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La riscrittura nella letteratura araba: il caso di “Ahl al-kahf” di Tawfīq al-Ḥakīm
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2020 @ 01:53 In Cultura,Letture | No Comments
La riscrittura letteraria presuppone, in tutta evidenza, l’esistenza di un testo di partenza che, lavorato e rimaneggiato, permette di creare un testo nuovo. Tale processo, tuttavia, non è per niente semplice e l’autore rischia di ottenere una copia del testo di partenza o, perfino, di essere accusato di plagio. Il concetto di intertestualità trova la sua prima teorizzazione ad opera di Julia Kristeva ma il problema della riscrittura letteraria diventa centrale nella riflessione di Gérard Genette nel suo Palimpsestes. La littérature au second degré (1982). Secondo Genette sono cinque le modalità di rapporti transtestuali:
- l’intertestualità è la presenza effettiva di un testo in un altro, sottoforma di citazione (tra virgolette), allusione o plagio («un emprunt non déclaré»[1] – un prestito non dichiarato»);
- la paratestualità raggruppa elementi come titoli, sottotitoli, prefazioni o postfazioni;
- la metatestualità è costituita da commenti, riassunti e interpretazioni del testo;
- l’ipertestualità indica il rapporto di imitazione o di trasformazione tra due testi;
- l’architestualità è il rapporto tra testi che possiedono caratteristiche comuni (generi letterari, sottogeneri, ecc).
L’intertestualità, la citazione o la riscrittura possono essere valutati negativamente, ma possono fungere anche, come sostiene Alice Bravin, da «luogo della memoria» : « unriferimento intertestuale può fungere da connettore con il passato per recuperare modelli precedenti e darne testimonianza, allacciando un filo rosso tra epoche e culture apparentemente distanti. La citazione diventa così ‘luogo della memoria’»[2].
Ciò che ci interessa maggiormente è il concetto di “hypertextualité”, termine che il critico utilizza per denotare la relazione di derivazione che lega il testo preesistente, l’ipotesto, al testo derivato, in altre parole l’ipertesto.
La riscrittura è spesso applicata al mito e quello di Ulisse può esserne un esempio rappresentativo. L’eroe dell’Iliade e dell’Odissea, infatti, viene ripreso più volte nella letteratura moderna: Dante lo cita nel canto XXVI dell’Inferno, Calderón de la Barca lo fa comparire nel suo El mayor encanto, Amor, James Joyce ne fa una riscrittura in Ulysses. I miti, infatti, intrattengono tra loro delle relazioni, sembrano assomigliarsi e vivono numerose metamorfosi nel passaggio da una cultura ad un’altra e da un’epoca all’altra. Potremmo dire che i miti e le rispettive opere che li riprendono vivono molteplici vite, le cosiddette riscritture mitologiche. Vanno letti e interpretati entro un sistema complesso di corrispondenze, di tessiture e di incastri. «Se i miti – ha scritto il massimo studioso di questa materia, Lévi-Strauss (1966:236) – hanno un senso, questo senso non può consistere negli elementi isolati che entrano nella loro composizione, ma nella maniera in cui tali elementi sono combinati». Anche il critico letterario Piero Boitani sottolinea l’importanza della riscrittura: «la letteratura è un albero gigantesco, ma le radici sono sempre le medesime, e la ri-scrittura è il principio che ne governa la crescita»[3].
Il rimaneggiamento o la riscrittura delle fonti letterarie e dei miti classici è operazione che è stata tentata da diversi autori nel corso della storia letteraria mondiale, caratterizzando anche la produzione di molti autori arabi. A partire dalla fine del ‘700, l’élite intellettuale araba inizia infatti a guardare all’Europa come emblema della modernità e molti autori, tra i quali gli egiziani Rifā’a Rāfi’ al-Ṭahṭāwī (1801-1873), Salāma Mūsā e Muṣṭafā al-Manfalūtī (18761924), nonché il palestinese Ḫalīl Baydas (1874-1949) e il libanese Naǧīb b. Sulaymān al-Ḥaddād (1867-1899), si dedicano alla traduzione di testi provenienti dall’Occidente. Tra gli altri, possiamo ricordare anche Muḥammad ʻUthmān Ǧalāl (1829-1898) che tradusse La Favorita di Donizetti e Il barbiere di Siviglia di Rossini; Ṭānyūs ʻAbduh, il quale si cimentò nella traduzione dell’Amleto shakespeariano e lo rimaneggiò eliminando alcune scene; Ḫalīl Muṭrān (1872-1949), il quale si dedicò alla traduzione di alcune opere di Shakespeare tra le quali Otello, Macbeth, Amleto e Il Mercante di Venezia.
Altri drammaturghi hanno, invece, realizzato adattamenti di opere europee o classiche, mettendo in atto un processo di arabizzazione: non solo le opere venivano tradotte in lingua araba, ma anche i luoghi, i nomi dei personaggi e le musiche venivano adattati al panorama arabo-islamico e al gusto del pubblico arabo. Gli esempi di adattamento sono numerosi: lo stesso Muḥammad ʻUthmān Ǧalāl, citato precedentemente, adattò il Tartuffe di Molière in al-Šayḫ Maṭlūf, Esther di Racine in Astīr al-yahūdiyya, Iphigénie dello stesso Racine in Ifġāniyya e redasse anche Iskandar al-akbar, adattamento di un’altra opera raciniana: Alexandre le Grand; il giornalista e drammaturgo Salīm al-Naqqāš adattò alcune pièces del teatro francese di Corneille e Racine e di quello italiano di Giuseppe Verdi; Adīb Isḥāq tradusse in versi l’Andromaque di Racine per il console francese a Beirut.
La ripresa della tradizione e dei modelli occidentali si manifesta, ancora di più, nel Novecento nel teatro medio-orientale e di quello maghrebino. L’attore iracheno Ḥaqqī al-Šiblī, ad esempio, fu il primo a studiare in Francia e il suo contatto con l’Europa segnò profondamente la sua carriera; egli rappresentò l’Edipo Re di Sofocle. Altri autori e poeti hanno scelto la riscrittura: è il caso della maggior parte degli autori del neoclassicismo arabo, i quali hanno utilizzato il mondo antico e mitologico come strumento d’espressione delle loro inquietudini e angosce, dei problemi che affliggevano la realtà a loro contemporanea. Gli autori neoclassici della letteratura araba si ispirarono al patrimonio greco-romano e ai racconti mitologici delle loro regioni, alle leggende delle comunità tribali della ǧāhiliyya e dell’Islam. Fra questi autori si staglia la personalità di Tawfīq al-Ḥakīm, il quale continua la ripresa delle opere europee iniziata dai suoi predecessori.
Ḥusayn Tawfīq al-Ḥakīm (1898-1987) si colloca tra i grandi scrittori della letteratura egiziana del secolo XX. Riconosciuto come uno dei maggiori esponenti della drammaturgia araba moderna, grande innovatore del teatro, definito come ʻimlāq al-masraḥ al-ʻarabī, il gigante del teatro arabo [4], Tawfīq al-Ḥakīm è l’autore che ha garantito al teatro egiziano lo statuto di genere letterario. La sua poliedricità nella scrittura lo condusse a redigere romanzi, opere teatrali, autobiografie, anche in forma epistolare, nonché trattati di politica, società e religione.
Nonostante la produzione di Tawfīq al-Ḥakīm spazi tra diversi generi letterari, il suo nome è evocato in particolar modo nella scena teatrale del neoclassicismo arabo, con opere che vanno dalla commedia, la maggior parte, alla tragedia come con Ḥayā taḥaṭṭama (1930, trad. it. Una vita spezzata) e alla satira politica di Brāksā aw-muškila al-ḥukm (1939, trad. it. Praksa, ovvero il problema del potere). Il teatro hakimiano è un teatro nuovo, profondamente simbolico, un teatro che pone particolare attenzione ai caratteri formali e tecnico-pratici della rappresentazione, quali gli attori, la scenografia, i costumi, poiché il teatro è, ovviamente nella sua genesi, in radice, anche e soprattutto performance e non solo scrittura letteraria. Il teatro hakimiano è innovativo anche in termini di uso della lingua: il drammaturgo egiziano impiega ciò che lui chiama terza lingua [5], una lingua che non è molto distante né dalla lingua letteraria né dal dialetto, una lingua che nasce dalla riunificazione di queste due lingue e non dall’elisione di una di esse.
Centrale nel nostro discorso è il rimaneggiamento che Tawfīq al-Ḥakīm compie dei miti e dei testi classici. Tale rimaneggiamento non avviene soltanto in un’opera o in poche opere hakimiane, bensì è una caratteristica ricorrente, è il filo conduttore della sua produzione. Il drammaturgo egiziano sfrutta le fonti introducendole in vario modo nelle sue opere: attraverso semplici citazioni, allusioni o mediante delle riscritture integrali o parziali della storia di partenza. Tutte i suoi lavori contengono riferimenti, espliciti o impliciti, a opere, storie o personaggi già noti e presenti nell’immaginario collettivo. La ripresa non è, tuttavia, fine a se stessa in quanto l’autore utilizza il passato come strumento per veicolare messaggi attuali, per creare parallelismi con il presente e per denunciare le assurdità della sua contemporaneità servendosi di storie e uomini del passato. La sua produzione non si colloca nel quadro di una semplice imitazione o rievocazione. Secondo Tawfīq al-Ḥakīm, è necessario riprendere la tradizione, rivalutarla, ma creando un nuovo prodotto letterario, un nuovo testo. Come nella fenomenologia della traduzione, il suo lavoro di riscrittura è l’esito di un’operazione atta ad equilibrare due elementi apparentemente contrapposti: la tradizione, da un lato, e l’innovazione, dall’altro.
L’esempio più lampante di utilizzo delle fonti classiche ad opera di Tawfīq al-Ḥakīm è quello di Aminūsa, traduzione dell’opera Carmosine di Alfred de Musset; nell’Edipo Re sono inseriti i riferimenti alla storia di Maǧnūn Layla; il racconto della morte di Antonio e di Cleopatra in ʿAṣā al-Ḥakīm (Il bastone al-Ḥakīm», 1955) è una trasposizione in arabo delle Vite parallele di Plutarco.
L’elenco degli esempi da riportare potrebbe essere vastissimo e molto diversificato, ma quello forse più originale è Ahl al-kahf. Si tratta di un dramma simbolico in quattro atti, pubblicato nel 1933. Ambientato nella città di Tarso, Ahl al-kahf illustra la storia di tre uomini, Mishilinia, Marnush e Iamlikha, e del loro cane Qatmir. I tre giovani, ferventi cristiani e oppositori del tiranno Decio, si vedono costretti a trovare rifugio all’interno di una caverna per sfuggire alle persecuzioni. Al loro risveglio dopo trecento anni, nell’oscurità della caverna, di fronte alla fame e alla stanchezza dei compagni, il pastore Iamlikha si propone di uscire alla ricerca di viveri. Profondamente turbato, torna alla caverna e rivela ai compagni il cambiamento della città di Tarso e della sua gente. Tutto ciò che aveva visto e le persone che aveva incontrato, con i loro sguardi sospetti e gli strani indumenti, gli appaiono bizzarri. A partire da quell’uscita, i tre compagni verranno scoperti dagli abitanti del villaggio, verranno condotti al palazzo reale e acclamati come santi viventi.
Alla storia dei tre giovani si intrecciano, nel dramma hakimiano, le vicende di altri personaggi, tra i quali la principessa Prisca, figlia dell’imperatore Teodosio, e Ghalias, il precettore di quest’ultima. Mishilinia, rivedendo nella giovane ragazza la sua amata, la santa Prisca alla quale la principessa sembra assomigliare nell’aspetto e nei modi di fare, si innamora perdutamente di lei.
Nonostante il risveglio sia avvenuto nell’epoca cristiana di Teodosio, i compagni rifiutano la realtà e, uno ad uno, fanno ritorno nella caverna. Un mese dopo, l’imperatore fa organizzare una cerimonia e ordina ai suoi sudditi l’ostruzione dell’ingresso della caverna. Iamlikha si abbandona alla morte, seguito da Marnush. Prima della morte di Mishilinia, la principessa Prisca decide di farsi murare viva nella caverna, all’insaputa dell’imperatore suo padre. Sostenuto dall’amore di Prisca, Mishilinea si spegne serenamente nella caverna.
Ahl al-kahf si configura come un’opera complessa, nella quale riferimenti, allusioni e riscritture letterarie diverse confluiscono dando vita ad una storia nuova, ma che ricorda fonti e storie classiche. Se tornassimo indietro di qualche riga e rileggessimo il sunto della trama del dramma appena esposto, ci renderemmo conto di una somiglianza molto evidente tra la storia dell’opera hakimiana e il mito dei sette dormienti di Efeso.Probabilmente il successo del quale godette l’opera, tradotta in più lingue e immediatamente apprezzata da parte del pubblico arabo e di quello europeo, è legato alla conoscenza che il mondo arabo e quello occidentale avevano del mito di ispirazione. Tale mito accomuna, infatti, il mondo cristiano e quello musulmano, con diverse versioni tra le quali emergono l’omelia siriaca di Giacomo di Sarug, la versione greca di Fozio, quella latina di Gregorio di Tours e il racconto che ne viene fatto nella prima parte della 18esima sura coranica, chiamata «La sura della caverna». Riportiamo qui di seguito tale estratto per comprendere come la sura influenzò la scrittura hakimiana:
Elementi comuni a tutte le versioni sono: la caverna come rifugio, i giovani cristiani che scampano alle persecuzioni di Decio, l’uscita dalla caverna di uno dei compagni alla ricerca di cibo e il risveglio dal profondo sonno dopo molti secoli. Alcuni elementi, invece, differiscono dalle fonti di riferimento: il numero e i nomi dei dormienti e il numero degli anni trascorsi nella caverna.
Per quanto riguarda i personaggi, sia il Corano che il dramma Ahl al-kahf introducono un nuovo personaggio che non compare nelle fonti cristiane: il cane, rappresentato accucciato all’ingresso della caverna con le zampe distese. Oltre a quest’aggiunta, gli altri personaggi differiscono tra le varie versioni per numero e nomi. Per la tradizione cristiana i dormienti di Efeso erano sette e questo è il numero che compare in Gregorio di Tours («vissero sette uomini») e in Fozio («il Martirio dei sette santi giovinetti»). Sul vago si mantiene, invece, Giacomo di Sarug nella sua omelia («eranvi alcuni giovani figli di magnati»). Di fronte ai diversi pareri sul numero dei dormienti (tre, cinque o sette), il Corano afferma: «Rispondi: “Il mio Signore sa meglio qual fosse il loro numero; non lo conoscono che pochi”» (versetto 22). Dunque, è preferibile rimettersi a Dio che è onniscente. Eppure Tawfīq al-Ḥakīm, approfittando del fatto che il Corano lascia il lettore libero di decidere il numero dei dormienti, specifica il numero di tre dormienti.
Nel caso dei nomi, i personaggi non vengono mai nominati nella sura coranica e ciò fa presupporre che Tawfīq al-Ḥakīm abbia fatto riferimento alle fonti cristiane. Gregorio di Tours nomina Massimiano, Malco, Martiniano, Costantino, Dionisio, Giovanni e Serapione, mentre Fozio riporta i nomi di Massimiano, Giamblico, Martimo, Dionisio, Essacustudiano, Antonino e Giovanni. I nomi con i quali Tawfīq al-Ḥakīm presenta i suoi personaggi sono: Mishilinia, Marnush e Iamlikha. Mishilinia corrisponderebbe all’adattamento arabo di Massimiano, Iamlikha è la deformazione di Giamblico, Marnush, invece, potrebbe corrispondere a Martimo o Martimiano. A questi personaggi ricorrenti Tawfīq al-Ḥakīm ne aggiunge altri, la principessa Prisca e il suo precettore Ghalias, che permettono di narrare una seconda storia, la storia d’amore di Mishilinia e Prisca. Tecnica narrativa che moltiplica le storie in germinazione ad incastro, abbastanza diffusa nella letteratura popolare araba.
L’altro elemento di divergenza tra le fonti e la riscrittura hakimiana riguarda il numero degli anni trascorsi all’interno della caverna. Nel dramma Ahl al-kahf essi sono 300 anni, 309 nella sura coranica («Rimasero dunque nella loro caverna trecento anni, ai quali ne aggiunsero nove» – versetto 25), 372 nella versione di Fozio («Trascorsi trecentosettantadue anni»). Gregorio di Tours, al contrario, non specifica il numero degli anni trascorsi bensì scrive «sono trascorsi molti anni». La versione dell’omelia di Giacomo di Sarug, invece, cita un periodo di 350 anni («secondo il computo (l’era) e il calcolo dei Greci, 350 anni sono trascorsi dall’imperatore Dukos (Decio)»). Seppur sembri che l’autore egiziano approssimi gli anni, in realtà egli pare essere rimasto fedele al Corano. I 309 anni citati nel versetto 25 della sura, infatti, sono anni del calendario lunare, che corrispondono ai 300 anni del calendario solare ai quali Tawfīq al-Ḥakīm fa riferimento.
Il mito tradizionale dei dormienti di Efeso viene, quindi, rimaneggiato e adattato alle finalità del dramma egiziano. La semplice ripresa del mito sarebbe stata, al contrario, un modo per “rinfrescare la nostra memoria” su una storia già conosciuta. Se ci fermassimo alla constatazione delle somiglianze e delle differenze tra il testo di Tawfīq al-Ḥakīm e il mito dei sette dormienti di Efeso, quest’ultimo sembrerebbe l’unico riferimento ipertestuale, l’unica fonte usata per la composizione del dramma. In realtà non è così, in quanto Tawfīq al-Ḥakīm si ispirò anche ad un altro mito, seppur questo non sia centrale nella storia di Mishilinia, Marnush e Iamlikha. Si tratta della leggenda giapponese di Urashima Tarō, un pescatore che salva una tartaruga maltrattata da alcuni giovinetti e la libera in mare. Il giorno seguente il pescatore viene chiamato dalla tartaruga che gli comunica che il re del mare vuole ringraziarlo, dandogli in sposa la principessa. I due sposini vivono felici su un’isola meravigliosa per tre anni, fino a quando il pescatore viene pervaso da un forte sentimento di nostalgia e chiede di tornare sulla terra, dalla sua famiglia, con la promessa di far ritorno dalla sua amata. La principessa gli consegna, allora, uno scrigno che Urashima non dovrà aprire per nessun motivo. Ma, quando torna al suo villaggio, il pescatore si rende conto del fatto che sono passati ben tre secoli e, disperato, apre lo scrigno che conteneva del fumo bianco, simbolo della sua immortalità. Quel gesto gli costerà la vita, conducendolo ad invecchiare e a morire sulla spiaggia.
Il riferimento alla leggenda di Urashima Tarō è esplicito: Tawfīq al-Ḥakīm fa raccontare ai suoi personaggi la storia del pescatore giapponese [6].Questo racconto viene sfruttato per far emergere un parallelismo tra la storia di Urashima e quella dei tre dormienti: così come i giovinetti si erano rifugiati nella caverna, Urashima ripara nel palazzo del re del mare e in entrambi i luoghi il tempo sembra trascorrere molto lentamente; solo quando escono dal rifugio e tornano alla realtà, i personaggi si accorgono del fatto che sono passati molti secoli dalla loro partenza. Anche l’amore tra Prisca e Mishilinia è parallelo a quello tra Urashima e la principessa del mare.
Altra fonte ipertestuale sfruttata dal drammaturgo egiziano è l’Aida di Giuseppe Verdi, la cui scena finale ispira la conclusione del dramma hakimiano. La scena mostra Radamès che si abbandona alla morte invocando la sua amata, la quale, trovandosi all’interno della stessa prigione, risponde alla chiamata con «Son io!».Parallelamente, in Ahl al-kahf, Mishilinia si rassegna alla morte ma, quando chiama a sostegno Prisca, lei risponde al suo appello. In entrambe le opere, il personaggio femminile, che sia Aida o Prisca, sceglie di morire nella prigione insieme al proprio amato.
I vari esempi qui riportati testimoniano come la scrittura drammaturgica di Tawfīq al-Ḥakīm rappresenti un connubio perfetto di passato e presente, di tradizione e innovazione, di ripresa dei miti e rielaborazione di essi. L’attingere alle fonti non significa copiarli e ciò è chiaro nella scrittura e nella produzione ḥakimiana. In tempi di pandemia come gli attuali forse non è improprio assimilare l’operazione di riscrittura ad un’opera di contagio, di trasmissione di un’influenza virale, di contaminazione intertestuale che può agire e produrre i suoi effetti in forma consapevole o inconsapevole, memorie irriflesse o allusioni deliberate, echi diretti o mediati, sedimentazioni culturali di mondi letterari che si incrociano e si fecondano. Parole, significati, lingue, stili, esperienze di conoscenza che come semi cadono da un testo ad un altro, migrano da una pagina all’altra per confluire in un nuovo orizzonte di senso. La dialogicità delle letterature e delle culture è probabilmente la più alta espressione delle civiltà umane. Qualcosa di cui oggi sentiamo forte il bisogno per riaffermarne e rivendicarne il primato.
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