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La rappresentazione degli arabi nella letteratura italiana: uno, nessuno, centomila

Sicilia, da Libro di Ruggero, di Al Idrisi

Sicilia, da Libro di Ruggero, di Al-Idrisi, 1275

di Mila Fantinelli

Uno, nessuno, centomila: la rappresentazione del mondo arabo nella letteratura italiana è sempre stata molteplice, sfaccettata e, talvolta, contraddittoria. Dall’ammirazione per il sapere filosofico e scientifico all’immagine del nemico nelle epopee cavalleresche, la cultura araba ha occupato uno spazio significativo nell’immaginario letterario italiano fin dal Medioevo.

Già Dante Alighieri, nella Divina Commedia, riconosceva il valore della tradizione filosofica araba collocando Avicenna e Averroè nel Limbo accanto ai grandi pensatori dell’antichità. Allo stesso tempo Giovanni Boccaccio, nel Decameron, offre una rappresentazione più complessa dell’alterità islamica attraverso la figura di Saladino, protagonista di una novella che tratta il tema del dialogo interreligioso. Nel Rinascimento, successivamente, Ludovico Ariosto dipinge un Oriente che non è solo il teatro del conflitto tra cristiani e musulmani, ma anche il luogo di personaggi profondi e contraddittori, come l’Emiro Agramante, ben lontano dal semplice stereotipo del nemico barbaro, ma caratterizzato da grandi virtù e coraggio.

ariosto_-_orlando_furioso_1551_-_5918999_fere001606_00005-tifCome afferma lo storico Franco Cardini (2001), nel Medioevo cristiani e musulmani non solo si scontravano, ma si comprendevano anche. L’Occidente non sarebbe nato difatti senza il contributo dell’Islam, che con le sue traduzioni di Aristotele e il pensiero di Avicenna e Averroè ha alimentato la riflessione filosofica e scientifica europea. L’incomprensione moderna, figlia dell’orientalismo e del colonialismo, ha invece spesso ridotto il mondo arabo a un’immagine esotica o arretrata, perdendo di vista il dialogo che nei secoli aveva caratterizzato i rapporti culturali.

Passando al Novecento, la letteratura italiana eredita questa stratificazione di immagini e significati, oscillando tra la persistenza di stereotipi e nuove prospettive che mirano a restituire una visione più autentica del mondo arabo. Così, quattro grandi filoni emergono nel corso del secolo, offrendo diverse chiavi di lettura per comprendere l’immagine dell’arabo nel contesto letterario italiano: 1) la letteratura di viaggio; 2) la letteratura “levantina”; 3) le radici arabe italiane;4) la letteratura post-moderna.

salgariLa letteratura di viaggio

All’inizio del Novecento, la letteratura di viaggio continuava a esercitare un grande fascino sul pubblico europeo, alimentando l’immaginario esotico che caratterizzava il colonialismo dell’epoca. Scrittori ed esploratori producevano resoconti dettagliati sulle terre “esotiche” che visitavano, contribuendo a costruire una visione dell’Oriente come un mondo affascinante, misterioso e distante dai valori occidentali. L’Egitto, in particolare, occupava un posto privilegiato in questa narrativa. L’interesse europeo per l’Egitto all’inizio del Novecento è indissolubilmente legato alle grandi scoperte archeologiche di studiosi come Gaston Maspero e Auguste Mariette, le cui ricerche hanno permesso di riportare alla luce un mondo sepolto per millenni.

In questo contesto, lo scrittore italiano Emilio Salgari, pur non essendo un viaggiatore in senso stretto, si inserisce perfettamente, dimostrando la capacità di evocare mondi lontani attraverso un’attenta documentazione e un uso sapiente degli elementi esotici (Bisanti, 2011). L’esotismo in Le figlie dei faraoni (1905) è difatti un elemento centrale che permea l’intera narrazione. Salgari costruisce un mondo affascinante e misterioso, in cui gli elementi storici e culturali sono filtrati attraverso una prospettiva tipicamente occidentale, esaltando il fascino dell’antichità egizia rispetto alla contemporaneità, spesso descritta in toni più decadenti.  Un aspetto significativo dell’esotismo nel romanzo è la descrizione della popolazione egiziana e, in particolare, dell’identità del protagonista, Mirinri. Egli viene caratterizzato come diverso dai fellah moderni, con la pelle solo leggermente abbronzata, distinguendolo così dalla popolazione contemporanea e avvicinandolo all’ideale di una nobiltà egiziana più pura e raffinata. Questo dettaglio riflette una tendenza tipica della letteratura esotica e colonialista dell’epoca, in cui si tendeva a distinguere le grandi civiltà del passato dagli abitanti delle stesse terre nel presente, spesso visti come decaduti o inferiori rispetto alla grandiosità dei loro antenati. Salgari sfrutta così questi elementi per creare un’ambientazione che risulti al tempo stesso realistica e mitizzata, dove la magia dell’antico Egitto convive con pericoli esotici, riti misteriosi e antagonisti astuti; dove il fascino per il passato si mescola con la ricerca dell’avventura, e l’esotismo diventa una chiave narrativa per trasportare il lettore in un mondo lontano e affascinante, ma sempre visto attraverso lo sguardo dell’Occidente.

divisione-28-ottobreLa letteratura “levantina

I Levantini d’Egitto rappresentano una comunità affascinante e complessa che ha contribuito in modo significativo alla storia sociale ed economica egiziana, soprattutto tra il XIX e il XX secolo. Il termine levantino si riferisce a quegli europei – in particolare italiani, francesi, greci e maltesi – che si stabilirono in Egitto per lunghi periodi o vi nacquero, spesso mantenendo un’identità culturale fluida tra Oriente e Occidente. L’Egitto, sotto il governo di Muhammad Ali (1805-1848) e dei suoi successori, avviò difatti un processo di modernizzazione che attrasse numerosi europei, offrendo opportunità commerciali e professionali. In particolare, città come Alessandria e Il Cairo divennero centri cosmopoliti in cui convivevano diverse lingue, tradizioni e classi sociali.

Gli italiani costituivano una delle comunità più numerose tra i levantini. La loro presenza crebbe notevolmente a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, favorita sia dalle riforme modernizzatrici del Paese sia dall’apertura del Canale di Suez nel 1869, che rese l’Egitto un nodo strategico per il commercio internazionale. Tuttavia, nonostante il forte radicamento, i levantini rimasero per lo più un’élite separata dalla popolazione locale, conservando uno stile di vita europeo e relazioni privilegiate con le classi dirigenti. L’identità levantina era così spesso caratterizzata da un senso di superiorità nei confronti della popolazione egiziana, percepita come immobile e tradizionalista rispetto alla modernità incarnata dagli europei. Questo atteggiamento è evidente nelle opere di autori che, pur essendo nati in Egitto, lo guardavano con una lente orientalista ed esotizzante.

78582fa1c9Filippo Tommaso Marinetti è un esempio emblematico di questa visione: nato ad Alessandria, amava profondamente l’Egitto, ma la sua appartenenza all’élite lo teneva lontano dalla realtà quotidiana della maggior parte degli egiziani. Nei suoi scritti, come Il fascino dell’Egitto (1933), emerge una fascinazione per il paesaggio egiziano – le piramidi, il Nilo, il deserto – elementi che diventano protagonisti della sua narrazione più delle persone stesse. Egli idealizzava l’antico Egitto e la sua grandiosità, contrapponendolo a una visione statica e arretrata della società araba contemporanea, che descriveva come passiva e poco incline al progresso futurista. Questo distacco si riflette anche nella sua adesione ai circoli elitari, come quello della corte di re Fuad, che lo poneva in una posizione di privilegio rispetto alla maggioranza della popolazione egiziana. Anche nei suoi altri lavori, come Dune (1914), Mafarka il futurista (1909) e Gli Indomabili (1922), l’Egitto è un luogo di suggestioni potenti e primordiali, un palcoscenico esotico più che una realtà viva e complessa. La sua relazione con il Paese è quindi ambivalente: da un lato, un affetto quasi nostalgico per la terra natale, dall’altro, uno sguardo distante e intriso di un’ottica coloniale, che lo porta a esaltare il paesaggio senza mai realmente avvicinarsi alla cultura e alla vita delle masse arabe.

Un’altra scrittrice, Fausta Cialente, in Il cortile a Cleopatra cialente(1936), offre un ritratto vivido di Alessandria come un microcosmo cosmopolita, in cui diverse nazionalità – italiani, greci, francesi, inglesi e arabi – convivono, ma senza mai realmente mescolarsi. Attraverso la sua narrazione, emerge chiaramente il doppio volto della società levantina: da un lato, l’effervescenza culturale di una città vivace e aperta agli scambi internazionali; dall’altro, un rigido sistema di gerarchie sociali che riflette la mentalità coloniale dell’epoca (Gialloreto, 2015). Un esempio emblematico è il personaggio di Sambo, il servo sudanese, che incarna la condizione di subalternità degli arabi e delle classi più umili. Cialente descrive come i levantini evitassero di guardarlo negli occhi, a meno che non fosse per insultarlo, un dettaglio che denuncia il disprezzo e la disumanizzazione a cui erano sottoposti i locali. Questo atteggiamento riflette il senso di superiorità che le comunità europee trapiantate in Egitto nutrivano nei confronti degli autoctoni, considerati inferiori e relegati ai margini della vita sociale. Tuttavia, la scrittura di Cialente non si limita a registrare questa realtà con sguardo neutrale: al contrario, il suo romanzo rivela una chiara consapevolezza critica nei confronti del colonialismo e delle sue implicazioni. Attraverso la sua narrazione, l’autrice mostra difatti empatia per coloro che subiscono questa discriminazione e fa emergere le contraddizioni di una società che, pur considerandosi moderna e raffinata, si fondava su rapporti di potere profondamente iniqui.

5000000112549_0_0_536_0_75Un altro autore dimostra grande coscienza di questa disparità sociale: Enrico Pea. In Rosalia (1942), Enrico Pea offre uno sguardo profondamente umano e anticonvenzionale sulla società levantina di Alessandria d’Egitto, sfidando i pregiudizi europei nei confronti degli arabi. A differenza di molti altri autori della sua epoca, Pea non descrive gli arabi come figure marginali o passive, ma ne riconosce la dignità e l’ospitalità. Attraverso questa rappresentazione, denuncia implicitamente l’arroganza e la mentalità coloniale degli europei, che spesso consideravano gli arabi inferiori solo perché portatori di abitudini diverse. L’esperienza di Pea in Egitto, il suo passato operaio e la sua vicinanza agli ambienti anarchici della Baracca Rossa lo rendono particolarmente sensibile alle ingiustizie sociali e alle dinamiche di esclusione, aspetti che emergono con forza in Rosalia, dove l’Oriente non è solo uno sfondo esotico, ma uno spazio di incontri, solidarietà e resistenze silenziose.

Grande amico di Pea è Giuseppe Ungaretti, una delle figure più emblematiche della poesia italiana del Novecento, che porta con sé nelle sue opere l’impronta indelebile della sua infanzia e giovinezza trascorse ad Alessandria d’Egitto. Questa esperienza segna profondamente la sua visione del mondo e il suo senso di appartenenza, sospeso tra diverse culture, in particolare tra quella europea e quella araba. Un aspetto significativo di questa sua identità ibrida emerge nel suo rapporto con Moammed Sceab, amico d’infanzia e compagno di studi, il cui tragico destino diviene emblema di una condizione di spaesamento esistenziale che lo stesso Ungaretti sente di condividere. La rappresentazione di Sceab nei testi poetici e autobiografici di Ungaretti non è semplicemente un omaggio all’amico perduto, ma un profondo interrogarsi sulla condizione dell’uomo in esilio, sospeso tra mondi inconciliabili.

Ungaretti nasce ad Alessandria d’Egitto nel 1888 da genitori italiani, in un contesto cosmopolita in cui la presenza di comunità europee si intreccia con quella locale araba. L’influenza dell’ambiente egiziano sulla sua formazione è evidente: nei suoi scritti, il poeta evoca spesso i colori, i suoni e gli odori del deserto, il ritmo lento della vita araba, le tradizioni beduine e la cantilena coranica. In questa realtà multiforme si sviluppa la sua amicizia con Moammed Sceab, giovane arabo con cui condivide l’educazione francese e l’amore per la letteratura. In un passaggio di Vita d’un uomo, Ungaretti ricorda come i due fossero legati non solo da una profonda amicizia, ma anche da un’identica condizione di sradicamento: «eravamo uniti nelle speranze di un mondo organizzato con maggior giustizia, ed eravamo uniti dai ricordi di infanzia e dalle aspirazioni letterarie che avevamo l’uno e l’altro». Entrambi cresciuti in una cultura occidentale in terra orientale, vivono una tensione tra le proprie origini e la cultura acquisita, tra la tradizione e la modernità. La tragica fine di Moammed Sceab, suicida a Parigi perché incapace di trovare un senso di appartenenza, diventa per Ungaretti un motivo di riflessione sulla condizione dell’uomo senza patria. In In memoria (1916), componimento dedicato all’amico, Ungaretti traccia un ritratto struggente di Sceab: «Discendente/ di emiri di nomadi/ suicida/ perché non aveva più/ Patria». Questi versi condensano il dramma dell’esilio: Sceab è erede di una grande tradizione nomade, ma si è allontanato irrimediabilmente da essa. In Francia, ha persino cambiato nome, diventando “Marcel”, nel tentativo di integrarsi in un mondo che tuttavia non lo riconosce come parte di sé. Il suo suicidio è la conseguenza estrema di questo spaesamento, di una frattura interiore insanabile.

Nel rievocare Sceab, Ungaretti non fa tuttavia distinzioni tra sé e l’amico arabo: entrambi sono esuli, entrambi sono alla ricerca di un senso nel mondo. Il loro legame è una forma di resistenza alla frammentazione identitaria imposta dalla storia e dalla cultura dominante. In un’epoca in cui la visione dell’Oriente era spesso deformata da pregiudizi coloniali ed esotismi, Ungaretti propone un’immagine dell’arabo non stereotipata, ma umana e complessa. Nonostante la sua origine italiana, si sente difatti legato profondamente all’Egitto, come dimostra la sua celebre affermazione in una lettera a Giovanni Papini: «Io sono un poeta egiziano». Questa dichiarazione, più che un semplice riconoscimento delle proprie radici, è l’espressione di un’identità fluida, che rifiuta le classificazioni rigide e abbraccia la molteplicità culturale.

sciascaiLa Sicilia araba, l’Italia araba

Negli anni ‘70, l’Italia stava vivendo un periodo di trasformazioni politiche, sociali e culturali che stimolavano un’intensa riflessione sull’identità nazionale (Patat, 2024). In questo contesto di cambiamento, si intrecciavano le voci di una società che cercava di ridefinirsi, di conciliare il passato e il presente, di valorizzare le differenze regionali pur cercando una sintesi comune. L’opera di Italo Calvino, con la sua raccolta di fiabe popolari, diventa un punto di riferimento importante in questo dibattito, poiché attraverso la riscoperta e la narrazione di antiche storie tradizionali, lo scrittore riesce a riflettere sulle radici culturali italiane e sulle molteplici identità che le compongono. Le fiabe di Calvino non solo ci raccontano la saggezza popolare, ma anche la complessità di un Paese che, nel momento di maggiore crisi, cercava di ridefinire se stesso.

Nel 1972, Italo Calvino incluse il personaggio di Giufà nella sua raccolta di fiabe, attingendo alla tradizione popolare siciliana e araba. Questo personaggio, che si muove tra l’elemento comico e quello saggio, ha radici profonde nella storia di Sicilia, un’isola che, per secoli, è stata sotto il dominio arabo, dal IX all’XI secolo, periodo che ha lasciato un’impronta indelebile nella cultura, nella lingua, nell’architettura e nelle tradizioni locali. La Sicilia è, infatti, un crogiolo di culture, dove il patrimonio arabo si mescola con quello normanno, greco, e, successivamente, con le altre popolazioni di invasori e dominatori. Calvino, nel raccontare Giufà, non solo recupera una figura radicata nel folklore ma si serve di lui per riflettere sull’identità di un popolo che ha vissuto il contrasto tra la tradizione e l’influenza esterna. Giufà rappresenta infatti questo intreccio culturale: se da un lato incarna l’archetipo del “saggio sciocco” della tradizione orale siciliana, dall’altro è anche il simbolo di un’identità che ha sempre dovuto negoziare la propria esistenza tra il rispetto delle tradizioni e l’accoglienza delle novità provenienti da altri mondi.

Sempre come riflessione sull’identità, nel romanzo Il Consiglio d’Egitto, Leonardo Sciascia esplora la figura dell’arabo non solo come una presenza storica, ma come un simbolo di una realtà dimenticata, falsificata dalle élite siciliane per giustificare il proprio dominio. Gli arabi, che un tempo hanno governato la Sicilia e vi hanno lasciato tracce indelebili nella cultura, nel paesaggio e nella lingua, vengono rappresentati come una realtà rimossa dalla memoria storica ufficiale. L’idea di Sciascia sulla storia si inserisce in una riflessione più ampia sulla memoria e sul racconto ufficiale, con un richiamo alla visione hegeliana della storia come grande narrazione. Secondo Hegel, la storia è un processo razionale in cui ogni evento e ogni civiltà si inseriscono in un progetto globale di sviluppo dell’autocoscienza umana. Tuttavia, Sciascia sembra suggerire che questa visione della storia è spesso falsificata, distorta e selettiva, a favore di chi detiene il potere.

imageLa Sicilia diventa quindi il luogo di una lotta tra due anime: quella araba, che viene dimenticata, e quella francese, rappresentata nel romanzo dalla figura dell’avvocato illuminista Di Blasi. Nel contesto della riflessione di Sciascia, l’autore è definito da Corrado Augias come lo scrittore che «scopre l’anima araba degli italiani». In un’intervista apparsa sul settimanale Panorama il 10 novembre 1985, Sciascia afferma con forza: «Gli arabi ci hanno insegnato la tolleranza e il segno della loro cultura è rimasto in noi, nel nostro modo di pensare e nella lingua». Questo riconoscimento della cultura araba come fondamentale nella formazione dell’identità siciliana e italiana si inserisce in un periodo in cui l’Italia cercava di sviluppare una propria linea politico-culturale, capace di guardare con riconoscenza al mondo arabo-islamico del Mediterraneo. Sciascia si distacca così dalla visione eurocentrica e cristiana che aveva prevalso per secoli, proponendo invece una lettura della storia siciliana che valorizza la cultura araba e la sua eredità.

L’identità siciliana, secondo Sciascia, è ancora impregnata di questa eredità araba, visibile non solo nelle vicende storiche, ma anche nel paesaggio, nella toponomastica, nel cibo, nei dialetti, nelle tradizioni e nelle espressioni artistiche. La Sicilia, così come altre aree del Meridione d’Italia, conserva tracce tangibili dell’influenza araba, che si manifesta tanto nei pregi dell’ospitalità e della pazienza quanto in una forma di indolenza che può risultare patologica. Sciascia non nasconde le contraddizioni di questa eredità, ma anzi le espone come parte integrante di un’identità complessa e sfaccettata, che deve essere riconosciuta e valorizzata.

download-1La letteratura post-moderna

In un mondo sempre più complesso e frammentato, il postmodernismo abbandona le rigide strutture di pensiero lineare e universale, celebrando la pluralità, la relatività e l’ambiguità. Questo periodo si contraddistingue per il rifiuto delle grandi narrazioni e delle verità assolute, preferendo una molteplicità di prospettive e interpretazioni, un caleidoscopio di voci e storie che non si fondano su un’unica verità, ma riflettono piuttosto una varietà di esperienze e significati. Baudolino di Umberto Eco, pubblicato nel 2000, è un romanzo che si inserisce pienamente nel contesto della letteratura postmoderna, un movimento che si caratterizza per la messa in discussione delle convenzioni narrative tradizionali, la frammentazione temporale e spaziale, l’auto-riflessività e il gioco intertestuale. Postmoderno per eccellenza, Baudolino sfida le frontiere tra realtà e finzione, storia e mito, conoscenza e ignoranza, attraverso una narrazione che mescola fatti storici, invenzione letteraria e riflessioni filosofiche. Nel romanzo il personaggio di Abdul emerge come una figura centrale che incarna la complessità e la pluralità dell’identità umana. Abdul non è un personaggio che cerca una patria unica o una verità univoca, come nel caso di Ungaretti, il quale nella sua vita e nella sua poesia sembrava cercare una risposta o una realizzazione attraverso un’identità collettiva e una connessione profonda con il mondo. Piuttosto, Abdul accetta la pluralità del suo essere e la convivenza di molteplici origini culturali, sociali e religiose, che si fondono in lui, ma senza un bisogno di ridurre o definire rigidamente il suo posto nel mondo. Difatti, Abdul, come personaggio, rappresenta il punto di incontro tra diverse realtà culturali: la sua origine araba, provenzale e irlandese è un microcosmo delle culture che si intersecano nel contesto medievale, soprattutto durante le Crociate, un periodo in cui il contatto tra civiltà diverse, se non sempre pacifico, generava un continuo scambio di idee, tradizioni e credenze. Abdul non è mai limitato dunque da una sola identità, ma è il risultato di una convergenza di culture, e questo lo rende una figura particolarmente interessante per Eco, che esplora come l’identità sia un concetto fluido, costruito attraverso il contatto e la contaminazione tra mondi diversi. In un contesto che spesso cerca di definire e categorizzare le persone in base a rigidi confini culturali, politici e sociali, Abdul rappresenta un ideale di apertura e di accettazione della pluralità. La sua esistenza sfida le narrazioni che separano le culture e le identità, suggerendo che la vera ricchezza dell’essere umano risiede nella capacità di vivere e di abbracciare la propria complessità, senza cercare di ridurla a un’unica definizione.

Con lo stesso sguardo plurale, di chi valica i confini delle grandi verità per abbracciare l’Altro in un incontro totale, Maurizio Maggiani, con il suo romanzo Il coraggio del pettirosso, ci invita a riflettere sul concetto di identità in un contesto di conflitto e sulle contraddizioni che emergono quando si affrontano le realtà complesse della politica e della lotta. L’opera non si radica nel medioevo come quella di Umberto Eco, ma piuttosto si inserisce in una realtà moderna, rifacendosi all’Alessandria di Ungaretti, in cui si mescolano storie, culture e destini diversi. Nel romanzo, troviamo il personaggio di Fatiha, una donna palestinese, un’attivista e combattente, una figura complessa e lontana dalla visione monolitica che i media ci presentano del «terrorista». 

«Fatiha è una donna, una donna palestinese forte e bella… E in quel campo Fatiha divenne una comunista o una socialista, e fu lì, sotto la guida di un vecchio medico libanese, che divenne un chirurgo militare e un terrorista bombardiere» (Maggiani 2005: 142). 

9788807885044_0_0_536_0_75Fatiha, come figura del romanzo, diventa un simbolo di resistenza e complessità, una figura che non può essere facilmente definita, ma che può essere compresa solo accettando la sua totalità, con tutte le sue contraddizioni. La sua trasformazione in «chirurgo militare» e «terrorista bombardiera» avviene in un contesto che non è solo politico, ma anche profondamente umano. Fatiha, pur portando il peso della violenza e della rivolta contro un sistema che considera colonialista, è anche una donna che si confronta con le proprie esperienze interiori, con la propria femminilità e con le sue contraddizioni. Maggiani ci invita così a riflettere su come le stesse azioni possano avere significati diversi a seconda della prospettiva da cui vengono osservate, e su come il concetto di “giustizia” possa essere relativo e contestuale.  In un’epoca in cui i conflitti mediorientali sono spesso descritti in termini di “noi” contro “loro”, Maggiani ci offre dunque una visione più complessa e sfumata, dove la figura di Fatiha non può essere ridotta a un semplice stereotipo, ma è il risultato di una complessa intersezione di storie personali, culturali, politiche e sociali. In questo senso, Il coraggio del pettirosso diventa un’opera che è anche un’opera di riflessione sulla pluralità, sull’ambiguità e sulla necessità di accettare la molteplicità delle identità umane.

giufa-4-1024x484Conclusione

A sfogliare dunque le opere del Novecento, la letteratura italiana ha attraversato una fase di rielaborazione dell’immagine dell’Oriente, in particolare del mondo arabo, partendo da un’eredità di stereotipi coloniali per giungere a una riflessione più complessa e sfumata. Se da un lato la letteratura di viaggio e la tradizione levantina hanno continuato ad alimentare l’immaginario esotico e la fascinazione per l’antico Egitto, dall’altro nuove prospettive hanno iniziato a emergere, più consapevoli delle problematiche legate alla rappresentazione delle culture straniere. Autori come Fausta Cialente, Enrico Pea e Giuseppe Ungaretti hanno contribuito a smantellare l’immagine monolitica dell’“arabo” e a restituire al lettore una visione più umana, articolata e critica delle relazioni interculturali.

Con l’avanzare della letteratura postmoderna, la ricerca di una narrazione pluralistica e frammentata ha accentuato la necessità di riscoprire e valorizzare le tracce lasciate dalle civiltà arabe in Italia, come dimostrato dalla riflessione di Sciascia sulla memoria storica siciliana. Con l’avvento del pensiero post-modernista, le barriere tra culture diverse sembrano svanire, per accettare una visione totale dell’Altro, ricercando l’umanità dell’incontro, come leggiamo in Umberto Eco e Maurizio Maggiani.

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
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Mila Fantinelli, dottoranda presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, in Linguistica e Letteratura Araba, e research assistant presso European Youth Think Tank. Ha terminato la magistrale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore in Scienze Linguistiche per le Relazioni Internazionali, dove ha studiato arabo, inglese e turco. Inoltre, ha ottenuto un master dall’American University del Cairo in lingua e cultura araba. Oltre a pubblicazioni in ambito giornalistico e culturale, in lingua italiana, inglese e araba, ha scritto di letteratura araba contemporanea. Dal 2024, lavora come mediatrice culturale per favorire la comunicazione arabo-italiano.

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