo spazio di quella medesima comunità che quotidianamente lo abita, necessariamente la forma del rappresentare non può essere che totale, essendo oltretutto il rito a garantire lo stato di salute della comunità stessa.
Più vicino al genere della lauda drammatica e ben più interessante sul piano teatrologico è però un altro documento del XIV secolo. Si tratta del testo del Pianto di Maria scoperto da Sorrento in un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Madrid [5]. La lauda è formata da quartine di doppi senari monorimi; un tipo di strofa propria della poesia giullaresca che i giullari adottarono specialmente nelle loro narrazioni religiose. A parte la presenza di immagini caratterizzate da crudo realismo (il volto di Cristo di pugni e colpi ammaccatu / di sangui e sputi tuctu bructatu), l’opera sembra essere stata scritta per essere rappresentata. Originale da questo punto di vista è il coinvolgimento, da parte di Maria, di sorelle e amici, come ad invitare i devoti presenti alla rappresentazione a prender parte alla performance: Soru e amichi or n’accumpagnati. Al tempo stesso le battute dell’Addolorata sono intercalate da un coro recitante che le ripetono in parte. Nel finale, originale appare l’intervento di un altro personaggio, ossia San Giovanni, introdotto da una vera e propria didascalia di scena: Joanni parla, rispundi e dichi.
Su un altro piano c’è il riscontro dell’arte figurativa. Per quanto nel corso del Quattrocento si faccia sempre più evidente lo scarto che divide la Sicilia rispetto alle città italiane protagoniste della grande stagione umanistico-rinascimentale, il percorso artistico compiuto da Antonello da Messina consente di individuare, a livelli diversi, testimonianze della realtà scenico-devozionale che ci interessano. Da un lato c’è il periodo giovanile ma anche la richiesta autoctona riscontrabile in età matura, di uno standard legato, prevalentemente, alla pratica devozionale delle confraternite che vorrebbe inchiodare l’artista alla pratica routinière della bottega artigiana: una sorta di costrizione alla diminutio, si potrebbe dire. Ne fa fede la vasta richiesta di gonfaloni processionali, proveniente, oltre che da Messina, anche da centri minori come Caltagirone, Randazzo, Noto, solo per citare quelli accertati; prova indiretta della galoppante diffusione dell’uso scenico-devozionale del paesaggio, sia esso urbano che extraurbano, nel corso del XV secolo, chiamato a fare da contesto, ma anche a dare “vita” a teatralizzazioni sia statiche che itineranti. La stessa bottega di Antonello, del resto, sorgeva sulla vecchia via dei Monasteri (oggi via XXIV Maggio), uno dei luoghi deputati più significativi di cortei e processioni, alla cui straziante espressività il maestro dovette ispirarsi in alcune famose figurazioni di “Crocifissioni”, “Ecce Homo” e “Pietà” [6].
Su un altro piano ci sono le sublimazioni artistiche dell’esperienza topica di una tradizione ormai consolidata della Settimana Santa spesso supportate, nelle sue famose rappresentazioni della Crocifissione, dall’immagine di cittadini del suo tempo raffigurati nel percorso di rientro in città dopo avere assistito alla drammatizzazione dell’evento del Calvario su un’altura dominante il paesaggio della città bagnata dal mare (in particolare nella Crocifissione di Anversa e della National Gallery di Londra). La stessa serena godibilità del paesaggio, con la sua bella luce mediterranea, con la raffigurazione delle non meno belle architetture (in particolare, il convento e la chiesa di San Francesco e il duomo), oltre a mettere in risalto, per contrasto, il pathos dei personaggi della “Passione”, va vista come sostanziale idealizzazione di una città e di un territorio dall’alto valore rappresentativo. Questo spirito scenico-elogiativo di Antonello individuabile anche nel gesto di portare con sé disegni del paesaggio messinese durante le frequenti dimore lontano dall’Isola, trova conferme in numerose varianti: dallo “Studio per gruppo di figure in una piazza” (configurabile come situazione di attesa, prima dell’avvio di un’azione processionale, o comunque di un evento di spettacolarità di massa) alla stessa tela del S. Sebastiano, con la sua festosa mise en scène urbana.
Ancora nell’ambito di un costante consolidamento della tradizione drammaturgica sacra, si inquadra la prima testimonianza documentaria scritta pervenutaci, datata 10 marzo 1440, riguardante una rapresentationi, avvenuta a Catania comu si soli fari, nella chiesa di S. Maria La Grande, alla quale assistevano quasi tucti li donni, gentilomini et populu [7]. Il riferimento di questo documento al carattere ordinario e abituale della forma dell’actu divotu lascia pensare per estensione alla ormai diffusa consuetudine delle sacre rappresentazioni in Sicilia, delle quali però mancano generalmente testimonianze dirette. La notizia dell’azione devozionale di massa, in questo caso, ad esempio, è legata ad una informativa inviata dai Giurati di Catania al viceré, relativa ad un incidente occorso durante quella rappresentazione, nel corso della quale il visconte di Gagliano, con indosso una veste femminile, si mescolò tra le devote suscitando grande scandalo. Al di là della denuncia formale al viceré, rimane il fatto che non conosciamo le caratteristiche di quell’actu divotu. Molto probabilmente si trattò di un’azione figurata piuttosto che di una rappresentazione parlata; una sorta di Passio Christi, in prossimità della Pasqua, affidata ad una interpretazione muta.
Fra le poche altre consuetudini diffuse nel sec. XV in altri centri, anche minori, della Sicilia di cui abbiamo notizia, vi è un Actu divotu di la cena et passioni di Nostru Signuri Jhesu Christu, avvenuto nel 1481 davanti alla Chiesa Madre di Sciacca, presente il popolo, i giurati e i pubblici ufficiali della Città [8].
Anche se i documenti non ci consentono di conoscere il carattere di queste rappresentazioni è verisimile che le forme drammatiche di questa epoca siano state ancora molto semplici nella struttura, interpretate da frati, sia pure con la partecipazione di comparse di estrazione popolare, e in ogni caso assorbite dalla tradizione devozionale della massa subalterna, per quanto l’autorità civile, impegnata, come abbiamo visto, a mettere ordine anche nei cerimoniali delle feste religiose, si preoccupasse di dare ad esse un carattere regolare e continuo. Lo attesta, ad esempio, l’accesa concorrenza fra maestri artigiani per ottenere, in base alla perizia dimostrata, il permesso da parte dell’autorità di realizzare apparati, statue, artifizi in legno e carta colorata e tutto ciò che fosse necessario per la rappresentazione degli acti divoti [9].
Interessante in proposito è un documento datato 22 gennaio 1505, relativo alla licenza dei Giurati di Catania per una rappresentazione della “Passione” in quello stesso anno. In esso fra Girolamo Asmundo, vicario di Catania, concede al maestro artigiano Giovanni Pagano licentia di putiri fari la passioni in qualsivoglia loco et ecclesia libere et chi nixuno lu impedisca [10].
La tutela da eventuali ostacoli provenienti da altri artigiani aspiranti al ruolo di tecnici realizzatori di impianti per la sacra rappresentazione è evidente in un dispaccio vicereale che avverte la stessa autorità ecclesiastica, qualora avesse voluto appoggiare artigiani concorrenti, ad astenersi dal farlo. La proibizione riguarda in particolare il reverendo cantore maggiore il quale viene diffidato dall’intromettersi e dall’impedire la rappresentazione medesima.
La continuità e la regolarità con cui a un certo punto ebbero luogo questi spettacoli, soprattutto in occasione della Settimana Santa, dovette favorire la creazione di modelli e di strutture abituali dalle quali tuttavia dovettero verisimilmente distaccarsi certi spettacoli che, in quanto coincidenti con importanti ricorrenze collegate alla celebrazione del potere civile, assunsero un significato straordinario.
È quanto avvenne a Siracusa nella seconda metà del Quattrocento per la rappresentazione della Resurrectio Christi di Marco De Grandi, la più importante del secolo in Sicilia. L’opera, per l’imponenza della manifestazione, fu inscenata verosimilmente nel quadro di un importante cerimoniale, probabilmente legato all’arrivo del viceré. Lo spettacolo, una grandiosa messinscena con uno straordinario numero di personaggi, da un lato confermò la vasta partecipazione di massa, a testimonianza della specifica cultura rituale a diffusione popolare ormai acquisita nel corso del secolo, dall’altro testimoniò il collegamento sia del testo che delle numerose ed elaborate didascalie, con impianti drammaturgici ormai maturi (ossia maturati altrove) e scenotecnici riferibili alla tradizione tardo-medievale di provenienza sovranazionale.
L’autore, per quanto facesse uso del dialetto e si accostasse ad una tecnica narrativa di ispirazione popolare, rivelava una formazione sostanzialmente umanistica. Sul piano della spettacolarità, l’evento mostrò una successione di invenzioni sceniche che, unite alla presenza di masse figuranti, dovettero suscitare forte meraviglia negli spettatori, senza tuttavia che si venissero a determinare momenti di relazione spontanea fra scena e “platea”.
Come si evince dalle numerose e puntuali didascalie, le discese dei personaggi agli inferi e ritorno lasciano supporre l’uso di un sistema di argani e funi: una vera e propria verticalizzazione della scena che in questo caso appare testimoniata per la prima volta nella storia della drammatica sacra in Sicilia.
L’ingresso improvviso di un numero considerevole di personaggi biblici (padri santi, patriarchi, profeti, oltre ad Adamo ed Eva), lascia intendere l’esistenza di una passerella collocata lungo lo spazio di platea, tale da consentire il percorso fra il pubblico da parte dei performer prima che essi prendessero posto sulla scena. Né dovettero mancare i dispositivi utili per le apparizioni/sparizioni dell’angelo e di Cristo, quest’ultimo sottoposto a cambi di costume (in forma di risorto, poi di ortolano, poi di pellegrino). Il criterio realistico della rappresentazione comportò l’uso di elementi di attrezzeria e di luoghi deputati diversi (la tavola di Emmaus per la cena, il cibo, la rete, la casa della vecchierella di Emmaus, il sepolcro, ecc.).
Sul piano della recitazione, al di là dei semplici dica, le didascalie danno indicazioni sul gesto e sull’uso della voce: dica Aron cum magna voce; dica Cleophas et vaya adaxiu; dica adaxiu Cleophas; ecc.; il che lascia pensare alla presenza di figure addestrate o quantomeno acculturate all’arte della recitazione, verisimilmente provenienti da ambiti conventuali.
La Resurrectio Christi di Marco de Grandi, come gli altri eventi rituali quattrocenteschi di ispirazione sacra a partecipazione collettiva, ci porta anche al problema specifico della funzione e dell’uso degli spazi urbani, in rapporto all’idea centralizzante della festa “nazionale”, o comunque della gestione univoca, da parte della monarchia dominante, dell’orchestrazione a spazio totale dell’evento festivo urbano. Lo stesso Polidoro da Caravaggio, nel suo Spasmo di Maria Vergine, illustra lo scenario primo-cinquecentesco del corteo della comunità messinese con cavalieri vessilliferi e figuranti/devoti impegnati nella rappresentazione della “Passione”, in un percorso devozionale extraurbano che lascia individuare sullo sfondo, sia pure in modo approssimativo, la città di Messina tra la falce del porto, in basso, e le strutture conventuali emergenti sulle colline [11].
Siamo arrivati così alla soglia della svolta storica determinata dal viceregno di Ferrante Gonzaga a seguito del passaggio dell’imperatore Carlo V in Sicilia nel 1535. La rappresentazione dell’Atto della Pinta di Teofilo Folengo voluta dal nuovo viceré in parte ispirata alla cultura rinascimentale e a quella spagnola, costituisce l’inizio di una sterzata forte che, insieme al successivo avvento dei padri gesuiti, determinò il nuovo corso del sacro rappresentare.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Cf. G. Pipitone Federico, Laudi, in «Archivio Storico Siciliano», n.s., xi (1887): 487-507.
[2] Sulla compagnia di S. Nicolò, cf. A. Mongitore, Dell’Istoria sacra delle chiese di Palermo, ms. Qq E9 della Biblioteca Comunale di Palermo, f. 25; e P. Cannizzaro, Religionis Christianae Panormi libri sex, ms. Qq E 37, f.888 della Biblioteca Comunale di Palermo. Gli statuti di questa confraternita si leggono in un codice proveniente dalla Biblioteca del Collegio dei Gesuiti, ora conservato presso la Biblioteca Regionale Centrale di Palermo (i, f. 3). Nel codice stesso (f. 2) si legge che essi furono compilati nel 1343, sulla base dei capitoli di una confraternita di Firenze e di quelli della compagnia di S. Domenico di Genova, probabilmente importati dalle colonie di queste città esistenti nell’isola. La chiesa che serviva da oratorio per i confrati fu fondata da Federico ii d’Aragona. Da alcuni brani del capitolo si rileva che tutte le classi potevano appartenere alla compagnia e nel capitolo 7 è espresso il divieto ai membri della confraternita di accogliersi in altre. Ciò ci dice che al 1343 altre compagnie di disciplinati erano sorte in Palermo (dal Mongitore, ms. cit., sappiamo che nel 1306 era stata fondata quella di S. Michele Arcangelo e nel 1342 quella di S. Pietro Martire). Il testo accenna inoltre ad alcuni emblemi speciali che la compagnia doveva avere, come una insigna di Christu bella e dorata […] et unu sigillu grandi cun Christu battutu e fa riferimento anche alle processioni da farsi per le strade. Attorno alla metà del secolo xiv, oltre che a Palermo, altre compagnie sorsero verosimilmente in diversi centri dell’isola, di cui si è persa traccia. Notizie certe si hanno invece per quella di S. Michele Arcangelo a Sciacca e di S. Luca in Burgio. La prima, sorta nel 1346 e presto estinta, fu ripristinata alla fine del sec. xiv (cf. I. Scaturro, Storia della città di Sciacca, Raggio, Napoli 1950, v. i: 531 s.); la seconda fu fondata nel 1363. Da Amleto Bologna che ebbe la possibilità di leggerlo, sappiamo che nel foglio 40 della pergamena in cui erano scritti i capitoli della fondazione, era specificato, in lingua siciliana, che le regole di questa compagnia erano compilate su quelle della compagnia di S. Domenico di Genova, proprio come quella di S. Nicolò di Palermo; particolare, questo, che testimonia l’influsso delle colonie continentali anche nella vita religiosa dei centri minori dell’Isola.
[3] Cf. in proposito, G. Bresc-Bautier, Artistes, patriciens et confrères. Production et consommation de l’oeuvre d’art à Palerme et en Sicile Occidental, Ecole Française de Rome, Roma 1979: 210.
[4] Palermo, Galleria Regionale della Sicilia, inv. 10.
[5] Cf. L. Sorrento, Un pianto di Maria, in «Rendiconti del R. Istituto Lombardo», Milano 1920: 733.
[6] Sulle processioni strazianti e sui percorsi dei condannati a morte ricorrenti sulla strada dei Monasteri, davanti alla bottega di Antonello, cf. M.T. Pugliatti, La pittura del Cinquecento in Sicilia. Sicilia Orientale, Electa Napoli, Napoli 1998.
[7] Il documento, una relazione dei Giurati di Catania al viceré, è stato reso noto da M. Catalano Tirrito, Sacra Rappresentazione in Sicilia, tip. Amore, Termini Imerese 1907: 11; cf. anche, in proposito, il mio Festa teatro e rito, Cavallotto, Caltanissetta, 1981: 96 n. e C. Meldolesi, Spettacolo feudale in Sicilia, Flaccovio, Palermo, 1973: 96-97.
[8] Archivio di Stato di Palermo, Protonotaro del Regno, a. 1481, ff. 189 r. e 190 r. e v.
[9] Il documento da noi riportato, sotto data 22 gennaio 1505, è stato pubblicato da M. Catalano Tirrito, Sacra Rappresentazione in Sicilia, cit.: 14-16.
[10] Il documento, per intero, è stato pubblicato da M. Catalano Tirrito ib.. 14-16.
[11] Cf. N.G. D’Alibrando, Il Spasmo di Maria Vergine, Paparo, Napoli 1999
__________________________________________________________________________________
Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone e Il Teatro dei gesuiti sono i titoli delle sue ultime pubblicazioni.
______________________________________________________________
