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La rivincita del dialetto. Non al posto ma accanto all’italiano

copertina di Roberto Sottile

Diverse inchieste multiscopo condotte a partire dalla metà degli anni ’70 dagli Istituti Doxa e Istat permettono di trarre importanti informazioni sulla recente evoluzione degli usi linguistici degli italiani. I rilevamenti mostrano una progressiva tendenza all’uso dell’italiano con il conseguente abbandono del dialetto come codice esclusivo della comunicazione:

Tabella 1. Dialettofoni esclusivi

(Percentuale di persone che dichiarano di parlare solo o prevalentemente dialetto con estranei)
Anni ʼ70 e ʼ80
Anni ʼ90 e ʼ00
Anni ‘10
1974
(Doxa)
1982
(Doxa)
1988
(Istat)
1995
(Istat)
2000
(Istat)
2006
(Istat)
2015
(Istat)
29
23
14
7
7
5
4

Tabella 2. Italofoni esclusivi

(Percentuale di persone che dichiarano di parlare solo o prevalentemente italiano in famiglia)
Anni ʼ70 e ʼ80
Anni ʼ90 e ʼ00
Anni ‘10
1974
(Doxa)
1982
(Doxa)
1988
(Istat)
1995
(Istat)
2000
(Istat)
2006
(Istat)
2015
(Istat)
25
29
41
44
44
45
46

 I dati mostrano che negli ultimi quarant’anni è cresciuta la percentuale di quanti dichiarano di parlare italiano, con il conseguente calo della quota dei dialettofoni esclusivi. Secondo il Report Istat riferito al 2015, gli italofoni esclusivi restano però al di sotto della metà della popolazione (il 45,9%, con un incremento rispetto al precedente rilevamento di appena 0,4 punti percentuali), poiché circa un terzo delle persone intervistate dichiara di parlare «sia italiano sia dialetto», mentre la restante parte si divide tra chi dichiara di parlare «solo o prevalentemente dialetto» e chi afferma di usare «un’altra lingua». D’altra parte, se negli ultimi quarant’anni la tendenza ad abbandonare il dialetto a favore dell’italiano si fosse mantenuta costante come nei primi due decenni (cfr. tabella 1), oggi saremmo di fronte all’imminente estinzione dei dialetti. Questa vistosa contrazione, che ha interessato il nostro Paese a partire dagli anni Settanta, ha indotto molti linguisti a interrogarsi sulla sorte dei dialetti in Italia e così agli inizi degli anni Novanta, il sociolinguista Gaetano Berruto (Berruto 1994) provò a disegnare alcuni scenari sulla sorte del dialetto, configurandone quattro:

  1. mantenimento del dialetto;
  2. trasfigurazione dei dialetti (loro trasformazione in varietà regionali fortemente italianizzate);
  3. morte dei dialetti;
  4. crescente differenziazione regionale (nelle diverse regioni o macroregioni, i tre scenari precedenti si sarebbero verificati con forti differenziazioni).
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con Giuseppe Paternostro

Quanto allo scenario 3), il linguista torinese si era anche «azzardato» a calcolare entro quanto tempo i dialetti sarebbero eventualmente scomparsi e aveva concluso che le varietà locali sarebbero definitivamente uscite di scena nel 2030, nella peggiore delle ipotesi, poco più di trecento anni dopo, nella migliore.

Non che Berruto propendesse per questo scenario: egli si era piuttosto «pronunciato» a favore della «perdita progressiva del dialetto in certe regioni e suo mantenimento, e continuato vigore, in altre» (Ivi:21) prefigurando una situazione che in definitiva corrisponde con quella fotografata dall’indagine Istat 2012 [1].

Tabella 3. Percentuali d’uso (autodichiarato) di italiano e/o dialetto in famiglia per ripartizioni territoriali (Dati ISTAT 2012)
ripartizioni territoriali
Solo o prevalentemente italiano
Solo o prevalentemente dialetto
Sia italiano sia dialetto
Altra lingua
Italia nord-occident.
66,9
4,0
22,9
3,6
Italia nord-orient.
42,5
12,6
35,1
6,6
Italia Centrale
69,5
4,1
20,5
2,4
Italia merid. e insulare
38,8
13,9
44,7
1,5
Italia
53,1
9,0
32,2
3,2

La tabella che, riportando le percentuali relative agli usi linguistici degli italiani all’interno della famiglia, fa riferimento a un contesto comunicativo informale, atto a favorire l’uso di varietà linguistiche colloquiali, mostra, pur nella esiguità dei valori, una maggiore vitalità del dialetto nel Nord-est e nell’Italia meridionale e insulare. Ma a prescindere dalle percentuali, più o meno alte, di uso del dialetto nel contesto familiare, si nota l’incidenza della tendenza a parlare «sia italiano sia dialetto. Se i dati Istat mostrano un decremento di quanti parlano prevalentemente dialetto con i familiari, è vero d’altra parte che si rileva una stabilizzazione della consuetudine di parlare italiano e dialetto (per i due intervalli 2006 e 2015 si passa dal 32,5% al 32,2%). E si tratta di una situazione osservabile già a partire dal 2000 e che riguarda non solo il contesto familiare ma anche quello amicale, dove ci si attesta al 32% già addirittura dal 1995.

Questo impiego “simultaneo” di lingua e dialetto, che nel Report del 2015 è chiamato «uso misto», e in quello del 2012 (riguardante gli linguistici autodichiarati degli italiani tra i 18 e i 74 anni) è detto «uso combinato», riguarda quindi una fetta significativa di parlanti. Dunque, se nei contesti informali il dialetto non è ormai tanto usato come codice esclusivo della comunicazione, esso sembra però avere trovato una nuova vi(t)a appunto nell’uso “misto” o “combinato” con la lingua nazionale.

Oggi, come venti anni fa, in media tre italiani su 10 usano il dialetto assieme alla lingua, quando parlano in famiglia o con gli amici. Si osserva, dunque, un «comportamento linguistico mistilingue» da parte di molti italiani, i quali dichiarano di usare l’uno e l’altro codice, «con l’utilizzazione alternante e frammista di italiano e dialetto nello stesso atto comunicativo» (Berruto 2007: 145).

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con Marina Castiglione

Il dialetto non sembra mostrare importanti segnali di cedimento strutturale né di imminente estinzione e nonostante non sia più un codice indispensabile per i bisogni comunicativi della società di oggi, esso si mantiene, dunque, in alcune aree più che in altre, in alcune classi sociali di parlanti e in alcuni contesti comunicativi. Ma è il suo impiego combinato con l’italiano che sembra costituire la principale tendenza del panorama sociolinguistico odierno e, in definitiva, la sua principale forma (e chance) di vita futura e, in effetti, «un motto dell’Italia alle soglie del terzo Millennio sembra essere ‘ora che sappiamo parlare italiano, possiamo anche (ri)parlare dialetto’» (Berruto 2002: 48). Ma, certo, quel «possiamo anche (ri)parlare dialetto» non significa che gli italiani usano il dialetto a scapito dell’italiano. Significa invece che esso si è sempre più affermato, aggiuntivamente e parallelamente, nell’uso di parlanti ormai pienamente italofoni, ma sempre meno “monolingui” [2].

Il dialetto, quindi, «rappresenta sempre di più una risorsa intercambiabile con l’italiano, secondo i modi – frequentissimi nel parlato informale – della commutazione di codice (o code switching: il passaggio da una lingua all’altra l’interno dello stesso discorso) e dell’enunciazione mistilingue (o code mixing:l’inserimento di parole dialettali in un discorso italino o viceversa)» (Antonelli 2016: 32).

Questa nuova condizione sembra rappresentare una tappa fondamentale di quel processo per il quale, secondo Berruto (1994), già nei primi anni Novanta, il dialetto, a livello nazionale, si stava «avviando a perdere il valore negativo di collocazione sociale bassa e svantaggiata, di discriminazione di prestigio ecc.», per diventare «da questo punto di vista assai più neutro» (:23). Il superamento del valore negativo del dialetto, il suo «sdoganamento», insomma, ha (avuto) a che fare con il nuovo assetto sociolinguistico che si è determinato verso la fine del secolo scorso: la conquista della lingua nazionale da parte di quasi tutti gli italiani. Saldato il debito con la storia e compiutosi quasi totalmente il processo di italianizzazione linguistica, il dialetto non è stato più percepito come stigma di condizioni sociali subalterne, come simbolo di arretratezza culturale o di (semi)analfabetismo, come ostacolo alla promozione sociale. E così esso ha cominciato ad affermarsi anche nell’uso dei parlanti italofoni.

5-pinello

con Vincenzo Pinello

Si aggiunga che da qualche decennio, mentre il peso del dialetto diminuisce quanto al numero di parlanti, esso aumenta, invece, riguardo agli ambiti d’uso. Il dialetto, in effetti, comincia ad apparire anche in una serie di nuovi contesti comunicativi, molti dei quali a vocazione giovanile, che vanno dalle lingue esposte ai nuovi media, affiorando dunque in ambiti che tradizionalmente non sono appartenuti a questo codice: i testi della comunicazione mediata dalla telefonia mobile (Social Network, SMS, WhatsApp) e dal computer, le insegne di locali alla moda, le frasi e gli slogan sui muri o sulle T-shirt, i testi pubblicitari, le canzoni. Si osservano negli ultimi decenni diverse condizioni di nuovo “affioramento” del dialetto che sono state chiamate «risorgenze dialettali» e che secondo Bruno Moretti (Moretti 2006), sono favorite da tre elementi:

a). la vicinanza alle modalità del parlato;

b). la “mancanza di tradizione” che lascia maggiore spazio a comportamenti innovativi da un punto di vista linguistico (presentando un minore controllo normativo);

c). il carattere informale-scherzoso di molte comunicazioni, che fa sì che il dialetto diventi uno strumento importante di allargamento del “potenziale di variazione” dei parlanti (cioè degli strumenti a disposizione dei parlanti per variare le loro modalità comunicative).

«A queste tre caratteristiche  – osserva ancora Moretti – se ne può forse aggiungere una quarta, e cioè una ‘volontà maggiore di riscoprire il dialetto’, che sembra essere collegata alla minore presenza attuale di quest’ultimo rispetto al passato, alla notevole riduzione della sua conflittualità con l’italiano e non da ultimo ad un senso di ‘nostalgia’ rispetto alla tradizione, incrementato dalla sensazione che il dialetto non sia più vitale e solido nella società come un tempo» (Moretti 2006: 44).
con-shakalab

con gli Shakalab

Il panorama sociolinguistico odierno appare dunque caratterizzato da una “nuova dialettalità”, alla quale sono esposti anzitutto i giovani. All’interno di questo orizzonte, è possibile distinguere, secondo Berruto (2006: 120), quattro categorie di valori principali da attribuire al dialetto, valori che valgono per la comunicazione vis à vis come per quella che si svolge in domini e ambiti d’uso diversi rispetto al passato (media e simili):

1) valore comunicativo effettivo come lingua d’uso funzionale dell’impiego quotidiano;

2) valore di risorsa espressiva con funzione principalmente ludica;

3) valore di rappresentazione e sottolineatura simbolica ed ideologica di mondi di riferimento e di valori socioculturali;

4) valore di mera raccolta di materiali e tradizioni con intenti folkloristici e museografici.

Berruto prende in considerazione una decina di ambiti di uso attuale del dialetto (conversazione quotidiana, comunicazione giovanile, fumetti, pubblicità, stampa, radio e televisioni locali, nomi di locali e negozi, siti internet, canzoni, comunicazione mediata dal computer) e si applica ad associare a ciascuno di essi uno o più valori tra quelli proposti, notando come di volta in volta l’uso del dialetto (spesso accompagnato a quello dell’italiano) presenti ora una funzione referenziale, ora funzioni ludico-espressive, ora un valore simbolico, di espressione delle identità locali, ora “museografico”. Dal primo al quarto valore il rapporto con

«la vitalità effettiva del dialetto diminuisce fino ad annullarsi: un dialetto ancora presente come lingua d’uso della comunicazione quotidiana è membro a pieno titolo del repertorio linguistico, un dialetto ridotto a richiamo folkloristico locale o ad antologia di materiali in un sito web non lo è più, e un dialetto ridotto a fonte di reperti da conservare come memoria di una cultura passata è defunto (in un certo senso la ‘museizzazione’ certifica l’estinzione)» (ibidem).

 Il primo valore, fa riferimento, a tutte quelle situazioni in cui il dialetto è impiegato come lingua viva dell’uso. È tale laddove i parlanti, avendone competenza, usano il dialetto nella conversazione ordinaria nei contesti comunicativi adatti al suo impiego. Da solo o accompagnato alla lingua, esso può essere, quindi, anche uno strumento determinante per arricchire la tavolozza dell’espressività e il potenziale comunicativo. In tal modo, il valore referenziale finisce per accompagnarsi a quello espressivo, laddove mediante l’uso del dialetto si vogliano raggiungere specifici scopi o effetti comunicativi. Proprio per quest’ultima ragione, il secondo dei valori riguarda in buona misura il dialetto usato dai giovani. Ma il suo impiego nelle pratiche linguistico-comunicative giovanili, che spesso appaiono anche caratterizzate da una certa volontà di anticonformismo e di scarto dalla norma, si compiono anche al di fuori degli ambiti comunicativi “ordinari”, come è il caso della comunicazione mediata dal computer.

Quando il dialetto si manifesta in questi “nuovi” ambiti è, d’altra parte, possibile leggere una sovrapposizione e compenetrazione dei valori con i quali viene assunto: l’impiego del dialetto nelle chat, negli sms e simili sembra per esempio potersi ricondurre tanto ad

«aspetti di funzionalità comunicativa, con finalità principalmente espressive e ludiche», quanto ad «aspetti di espressione di identità locale e culturale che possono benissimo essere compatibili con una lingua non più viva, impiegata artificialmente con mero valore simbolico» (Berruto 2007: 144).
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Con Mari DAgostino

Il dialetto perde parlanti, ma guadagna nuovi ambiti di uso e, più in generale, guadagna, spesso in virtù dell’attivazione di una sorta di “meccanismo della nostalgia”, una considerazione positiva che lo rende attraente e utilizzabile in ambiti diversi rispetto a quello della comunicazione ordinaria. Questo clima di nuova dialettalità non implica dunque il ricorso al dialetto al posto dell’italiano, ma accanto all’italiano. E tanto più cessa di essere un codice in cui parlare, quanto più esso diventa, per esempio, un codice in cui scrivere; tanto più cessa di essere un codice per parlare, quanto più esso diventa un codice per parlarne (anche, possibilmente, per “indurre” chi non lo fa più a (ri)parlarlo). Nel primo caso si considerino tutti gli esempi di “dialettopedia” (le diverse versioni di wikipedia in dialetto, ivi compresa quella in siciliano); per il secondo, si consideri il nascere di diverse “Accademie” fondate con lo scopo di “promuovere” (talvolta anche in chiave autonomistica) il dialetto, fornendone sistemi di scrittura, saggi di grammatica, profili geo-sociolinguistici, “corsi di apprendimento”, con la messa a punto di strumenti molto spesso non sostenuti, purtroppo, da un adeguato impianto teorico e – ancora peggio – dalla consapevolezza che il dialetto come codice della “cultura dialettale” può divenire “lingua” solo a prezzo di un processo di “ausbauizzazione forzata”, a condizione cioè che lo si renda, forzatamente e forzosamente, “lingua a qualunque costo”.

Fare di un dialetto una lingua a qualunque costo significa fornirlo, dall’esterno e artificialmente, di lessico “moderno/tecnologico” (storicamente non dialettale) grazie a una massiccia e forzata introduzione “a tavolino” di parole di origine non dialettale (per lo più italiane) mediante il prestito (più o meno adattato) e il calco linguistico. Certo, il prestito e il calco sono il termometro della vitalità di una lingua: se essa si rigenera e si rinnova mediante l’acquisizione di parole provenienti da altre lingue che la mettano in condizione di “aggiornarsi” per parlare di cose nuove e per esprimere concetti nuovi, significa che essa non è morta e che è vitale. Ma se l’arricchimento lessicale dall’esterno non si compie per una reale esigenza di comunicazione da parte dei parlanti (se l’arricchimento lessicale non serve cioè per parlare), ma per un’esigenza, più ideologica che funzionale, di porre i dialetti in rapporto uno a uno con le lingue di cultura (per “dimostrare” che in dialetto si può parlare di tutto salvo poi a scoprire che nessuno parla di tutto in dialetto, anzi quasi nessuno parla dialetto del tutto!), ci si chiede a che cosa serva tutto ciò e perché debba eventualmente servire a qualcosa.

Assumere altrimenti la consapevolezza, nell’era della neo-dialettalità che è l’era della post-dialettalità, che conoscere l’universo sociale e culturale del dialetto può fornirci tante informazioni e tante chiavi di lettura sulla nostra storia e sulla nostra identità culturale, su chi siamo e da dove veniamo, può portarci a una nuova considerazione del dialetto come strumento per riannodare e rinsaldare i legami con il nostro passato (e con le nostre radici). Se, per qualche ragione – ha osservato una volta Giovanni Ruffino – tutti i documenti storici riguardanti la Sicilia dovessero andare bruciati o perduti, sarebbe possibile ricostruire la storia della nostra Isola basandoci sulle parole del suo dialetto poiché in esso sono depositate e sedimentate tutte le vicende storiche che ne hanno determinato il singolare profilo multietnico e multiculturale. Accostarsi al dialetto per conoscere e comprendere quelle vicende può forse essere uno dei modi migliori (e ragionevoli) per dare un senso alla corrente stagione di “valorizzazione” dei dialetti nell’era della “nuova dialettalità”.

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con Giovanni Ruffino

In questo contesto si inserisce l’esperienza di un recente programma radiofonico settimanale, in cinque rubriche, dal titolo “Parru cu tia. I dialetti vanno in onda”, trasmesso ogni domenica su Radio Palermo Centrale per la regia di Nino Tarantino e condotto da chi scrive.

Il programma, nel corso del quale vengono trasmesse canzoni in dialetto (per lo più riferite a produzioni “di nicchia”) delle diverse Regioni italiane, è suddiviso in cinque rubriche. Nella prima, Diálektos: si conversa con un ospite in studio o al telefono, in genere un docente universitario, su questioni e argomenti connessi con l’universo dialettale. Nel corso delle ventidue puntate già andate in onda si sono alternati numerosi studiosi di diverse Università italiane estraniere: Giovanni Ruffino, Vito Matranga, Mari D’Agostino, Marina Castiglione, Luisa Amenta, Salvatore Trovato, Giovanna Alfonzetti, Giuseppe Paternostro, Vincenzo Pinello, Giuliana Fugazzotto, Anna Sica, Nicola De Blasi, Francesco Avolio, Andrea Viviani, Francesco Scaglione, Alfio Lanaia, Gigliola Sulis, Luca D’Anna, Matteo Rivoira, Sergio Bonanzinga, Patrizia Del Puente con stimolanti conversazioni intorno ad alcuni dei tanti temi riguardanti l’universo dialettale: dialetto scritto e scrittura dei dialetti, dialetto e linguaggio della politica, dialetto, scuola e pregiudizio linguistico, i cibi tradizionali del Natale, la lingua di Pino Daniele, i nomi tradizionali dell’Epifania, lingua e dialetto nella comunità tunisina di Mazara del Vallo, Il Sabir (la lingua franca del Mediterraneo), le vastasate e la Commedia dell’arte siciliana, gli usi linguistici degli italiani dall’unità d’Italia a oggi, l’uso combinato di lingua e dialetto in Italia e in Sicilia (code switching e code mixing), la nozione di italiano regionale, i “nuovi usi” del romanesco, Lingua e dialetto nella scrittura di Andrea Camilleri, i cibi tradizionali di Pasqua, l’Atlante Linguistico del Mediterraneo, l’Atlante Linguistico della Basilicata, l’Atlante Linguistico Italiano, le minoranze linguistiche e i galloitalici di Sicilia.

Il format del programma prevede poi la rubrica Storie di parole, nel corso della quale un esperto racconta la storia di una parola dialettale: origine, diffusione, significati, modi di dire e proverbi in cui ricorre, esempi di uso nella letteratura. Per questa rubrica si sono alternati diversi studiosi ( Fiorenzo Toso, Alfio Lanaia, Marina Castiglione, Neri Binazzi) tra i quali alcuni redattori del servizio di consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca (Stefania Iannizzotto, Antonio Vinciguerra,  Francesca Vacca) che hanno riproposto alcune schede pubblicate sul sito dell’Accademia a proposito di diverse parole italiane di origine dialettale particolarmente interessanti.

Segue la rubrica Il “Centro studi” risponde,  grazie alla quale gli ascoltatori e le ascoltatrici inviano un messaggio vocale alla radio chiedendo la spiegazione di un termine o di un’espressione, o una “consulenza” sul dialetto. Risponde un esperto del Centro di studi filologici e linguistici siciliani che ricostruisce il percorso storico-linguistico della parola o dell’espressione oggetto del quesito. La quarta rubrica Ma io come parlo? E cosa parlo? Autobiografie linguistiche prevede la lettura dell’autobiografia linguistica di un ascoltatore o un’ascoltatrice, previamente inviata alla redazione della radio. Cantu pi tia,la quinta e ultima rubrica, consente, infine, di dare voce a cantautori e artisti che scrivono e cantano (anche) in dialetto, con una conversazione sui loro testi e sul loro progetto artistico e con l’ascolto di due brani del loro repertorio, spesso eseguiti dal vivo. Sono stati ospiti i Pupi di Surfaro, Christian Picciotto GSP, i Tamuna, gli Shakalab, i Musicanti di Gregorio Caimi, i Babbaluci, Fabio Tunaman, i Malanova, i Cattivo Costume, Biggaspano, Stefano Saletti, i Vorianova, Franco Giordani, Peppe Qbeta, i Fratelli Mancuso, Valeria Cimò, Francesco Giunta, Ezio Noto e tanti altri.

Si è appena conclusa la prima fortunata stagione e si prevede di ripartire nel prossimo autunno. Intanto le trasmissioni già andate in onda possono essere ascoltate in podcast sul sito della radio www.radiopalermocentrale.it, visitando la pagina dedicata al programma. Diverse altre informazioni e materiali sul programma possono infine essere reperiti e fruiti anche dalla pagina Facebook “Parru cu tia. I dialetti vanno in onda”. (https://www.facebook.com/parrucutiaidialettivannoinonda/).

 Dialoghi Mediterranei, n. 31, maggio 2018
Note
[1] I dati sono tratti dal Report Istat del 2012 che si riferisce alle dichiarazioni di soggetti di età compresa tra i 18 e i 74 anni.
[2] E forse non è un caso che il Report Istat 2015, per gli usi linguistici all’interno della famiglia ripartiti per Regioni, accorpa i dati relativi a quanti dichiarano di parlare solo o prevalentemente dialetto con quelli riguardanti quanti dichiarano di parlare sia italiano che dialetto.
Riferimenti bibliografici
Antonelli, G. (2016), L’italiano nella società della comunicazione 2.0, Il Mulino, Bologna.
Berruto, G. (1994), «Scenari sociolinguistici per l’Italia del Duemila», in G. Holtus, E. Radtke (a cura di), Spachprognostik und das ‘italiano di domani’. Prospettive per una linguistica ‘prognostica’, Narr, Tubingen: 23-45.
Berruto, G. (2002), «Parlare dialetto in Italia alle soglie del Duemila», in G. L. Beccaria, C. Marello (a cura di), La parola al testo. Scritti per Bice Mortara Garavelli, Edizioni dell’Orso, Alessandria: 33-49.
Berruto, G. (2006), «Quale dialetto per l’Italia del Duemila? Aspetti dell’italianizzazione e ‘risorgenze’ dialettali in Piemonte (e altrove)», in A.A. Sobrero, A. Miglietta (a cura di):101-123.
Berruto, G. (2007), «Sulla vitalità sociolinguistica del dialetto oggi», in G. Raimondi, L. Revelli (a cura di), La dialectologie aujourd’hui (Atti del Convegno internazionale “Dove va la dialettologia?”, Saint-Vincent, Aosta, Cogne, 21-24 settembre 2006), Edizioni dell’Orso, Alessandria: 133-148.
Moretti, B. (2006), «Nuovi aspetti della relazione italiano-dialetto in Ticino», in A. A. Sobrero, A. Miglietta (a cura di: 31-48.
Sobrero, A. A. – Miglietta, A. (2006), a cura di, Lingua e dialetto nell’Italia del Duemila, Congedo Editore, Galatina.
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Roberto Sottile, ricercatore nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Palermo dove insegna Linguistica italiana. Recentemente ha pubblicato, con il Gruppo di ricerca dell’Atlante Linguistico della Sicilia (ALS) il Vocabolario-atlante della cultura dialettale. Articoli di saggio (CSFLS, Palermo 2009) e il “Lessico della cultura dialettale delle Madonie. 1. L’alimentazione, 2. Voci di saggio” (CSFLS, Palermo 2010-2011). Ha anche dedicato una particolare attenzione al rapporto tra dialetto e mondo giovanile. In quest’ambito si segnala il recente libro intitolato Il dialetto nella canzone italiana degli ultimi venti anni (Aracne, Roma 2013). Con Giovanni Ruffino ha pubblicato Parole migranti tra Oriente e Occidente (CSFLS, Palermo 2015). Le parole del tempo perduto è il titolo della sua ultima pubblicazione, edita da Navarra.
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