La Pasqua cristiana con le sue ascendenze bibliche possiede indubbie connotazioni di pace che però appaiono stridere con l’attuale situazione del mondo, o con la cognizione del mondo tout court, quello che ricade dentro la nostra consapevolezza storica. C’è una evidente contraddizione tra la cronaca di morte che ci raggiunge assuefatti e l’incredibile ed eccedente messaggio di vita che l’annuncio cristiano contiene quale sua inalienabile verità. Una verità che però non si propone come oggetto della mente, così come una tradizione filosofica ci ha abituati a considerarla, un concetto che si trasmette con la parola e la parola che conia nuovi concetti.
Una verità, quella cristiana, che non contempla Dio in sé, cosa che è fuori dalla nostra sfera razionale, ma Dio in colui che si è definito “Figlio dell’uomo”, annientato dal potere, in contraddizione con la storia in cui s’è calato; e lo contempla come fine, come senso ultimo di tutte le cose. Anche della morte, al cui fondo egli è sceso, punto apicale del suo paradosso kenotico, per inverare nella sua esistenza il passaggio del Mar Rosso della morte e approdare così alla Terra promessa della vita. Tale verità cristiana, essenziale al kerigma evangelico, scavalca il punto d’arresto di tutte le filosofie davanti alle questioni del finire e del morire. Ogni tentativo metafisico di costruire una spiegazione ulteriore, ultraterrena dell’universo, è stato vano; tutt’al più ha rappresentato l’ansia insoffocabile che alberga nel fondo dell’esserci in cerca di punti fermi su cui poggiare la propria avvertita immortalità e che nessuna teoresi riesce a confortare, probabilmente per la mancata connessione tra il concetto e il fatto. Se non consideriamo il fatto il concetto non significa nulla, e se togliamo il concetto come momento mentale dell’esperienza il fatto è un dato empirico tra tanti, in sé insignificante.
La Risurrezione come pleroma dello scandalo dell’incarnazione non può essere ridotta a mero concetto dogmatico ad uso di addetti ai lavori o di iniziati più o meno avveduti; la sua intenzionalità esistenziale è amplissima, si estende all’umanità intera; è tesa a raggiungere “tutte le nazioni” e ad incidere sulla vita mortificata per diventare un fatto, un corpo reale capace di dare la pace al mondo ma non alla maniera del mondo. E trova la sua concretezza nel fatto storico preliminare alla Risurrezione, l’evento della Croce senza il quale è svuotato il valore salvifico universale della Pasqua e il messaggio di pace che ne scaturisce. Perché il messaggio di pace che attualmente se ne trae, pregno di simboli ancora infranti, di riti ascritti a folklore, di feste registrate nei calendari della speculazione commerciale, nulla dice della drammaticità della Pasqua, scaturita dal duello tra la morte e la vita, come canta la sequenza liturgica, né della pace come dono del Risorto, sua prima parola al mondo ridotta a concetto insignificante sulle labbra del mondo, non escluse quelle dei cristiani.
Proprio per questo “la Pasqua della pace” deve essere il transito esodico del concetto di pace in cerca di relazione ontologica col fatto scandaloso che lo ha originato: la Croce come “manifestazione” di “questo mondo” il cui obiettivo è l’omicidio. E il mondo, nel linguaggio biblico, è l’organizzazione di coloro che hanno acquisito il potere, con la forza, la paura, l’inganno, l’astuzia, e fanno uno sciagurato patto con la morte seminando morte. Con linguaggio politico si possono identificare con i poteri costituiti che hanno per legge l’affermazione di sé e il dominio del mondo, per l’obbedienza ad un istinto di morte immanente all’ideologia stessa del potere e senza il quale il potere non si regge, non considerando l’ineludibile necessità dell’esserne annientato, perché morte genera morte. Ciò nonostante i poteri di questo mondo, mentendo, dicono di essere per la vita e per la pace che riducono a concetti puri, dia-bolizzati dalla realtà che si rivela antitetica alla stessa loro consapevole menzogna, che è morte essa stessa. Nel vangelo di Giovanni Gesù afferma che il diavolo «è stato omicida fin dal principio e non si è attenuto alla verità, perché non c’è verità in lui» (Gv 8, 44). E afferma così l’ontologia mortifera della menzogna.
Ora, per realizzare il transito pasquale della pace, i cristiani non possono e non devono imporre al mondo il credo nella risurrezione di Cristo; in passato lo hanno fatto con la forza degli eserciti, contraddicendo il valore autentico della loro fede nel fatto che il sepolcro è stato trovato vuoto e che un morto è stato restituito a nuova vita. Se ciò è un’evidenza di fede è anche un’aporia della ragione. Ma i cristiani lo hanno fatto falsificando il dono della pace che quella vita nuova recava in maniera irrevocabile a sintesi dell’operato e dell’insegnamento di Gesù di Nazareth che l’aveva edificata collegandone il concetto alle opere, ai fatti della sua vita registrati dai vangeli, evidenziandone il significato autentico col suo stesso vivere; e mai alterandolo, pagando anzi tale coerenza con la sua morte. Purtroppo col passare del tempo anche ciò che si riteneva fosse fede si è adattata ai princìpi di questo mondo, che sono sempre princìpi di violenza. In quello stesso momento è avvenuta l’esclusione definitiva di ogni pretesa del potere di portare la pace nel mondo e il cristianesimo non è stato più identificato, fino al presente, come “novità” e forza di smantellamento delle strutture di morte, ma solo con la statica conservazione di strutture antiquate e di dogmi anacronistici.
Al giorno d’oggi, tuttavia, i cristiani possono mostrare al mondo, a loro discolpa, non una serie di dogmi di fede ma il” fatto” storico della Croce, simbolo col quale il cristianesimo viene ancora identificato e per tali ragioni avversato. Simbolo scomodo e inquietante che molti pretendono di cancellare dall’iconografia culturale, non si sa se per conscia o inconscia consapevolezza che nella Croce col suo Crocifisso si riassume il dramma non ancora concluso della cattiveria umana. L’evento storico della Croce infatti è stato ed è ancora “spettacolo” davanti al quale ci si deve “battere il petto”, stando alla narrazione dell’evangelista Luca (cf. Lc 23, 48), in quanto è la rivelazione che il potere è omicida per intima costituzione e che il sangue di Cristo è la pienezza di una manifestazione d’amore che proprio nella sconfitta svela la menzogna e la crudeltà dei suoi carnefici: svela la disumanità del potere e la rende impotente nel senso che le toglie la capacità di pervadere l’anima, di penetrare nella coscienza, di diventare una “religione”. C’è infatti una religione del potere, con i suoi miti, i suoi riti, con una sua perversa teologia e un ethos rigido e disumanizzante organizzato con modalità coattive. Tale religione supporta i poteri forti, e può essere interna alle stesse religioni fondendosi in un blocco a vocazione teocratica e assolutistica. Tale religione pretende e promette di realizzare la pace, ma tale presunzione è contraddetta dai suoi apparati micidiali, dalle sue laiche e laide liturgie militari, dai suoi pronunciamenti dogmatici promulgati con arrogante cinismo che si avvalgono dell’aura religiosa per trarre in inganno le coscienze.
A tutt’oggi la pace non c’è, non viene, non si intravede all’orizzonte di questa nostra epoca in cui i progetti ideali dell’unità del mondo che abbiamo ereditato dal secolo scorso, dalla lezione amarissima delle due guerre mondiali, si vanno dileguando, contraddetti come sono da misure politiche anacronistiche che riconducono alla frammentazione, alla divisione, alla fomentazione dei conflitti di cui astrattamente si dice di volere il superamento. Ma tali atteggiamenti e situazioni sono nella logica delle cose, nella logica del potere che trova la sua forza nella manipolazione delle coscienze attraverso le forme più subdole di coazione, mutando assetti giuridici consolidati, forgiati e temprati dalla necessità storica, e imponendo sanzioni del tutto arbitrarie con autoritarismo autocratico. Un simile potere, però, com’è evidente, non è in grado di pensare alla pace, dovendo tenere a bada le contrapposizioni che sgorgano dal suo stesso seno e le contraddizioni immanenti alla sua stessa natura che lo costringono a vivere in uno stato di perenne belligeranza e di perenne allerta. Nessuno può dare ciò che non ha. L’impressione che si ricava da questo complesso disegno politico-culturale è quella di un assetto babelico del mondo in cui viviamo. Quasi che il mito biblico della confusione delle lingue corrisponda ad un progetto metafisico che voglia demolire alla radice quel peccato che nasce da una volontà di potenza improduttiva e distruttiva, autogena, per costringerla, col dato evidente della sua monadicità, alla traduzione impegnativa dei linguaggi nel rispetto delle diversità verso una reale e poliedrica unità. L’unità avviene tra diversi, non tra uguali; è ricchezza poliedrica che supera ogni omogeneità.
E invece sembra che stiamo assistendo al collasso degli slanci creativi della storia, nel ripescaggio di progetti del passato che si sono rivelati nefasti per il loro tempo e per il nostro presente. Senza nessun vaglio critico, senza una rigorosa ricerca delle cause che hanno generato i conflitti di cui siamo vittime e testimoni. Ci stiamo lasciando sovrastare dal caos sorto dalla situazione babelica, abdicando non tanto alla capacità, quanto almeno al desiderio di ricondurre il reale in tutte le sue sfaccettature dentro un progetto razionale da cui dedurre poi le singole scelte. Uno stato di confusione destinato ad aumentare perché l’umanità “intelligente” non ha ancora messo mano alla liquidazione delle presunzioni storiche.
Ci potrebbe essere d’aiuto in quest’opera quanto mai necessaria di decostruzione culturale, politica, religiosa, l’Intelligenza Artificiale, o i suoi parametri sono identici a quelli immessi nei suoi circuiti operativi dall’intelligenza perversa del potere? Il sospetto è fondato e inscritto nelle stesse sequenze della storia presente che circuitano ancora nel circolo vizioso dell’eterno ritorno dell’uguale di nietzschiana memoria, incapaci di trovare una via d’uscita dalla stagnazione antropica. Incapaci di trovare, nella Babele della linguistica culturale, un linguaggio comune obiettivamente indicativo della tragicità della situazione; c’è un impasse linguistico evidente nei colloqui delle trattative per la pace che durano da anni senza approdare a nessun risultato, senza trarre nessun significato dalla carneficina di centinaia di migliaia di morti provocati dalla guerra. Si avverte l’incapacità significativa di tali colloqui in assenza di dia-logo, di un senso reale secondo logos che attraversi le situazioni concrete e le sfrondi delle loro concezioni ideologiche. Ci si illude che parlando tutti in inglese ci si possa capire, ma la lingua comune, prebabelica, è sepolta sotto l’orgoglio del potere vero o presunto di ogni interlocutore che impedisce di recepire le ragioni dell’altro considerandole estranee alla proprie. Per cui una parola vera può suonare insulto alle orecchie dell’altro.
Come denominare ciò che è accaduto e continua ad accadere a Gaza? Guai a pronunciare la parola “genocidio” senza suscitare l’ira degli israeliani che ritengono quella parola applicabile in maniera esclusiva alla Shoah subita ad opera dei nazisti; ma il termine ebraico Shoah ha il significato di “catastrofe, distruzione” e basta guardare con sguardo non ideologico le condizioni attuali della Striscia di Gaza per potere in verità affermare la Shoah del popolo palestinese. Questa evidente significazione può meritare l’accusa di antisemitismo? Altra parola equivocata ed utilizzata in maniera esclusiva in direzione antiebraica e antigiudaica; ma la provenienza etnica araba dei palestinesi non li include forse nel novero dei semiti? È scorretto parlare di antisemitismo in riferimento al popolo palestinese? L’indifferenza dei potentati mondiali nei loro confronti non è una forma di antisemitismo identica a quella perpetrata nei confronti degli ebrei? Paradossale antisemitismo, bilanciato dal filosemitismo professato per lo Stato di Israele. Non diceva forse Hegel che contradictio est regula veri? E la verità si manifesta come lotta mortale tra due antisemitismi! Uno ritenuto ingiurioso, l’altro legittimato dalla connivenza con un sistema distruttivo che trova nella perennità della guerra i suoi vantaggi economici, e patrocinato da una nazione che pretende avere il monopolio della democrazia che, di fatto, ha esportato in tutto il mondo con il suo esercito.
È facile decostruire il mito della democrazia americana, come qualcuno ha già fatto, mostrando come da Cristoforo Colombo, passando attraverso il genocidio dei nativi “Pellerossa” e la legittimazione della schiavitù, fino al Ku-Klux Klan e al martirio di Martin Luther King, la storia americana è stata una storia di genocidi, di violenze e di razzismo. Questo per dire, secondo le conclusioni del filosofo Paolo Ercolani, che l’America di Trump e Musk non proviene dal nulla né è il mostro osceno di un tempo inaudito, ma solo l’altra faccia di quella che nella Storia ha saputo essere la democrazia più entusiasmante ma anche l’impero razziale più feroce e spregiudicato. Prima di affibbiare patenti di nazismo a destra e a manca, bisognerebbe considerare che si tratta di un “male radicale” sempre presente in quel “legno storto” che è l’uomo, rifacendosi alle parole di Immanuel Kant [1].
Per focalizzare tale verità qualcuno recentemente ha proposto di decostruire anche la retorica della sicurezza e della difesa ad oltranza reclamate da Israele, che con tale pretesa cela la più cinica strategia di «espropriazione delle risorse palestinesi, l’uso della finanza, della forza lavoro in una perversa compenetrazione tra colonizzato e colonizzatore in violazione dei diritti internazionali». E ci si riferisce a quei circa «due milioni di palestinesi cittadini di Israele – i cosiddetti “arabi del 1948” – i quali sono sì parte dell’economia israeliana, ma anche oggetto di strutturali quanto specifiche pratiche di razzismo sistematico e sfruttamento» [2]. È la denuncia di una situazione non nuova sulla quale s’è cercato di distrarre l’attenzione delle intelligenze. Nel 2003 Raniero La Valle la sollevò analizzandone nel dettaglio i termini e invocando proprio l’ausilio dell’intelligenza:
«Senza un lavoro dell’intelligenza, c’è lavoro solo per militari e kamikaze, e la questione non si può risolvere: ciò che non va bene per i palestinesi e per noi, ma che va bene per chi, in Israele ritiene che non debba esserci soluzione, perché qualunque soluzione praticabile oggi non corrisponderebbe all’attuazione integrale del progetto sionista. E’ per questo che l’intelligenza è d’intralcio, e nello stesso Israele il dibattito culturale languisce, sommerso dal dilagare della guerra e soffocato dalla paura di un nemico peraltro continuamente aizzato, mentre anche gli intellettuali israeliani che vedono l’abisso non riescono a pensare fuori dalla logica che lo produce» [3].
Più di vent’anni dopo, Raniero La Valle, nel suo libro Gaza delle genti, è tornato sulla questione dell’intelligenza in relazione all’incremento del “disastro” a Gaza, imputandolo stavolta all’Intelligenza Artificiale impiegata da Israele a Gaza, con un sistema che «si chiama Habsora (che vuol dire “Vangelo”) per rendere più performante e rapida l’ecatombe palestinese»; una macchina «capace di generare 100 nuovi bersagli ogni giorno […] Oggi quindi la “Combat effectiveness” raggiunta con il “Vangelo” è oltre 300 volte rispetto a pochi anni fa». Oltre lo scempio compiuto a Gaza, il rischio che si corre è quello «di una progressiva ibridazione del sistema militare-industriale con il sistema economico-sociale, con effetti devastanti sull’intera figura della società» [4]. L’Intelligenza Artificiale risponde dunque bene alla soluzione di problemi tecnici, è utile al potenziamento di apparati tecnici di ogni tipo, anche quelli bellici; ma non essendo dotata di coscienza non può valutare i risultati delle azioni che scaturiscono dal suo utilizzo. Queste sono appannaggio esclusivo dell’essere umano che l’ha creata e può manipolarla nel bene e nel male. L’ha creata “a sua immagine e somiglianza”.
Quali esiti di pace si possono sperare da questa inquietante situazione? Il potere che muove i fili del teatro globale delle marionette deve in qualche modo rispondere alle corali richieste di pace che si levano da ogni angolo del mondo, deve almeno far credere che impegna tutte le sue energie in tal senso, mentre nasconde la sua ipocrisia dietro slogan vacui quanto le sue promesse. Non si sentono più parole chiare in politica, solo parole usurate per il cattivo uso che se n’è fatto: libertà, giustizia, democrazia, pace… Si cerca di inculcare il concetto che la pace sia assenza di guerra, mentre dovremmo sapere che la pace è ben altro, molto di più. Si pensi al romanzo poco conosciuto e uscito di scena da molto tempo che George Orwell pubblicò nel 1949, il cui titolo è una data a venire: 1984. Una data lontana da lui che morì nel 1950; ma avrebbe potuto intitolarlo benissimo 2025 dato che Orwell profetizza su un triste stato dell’umanità le cui connotazioni sono attuali nel nostro tempo. Un tempo, il distopico 1984, in cui la pace nel mondo è affidata al terrorismo del “Grande fratello”, del “capo” che tutto sorveglia, anche le coscienze e le tiene tranquille.
Dopo aver pubblicato nel 1945 il più celebre romanzo allegorico La fattoria degli animali, dove la loro rivoluzione contro la tirannia degli umani si conclude con l’ascesa al potere dei maiali, cosa che si rivela più disastrosa della precedente situazione, Orwell descrive con 1984 un mondo a venire diviso in tre grandi aree di influenza con caratteristiche da impero, dove si instaurano nuove forme di vita sociale basate sul controllo capillare della vita delle persone. In questo “nuovo mondo” suddiviso per classi in base al maggiore o minore indice di fedeltà al potere, l’unica forma di pensiero ammissibile è il “bispensiero”, consistente nel rigettare la logica e credere simultaneamente a due affermazioni tra loro contrarie, in modo da non cogliere contraddizioni o falle logiche presenti nella propaganda di regime. Viene introdotto anche un nuovo linguaggio in cui sono ammessi solo termini con un significato preciso e privo di possibili sfumature eterodosse, in modo che riducendone il significato ai concetti più elementari si renda impossibile concepire un pensiero critico individuale. Viene censurato quindi l’utilizzo di molte parole, convogliando tutti i termini sgraditi al potere (ad esempio “democrazia”) nel termine “psicoreato”. La stessa parola “psicoreato” va ben oltre il divieto di esprimersi e si spinge a vietare anche solo di concepire pensieri o provare emozioni non in linea con gli standards consentiti. I contenuti di libri, giornali, film e documenti vengono riscritti continuamente, rimuovendo tutto quanto non sia in linea con le idee del momento. Poesie, canzoni e romanzi vengono realizzati automaticamente da complessi macchinari elettromeccanici detti “versificatori”, in base a schemi predefiniti. Tra le tante attività vietate rientra anche quella di tenere un diario, perché non sarebbe aggiornabile dal governo e quindi potenzialmente pericoloso per la “verità”. Eliminata così ogni possibilità di conflitto la pace è assicurata. Una pace meccanica che uccide la libertà.
Aveva ben previsto, Orwell, l’avvento di quella cancel culture che ora, nel 2025, negli Stati Uniti sta facendo rivivere i fasti nefasti delle culture totalitarie che hanno sempre usato procedimenti simili nello scorrere perpetuo dell’eterno ritorno dell’identico. Nella “democratica” America si sta facendo guerra all’intelligenza coartando le attività di ricerca delle Università, si è approntato un lungo elenco di parole “sconvenienti” da non più utilizzare nei documenti ufficiali ed è ricomparso persino l’indice dei libri proibiti, tra i quali naturalmente figura anche il 1984 di Orwell, per il semplice motivo che de te fabula narratur. Tutto ciò è molto inquietante, mostra con molta evidenza come il potere tema l’intelligenza più d’ogni altro potere armato. Dovremmo rifiutarci di credere che dopo secoli di ricerca intellettuale e spirituale l’umanità possa stare ancora seduta e in catene al fondo della caverna platonica, scambiando le ombre per realtà. Eppure bisogna ricredersi molte volte. Una umanità captiva, cioè prigioniera di ombre che obnubilano la coscienza, impedendole di dare libero assenso alla verità testimoniata da tanti che sono riusciti a liberarsi e a salire verso la luce, i molti che hanno testimoniato la luce e non sono stati creduti e sono stati uccisi come sovversivi, perturbatori della doxa.
La Pasqua della pace non può che essere il transito verso la luce che illumina l’evidente, lo rende vivo, tangibile allo sguardo, integrale spettacolo del mondo devastato dall’ignoranza, da tutte quelle forze culturali che portano sempre con sé un quoziente di coazione che soffoca la rettitudine del giudizio e la libertà fondata sull’autonomo consenso di una coscienza sempre vigile su se stessa, attenta a non accogliere in modo immediato e acritico i dettati che sorgono dal suo fondo, ma capace di giudicarli col discernimento che vaglia le cause dei fatti e non solo le interpretazioni. Nietzsche affermava che «non ci sono fatti, solo interpretazioni» [5]; per i cristiani il discernimento consiste nel trovare la luce divina che alberga nel profondo della coscienza, sigillo indelebile della Sua immagine, che orienta e parla con parola «viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio che penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). Una pace che passi attraverso il consenso della coscienza al reale, contemplando il reale con gli occhi di Dio, può verificarsi solo passando per la porta stretta dell’amore, ove ogni ingombro del sé deve essere abbandonato per coerenza con la logica pasquale: passare dalla chiusura del sepolcro agli spazi infiniti della vita!
Il transito pasquale della pace non è però primariamente un atto religioso esclusivo dei cristiani, né il varcare “la porta stretta dell’amore” deve intendersi in maniera idealistica o ascetica; queste immagini devono cogliersi come proposta cristiana fatta a tutti coloro che amano calarsi nell’intelligenza del reale, nell’aderenza ai fatti come accadono veramente, «alla realtà di chi cade vittima del tradimento, dell’abbandono, della persecuzione, della cancellazione, della dimenticanza», come ricorda Giuseppe Fornari nel suo dialogo con Mauro Ceruti trascritto nel libro Le due paci [6]. Di chi cade vittima della frode ideologica, della speculazione economica, delle labirintiche trame politiche, del potere arbitrario falsamente sacralizzato, della retorica a buon mercato, della coltivazione dell’ignoranza, di tutto ciò che, in una parola, espropria l’essere umano della sua dignità inalienabile privandolo dei diritti che tale dignità reclama, riducendolo allo stato “vittimario”, ridotto cioè con atto coattivo all’impossibilità di muoversi, di ribellarsi al carnefice. Perché la vittima viene fiaccata, immobilizzata, inchiodata allo strumento del suo supplizio. La proposta cristiana, tenuto conto della ciclicità viziosa di tali processi rilevabili nella storia, si propone come punto di rottura che porta alla luce la sorte delle «vittime nascoste in ogni storia dell’uomo, non per distruggere queste storie, quanto per farle rivivere senza più vittime e senza più carnefici», proponendo la bellezza di «un’umanità di uomini liberi e uguali, di persone adulte capaci di rispettarsi ed amarsi». E lo può fare solo perché al cuore della sua fede «c’è un uomo innocente crocifisso da noi» [7].
La proposta cristiana è una prospettiva che focalizza la realtà e la centralità della vittima, di ogni vittima storicamente individuata a partire dalla vittima per eccellenza, la vittima archetipa: Dio. Ciò che rappresenta l’asimmetricità assoluta del cristianesimo nel campo delle religioni. Nel loro dialogo articolato Ceruti e Fornari interpretano la “morte di Dio” denunciata da Nietzsche con categorie girardiane. La complessa analisi di Renè Girard sui processi vittimari e il capro espiatorio fa da griglia ermeneutica alla denuncia folle di Nietzsche, non per depotenziarla ma per confermarla nella sua portata profetica che recò sgomento non solo agli uditori di ieri e di oggi, ma allo stesso filosofo la cui ratio non riuscì a sopportarne il peso a lungo. E neanche la cristianità di ogni tempo ne ha sopportato il peso paradossale, mentre la tesi è che proprio a partire dalla “morte di Dio” la Chiesa e la fede cristiana hanno avuto il loro inizio. È dalla follia della croce di cui parla Paolo che Nietzsche parte per mettere in scena l’uomo folle che annuncia la morte di Dio. E Nietzsche non si riferisce, così come legge una consueta esegesi, ad una scomparsa metafisica; dichiara che è morto uno che prima era vivo, perché «noi lo abbiamo ucciso».
Questo non fa altro che confermare la concretezza del concetto di kenosis in Paolo, come «riferimento all’evento più reale e più fisico del credo cristiano, cioè all’incarnazione di Dio, e di conseguenza al suo essere la vittima in carne ed ossa della violenza degli uomini» [8]. Questo, Nietzsche lo comprendeva bene e ne restava sconvolto: la morte di Dio per lui rappresentava il sacrificio delle antiche e mitiche divinità pagane, del suo amato Dioniso, e l’impossibilità di ripeterlo perché la violenza collettiva sofferta e accettata da Cristo non è un mito ma un fatto storico «che rovescia tutte le rappresentazioni umane, ne dimostra l’origine, e così facendo le porta per la prima volta alla verità: mentre prima abbiamo un’interpretazione falsa, quella della colpevolezza della vittima, che viene scambiata falsamente per un fatto vero, ora abbiamo un fatto vero che contiene in sé la sua interpretazione vera, l’unica possibile. La morte di Cristo risponde alla definizione medievale di verità: index sui et falsi, ovvero indice di se stessa e del suo contrario, la falsità del mito, la falsa rappresentazione dei persecutori» [9].
L’evidenza della verità della croce di Cristo rompe il cerchio dell’eterno ritorno del falso, non nel senso che il falso non tenti più di tornare e di fatto non ritorni con le sue esecuzioni dei capri espiatori, ma nel senso che la luce della verità immanente allo spectaculum crucis ne disvela la malvagità dall’unico punto di vista vero, quello della vittima perfettamente innocente come Cristo. Chi non si pone dal punto di vista cristico si mette dalla parte di Dioniso che incita a sempre nuovi sacrifici, senza considerare la malvagità, la menzogna e la responsabilità immorale dei carnefici convinti della colpevolezza e mostruosità della vittima. In tal senso il cristianesimo si presenta come il principio destrutturante tutti i culti arcaici, mentre la rimemorazione evangelica dell’azione esistenziale di Cristo ha accresciuto la consapevolezza antropica sulla posizione persecutoria e vittimaria assunta dalle culture umane nel corso dei secoli.
Tale consapevolezza è stata connaturale al cristianesimo delle persecuzioni, precostantiniano, prima che diventasse la religione dell’impero; tuttavia gli è rimasta immanente per emergere nei momenti storici che hanno voluto allentare la costrizione dei vincoli religiosi, dogmatici e confessionali, fino al presente postmoderno e postcristiano alla cui coscienza affiorano, seppure con limpidità variabile, oltre alle vittime della Shoah anche quelle del genocidio palestinese, dei curdi in Turchia, le vittime delle ingiustizie sociali, delle persecuzioni politiche e delle molte guerre che mettono in marcia i popoli, le vittime del capitalismo, del disastro ecologico, delle discriminazioni razziali, sessuali, religiose… Un cumulo di problematiche che sembrano rendere utopico il transito pasquale della pace in bilico tra «una Realpolitik cinica e spregiudicata e il sogno del regno di Dio sulla terra» per dirla con Mauro Ceruti [10]. «Questa tragica situazione non può essere rettificata in dieci minuti», per dirla con Thomas Merton che si pronunciava, al tempo della guerra fredda e della guerra del Vietnam, per un disarmo totale e immediato con i suoi scritti infuocati dalla clausura monastica ostracizzati dalle autorità politiche e censurati dalla chiesa americana [11]. Nel preambolo di quello che quarant’anni dopo la sua morte sarà il suo libro La pace nell’era postcristiana, scrive:
«Dobbiamo affrontare il fatto che la guerra non è solo il prodotto di cieche forze politiche, ma di scelte umane, e se ci stiamo avvicinando sempre più alla guerra è perché è quello che gli uomini stanno liberamente scegliendo di fare. La brutale realtà è che sembriamo preferire le misure distruttive: non che amiamo la guerra in sé e per sé, ma perché siamo ciecamente e disperatamente coinvolti in bisogni e atteggiamenti che rendono la guerra inevitabile» [12].
In quel contesto non dissimile dal nostro, caratterizzato «da una politica internazionale basata sulla deterrenza nucleare e sull’imminente possibilità del suicidio globale» Merton invitava il mondo intero ad affrontare scelte coraggiose e controcorrente, per le quali l’azione cristiana avrebbe dovuto essere d’esempio e di monito. Ai cristiani rimproverava di aver abbandonato, nel corso dei secoli «l’ideale primitivo della pace e dell’azione non violenta» finendo per accettare «con completa docilità, opinioni e decisioni che recano l’impronta della legge della giungla piuttosto che quella del vangelo», sottomettendosi senza nessun turbamento di coscienza a tali direttive e dimenticando completamente le norme di giustizia e umanità:
«È un peccato che uno spirito di legalismo minimalista abbia distorto, in passato, le prospettive cristiane sia dei laici che del clero. Così abbiamo a volte permesso alle nostre coscienze di accontentarsi dell’ipocrisia e dei discorsi spirituali inutili, “filtrando i moscerini e ingoiando i cammelli”» [13].
Ricordando che ciò che lo aveva gradualmente condotto ad assumere responsabilmente l’impegno della denuncia della grave situazione epocale erano stati «il dovere dello studio incessante, della meditazione, della preghiera e di tutte le forme di disciplina spirituale e intellettuale», poteva permettersi di dire:
«Non abbiamo certo bisogno di una spiritualità pseudocontemplativa che pretenda di ignorare completamente il mondo e i suoi problemi e si dedichi apparentemente alle cose di Dio senza interessarsi alla società umana. Ogni spiritualità cristiana autentica, persino quella del contemplativo cristiano, si occupa e deve sempre occuparsi profondamente dell’uomo, perché “Dio si è fatto uomo perché l’uomo potesse diventare Dio” (Ireneo di Lione). Lo spirito cristiano è quello della compassione, della responsabilità e dell’impegno. Non può rimanere indifferente alla sofferenza, all’ingiustizia, all’errore, alla falsità» [14].
Incisi di tale veemenza costellano le riflessioni del Merton monaco contemplativo, mentre scandalizzavano i benpensanti del suo tempo, gerarchie ecclesiastiche americane comprese. Ma a lui premeva rimettere in luce il fatto che il cristiano non può solo rallegrarsi interiormente per le parole e l’esempio di Cristo; deve piuttosto cercare di seguire Cristo radicalmente, «non solo nella preghiera e nella penitenza, ma anche nei propri impegni politici e in tutte le responsabilità sociali» [15]. Tutto ciò rappresentava per Merton parte non secondaria ma essenziale della verità del cristianesimo, parte trascurata da riculturare senza esitazioni al fine di instaurare una cultura di pace.
Perciò è possibile affermare che la Pasqua della pace è il trionfo della verità come “risurrezione della carne”. L’approdo del transito pasquale è alla risurrezione della carne martoriata dell’umanità che si sintetizza nel saluto del Risorto: «Pace a voi». Un saluto reso possibile per il fatto che anche l’impossibile si è reso possibile, non potendo essere escluso dalla natura della possibilità ed anzi costituendone l’assetto logico. Il transito pasquale di Cristo ha restituito alla pace tra gli esseri umani la possibilità di essere vera nella misura in cui tornano ad essere in pace con Dio, reintegrando, per suo mezzo, la loro impossibilità a farlo nel possibile di Dio. Infatti quando gli uomini sono in guerra non possono essere in pace con Dio, specie quando presumono di combattere in nome di Dio, rinchiudendolo nel limite angusto dell’umano possibile. Per cui è necessario e giusto chiedersi: Quale Dio? Per la fede cristiana il Dio che ha rianimato col suo Spirito il cadavere martoriato dagli uomini di Gesù di Nazareth che gli aveva consegnato il suo nello “spirare” (παρέδωκεν τὸ πνεῦμα, rese lo spirito, Gv 19,30) pur di non contraddire quel patto di pace universale che Dio aveva stipulato con l’umanità già al tempo di Noè, colui che era stato costituito modello di una umanità nuova in un mondo nuovo.
Per la storia di Noè la Bibbia usa il linguaggio del mito allo scopo di trasmettere qualcosa che sappia resistere al tempo, qualcosa che anche i lettori contemporanei possano comprendere. La sostanza di quel messaggio è che l’umanità, vittima di una corruzione dilagante, non è più in grado di realizzare il piano divino di popolare la terra nella pace e di vivere in armonia con il creato. Il mito ci restituisce la nostra drammatica attualità: l’alleanza con Noè, simbolizzata nella colomba col ramoscello d’ulivo nel becco sullo sfondo dell’arcobaleno, e le altre che seguirono furono puntualmente infrante dalla carne umana, dall’umanità carnale dimentica dello Spirito [16]. Solo Dio poteva rendere possibile l’impossibilità della carne di redimere se stessa, rendere impossibile la possibile e necessaria corruzione. La Risurrezione dell’uomo Gesù di Nazareth è la pasqua della carne rianimata dallo Spirito, della pace definitiva tra cielo e terra resa possibile nella carne stessa di Dio. Per i cristiani è la nuova ed eterna alleanza nella carne e nel sangue di Gesù di Nazareth, il Cristo di Dio ucciso dagli uomini. La morte di Dio era stata peraltro prefigurata nel quadro simbolico del mito di Noè nella figura dell’arcobaleno: arco cosmico che Dio non rivolge verso l’umanità per trafiggerla, ma verso il cielo, verso se stesso. Rendendo possibile l’impossibilità della trafittura della divinità. Nella trafittura della natura umana e divina di Gesù di Nazareth, nell’apertura del suo costato, Dio immette di nuovo il suo soffio di vita (il suo spirito) per renderlo ancora “essere vivente” (chayàh nèfeš come il “primo Adamo” in Gn 2,7), carne spirituale sottratta alla morte; poiché «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi [...]. La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap 1,13; 2,24) che provoca guerra suscitando ciò che gli è più proprio: la divisione.
Senza Spirito non c’è pace, perché la pace è lo Spirito di Dio. Si può proporre questa affermazione perentoria alla nostra contemporaneità che ritiene di essersi sbarazzata allegramente di Dio? Erede delle teorizzazioni dell’ateismo teorico e pratico che lo ritiene, seguendo la lezione di Feuerbach, una proiezione inconscia degli attributi umani, delle qualità e dei desideri dell’uomo stesso, riflesso, manifestazione di ciò che l’uomo desidera, teme e idealizza di sé? Erede di una conquistata laicità che agisce al presente non più secondo il non est Deus ma etsi Deus non daretur, anche se o come se Dio non ci fosse, innalzandosi così con Nietzsche al di sopra della “aurora boreale” delle illusioni con cui l’uomo abbellisce la tragicità del proprio esistere, come suggerisce il filosofo Paolo Ercolani che ha analizzato, in maniera inattuale e in controtendenza rispetto alle esegesi più soft, ma cogliendo nel segno, la teoria nietzschiana della “morte di Dio”, mettendone in luce un pensiero antiumano e nichilistico che si è fatto “carne viva e sanguinante” della odierna cultura. Ossia si è tradotto in procedure concrete (economiche, politiche, sociali e culturali), in grado di mettere a repentaglio la prosecuzione stessa della specie umana [17]. Sarebbe l’Übermensch, l’oltreuomo, il superuomo già in progetto nei cantieri dell’intelligenza artificiale e in via di realizzazione nel cyborg, mostruosa ibridazione di macchina ed essere umano? Ercolani si chiede come abbia potuto il “filosofo del male” per eccellenza ispirare il nazifascismo novecentesco e al tempo stesso innervare il “transumanesimo” odierno, cioè i due movimenti che più hanno lavorato o lavorano per la costruzione di una nuova umanità considerata di ordine superiore ma dai tratti decisamente per nulla umani. Eppure pare sia questa la direzione cieca verso la quale stiamo andando. In assenza dello Spirito, perché anche l’intelligenza è carne senza lo Spirito. «È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla» (Gv 6,63).
Paolo Ercolani si chiede inoltre quali elementi leghino il pensatore più inquietante di ogni tempo a figure come Steve Jobs, Larry Page e Elon Musk; o le teorie della «volontà di potenza» e del «superuomo» alla «superintelligenza» artificiale e ai robot; ma si chiede anche come individuare il modo con cui invertire il cammino apparentemente inesorabile che conduce alla morte dell’uomo. E pensa, arditamente, di cominciare dall’affermazione che «Dio è risorto!». Spunta così l’interrogazione ulteriore, in base a quanto è stato detto finora: quale Dio è risorto? Il Dio di Nietzsche non poteva risorgere poiché era quello che tra il XVI e XVII secolo aveva suscitato la laicità moderna, quando gli uomini si accorsero, dopo le guerre di religione, che il Dio delle chiese non era stato in grado di fondare non solo la pace sociale tra cristiani e non cristiani, ma nemmeno la pace tra i prìncipi e i popoli cristiani; un Dio in una chiesa non capace di universalità, incapace di aprirsi all’accoglienza, non in grado di fondare l’unità di una società che ormai doveva costruirsi come società di tutti, oltre ogni conflitto di confessioni e di fedi. Il Dio conosciuto da Nietzsche era il Dio della guerra, il Dio che rendeva gli uomini nemici nella disputa del potere che concedeva benedicendo gli uni e gli altri, «il Dio della trascendenza del potere che fonda il trono dei potenti e sequestra nei cieli i tesori dei deboli»; di lui la cultura moderna dirà che è la proiezione dei sogni di onnipotenza dell’uomo, e senza contraddizioni della volontà di potenza del superuomo. Di questa pseudotrascendenza Dietrich Bonhoeffer disse che era «un pezzo di mondo prolungato» [18].
Questo Dio senza pace è stato sconfessato da Gesù Cristo, è morto con la sua morte, e vive solo illusoria-mente in coloro che tentano di rivestirsi delle sue spoglie ormai disfatte tra gli orrori della storia, tra le macerie delle città rase al suolo. È risorto invece il Dio crocifisso nella coerenza estrema della sua volontà kenotica: un Dio che sente la sofferenza e subendo la sofferenza com-patisce con l’uomo fino alla morte. Ma questa morte non cancella la necessità che resti Dio, perché se non è Dio non può salvare, e se non salva l’umanità non ha speranza. Quando Jürgen Moltmann pubblicò nel 1972 Il Dio crocifisso, inserì una piccola nota biografica nella prefazione che traduceva il senso della sua teologia del Crocifisso: «era il momento in cui nelle aule universitarie facevano il loro ingresso, scossi e depressi, coloro che della mia generazione erano riusciti a sopravvivere nei campi di concentramento e negli ospedali militari. Una teologia che non fosse stata evoluta alla luce del Crocifisso, dell’abbandonato da Dio, a quel tempo non ci avrebbe toccati» [19]. Non credo ci troviamo adesso in una condizione diversa, mentre urge la necessità di ricordare anche ai cristiani che in questo Dio risiede l’unica speranza dell’umanità, casomai qualcuno pensasse di rendere culto alla divinità onnipotente della forza, della razza, della sovranità, della nazione, alla divinità degli assoluti dogmatici, degli idoli del denaro, della produzione, della tecnologia, della lotta al nemico e della guerra. Purtroppo «di questo Dio la società moderna non si è veramente mai liberata» [20] e della religione che ne è scaturita qualcuno, ancora, briga di farne un instrumentum regni.
Per concludere questa breve riflessione le cui implicazioni sarebbero passibili di altri sviluppi, si può indicare la sola direzione di cammino storico che il saluto del Risorto «pace a voi» comporta: che la Risurrezione non è un fatto di anime, ma incide nelle strutture del mondo, nella carne del mondo, in una prospettiva di pace, in quanto elimina tutti i condizionamenti che si frappongono alla comunione fra gli uomini, a partire da quello linguistico cui abbiamo accennato: la possibilità apparentemente impossibile che gli uomini si in-tendano invece di fra-intendersi. Lo Spirito del Risorto non è stato da Lui trattenuto come un dono esclusivo, quasi “preda da rapire”, ma effuso sui discepoli nell’evento pentecostale, antibabelico, dove tutti hanno potuto intendersi pur parlando lingue diverse. E l’in-tendere non è azione legata esclusivamente alla sensibilità o all’intelligenza, ma anche alla consapevolezza spirituale che c’è l’infinito, che c’è di più, che c’è un’altra cosa, che c’è l’amore, l’armonia, la pace. Sono parole che si possono intendere soltanto nella lingua dello Spirito che le traduce nella concretezza del corpo del Risorto, concreto in quanto a tangibilità empirica, con le cicatrici della passione che ne certificano l’identità, e trasfigurato fino a sembrare un fantasma e irriconoscibile agli occhi dei discepoli; corpo che cresce nella tensione al suo pleroma in attesa che tutti ne siano parte come carne vivificata e trasfigurata. Tutto ciò la Chiesa lo vive – o almeno dovrebbe – nella vita sacramentale che si è ridotta, purtroppo, a rappresentazione drammatica di fatti del passato, nell’incomprensione spirituale dei simboli; Raimon Panikkar affermava che
«il Corpus Domini è la festa del corpo, non dell’anima; è la festa della sofferenza del corpo dell’umanità, che suscita in noi la compassione per ogni creatura sofferente […] E per partecipare al sacrificio del sangue e del corpo di Cristo la condizione fondamentale è quella di sentire fame e sete di giustizia, di felicità, di vita per tutti, a partire dagli ultimi, dai minacciati, da chi è escluso dal banchetto della vita» [21].
La pace nella teologia paolina è «frutto dello Spirito», insieme ad «amore, gioia, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22); tutte questo virtù esistenziali per Paolo sono un unico frutto (Ὁ δὲ καρπὸς τοῦ πνεύματός), spicchi dello stesso frutto donato dal Risorto ai discepoli lo stesso giorno di Pasqua secondo la teologia giovannea, quando dopo aver detto loro per la seconda volta «pace a voi» soffiò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo» (cf. Gv 19, 20-22). Il dono dello Spirito è il sacramento che consacra quanti credono non in una verità di fede astratta ma nella possibilità offerta da Cristo di ri-animare il mondo agonizzante, secondo il progetto passionale di Dio di realizzare l’unità del mondo nella sua pace. Il che vuol dire che se si è cristiani secondo lo Spirito, in questo momento storico apocalittico che svela come non mai il male del mondo nella sua inumana globalità, ci si devono assumere molte responsabilità di carattere politico che siano una vera risposta alla misura del male che è sotto gli occhi di tutti e che trova nelle guerre il colmo della misura. Responsabilità che non sembrano essere prese sul serio da quanti vivono il cristianesimo “secondo la carne” e che si attribuiscono, paradossalmente, il nome di “spiritualisti”: credono di salvare il mondo mettendosi a pregare, lasciando che il mondo si disgreghi. Lo sapeva bene il contemplativo Merton: «La tragedia del nostro tempo non è tanto la cattiveria dei malvagi, quanto l’inerme vanità delle migliori intenzioni dei “buoni”» [ivi: 22].
Il vero contemplativo non è colui che abbandona il mondo guardandolo con distacco per occuparsi dell’integrità della sua anima; lo è piuttosto chi apre la sua anima al sacramento dello Spirito e toccando come Tommaso le ferite del Risorto si lascia da lui ispirare alla con-passione del mondo per l’edificazione del Regno di Dio, dove «misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno, la verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo» (Sl 84, 11-12). Di tali e tanti contemplativi c’è più bisogno che mai oggi, dentro e fuori la Chiesa, visto che la Chiesa non ha il monopolio dello Spirito che invece parla spesso anche per bocca dei lontani, solleva profeti che non hanno il colore della nostra pelle, non parlano la nostra lingua e spesso puntano il dito contro di noi che quando pensiamo al futuro del mondo lo pensiamo a partire dai livelli di consumo e di guadagno che abbiamo realizzato ai danni dei meno privilegiati del pianeta, a cui abbiamo rubato “terre rare”, materie prime e forza lavoro per creare la base del nostro benessere e delle nostre democrazie armate. Abbiamo bisogno di uomini e donne che si lascino muovere dallo Spirito in direzione di una umanità nuova che succeda a quella invecchiata nell’egoismo e nella guerra, dove la misura dell’uomo è passata attraverso la condizione della sua abiezione.
Possiamo ancora sperarla questa umanità nuova che sgorghi dalle cicatrici di Gesù che ha distrutto in sé l’inimicizia, ha abolito le barriere delle nostre presunzioni e ogni nostra pretesa di dominio sul mondo e sulle coscienze? Non ci sia tolta questa speranza! Per i cristiani si regge sulla fede in Lui che ha distrutto in sé l’odio e i muri che separano gli uomini, facendosi ponte (unico vero Pontifex) di inclusione per condurre tutti allo spazio infinito del suo amore. Questa fede i cristiani possono annunciarla, facendosi operatori di pace, a quanti nutrono il desiderio di oltrepassare l’attuale condizione umana aprendosi allo Spirito che soffia dove vuole. Non si può descrivere con le parole questo desiderio umano di immergersi in una realtà più alta, più bella, più vera… divina: Trasumanar significar per verba/ non si poria…» (Par. I, 70-71) dice Dante descrivendo l’esperienza mistica del suo viaggio spirituale che gli ha fatto sperimentare l’essenza divina.
Trasumanare! Il neologismo dantesco è molto diverso dall’attuale transumanesimo meccanicistico e dall’ Übermensch nietzschiano, che corrispondono alla tendenza indomita dell’uomo a costruirsi, nella vita e nei rapporti con gli altri come “Signore”, seguendo la linea diabolica della volontà di potenza: «Sarete come dei» fu detto, e così continua ad essere ripetuto. Trasumanar vuol dire continuare ad essere uomini, con la consapevolezza del proprio limite e di una natura dialogale, aspirando alla divinizzazione, possibile in quanto «Dio si è fatto uomo perché l’uomo divenga Dio». Passaggio che è già praticabile al presente per chi si apre all’azione dello Spirito che concede di celebrare la liturgia della Pasqua della pace.
Oggi tale liturgia pasquale è celebrata da papa Francesco, del cui transito felice al cielo apprendo mentre concludo questi brevi pensieri che sono a lui dedicati, perché al suo alto magistero si sono ispirati. A lui il mio grazie per quanto mi ha insegnato con le parole e con la vita in questi anni in cui ha guidato la barca di Pietro. Ora gode di quella pace che ha tanto invocato in terra. Continui a pregare così che il mondo la ottenga.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Per l’analisi dettagliata di quanto qui riportato sinteticamente, cf. P. Ercolani, Figli di un Io minore. Dalla società aperta alla società ottusa, Marsilio, Venezia 2019: 172-183.
[2] C. Capelli, Neoliberalismo di guerra in Israele e Palestina. Le implicazioni economiche dell’occupazione, in A. De Lellis – R. Placido – S. Risso (a cura di), Uscire dalla guerra, per un’economia di pace, Cittadella ed., Assisi 2023: 75; 77.
[3] R. La Valle, Prima che l’amore finisca. Testimoni per un’altra Storia possibile, Ponte alle Grazie, Milano 2003: 272.
[4] R. La Valle, Gaza delle Genti. Israele contro Israele, Bordeaux ed., Roma 2024: 151.
[5] Cf. F. Nietzsche, Opere complete, vol. VIII, Frammenti postumi 1887-1888, Adelphi, Milano 1971: 299.
[6] M. Ceruti – G. Fornari, Le due paci. Cristianesimo e morte di Dio nel mondo globalizzato, Raffaello Cortina ed., Milano 2005: 186.
[7] Ivi:185; 189.
[8] Ivi: 77.
[9] Ivi: 139-140.
[10] Ivi: 215.
[11] La lunga storia della censura degli scritti di Thomas Merton sulla pace l’ho raccontata nel mio libro Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2018.
[12] T. Merton, La pace nell’era postcristiana, Qiqajon Comunità di Bose, Magnano 2005:74-75.
[13] Ivi: 241.
[14] Ivi: 238.
[15] Ibid.
[16] Nella Bibbia carne, “bâśâr”, non è solo la sostanza materiale dell’essere umano, ma il suo modo di esistere davanti a Dio, la sua debolezza naturale di creatura.
[17] P. Ercolani, Nietzsche l’iperboreo. Il profeta della morte dell’uomo nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Il Melangolo, Genova 2022.
[18] Cf. R. La Valle, Prima che l’amore finisca, cit.: 150.
[19] J. Moltmanna, Il Dio crocifisso, La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Queriniana, Brescia 2013: 7.
[20] R. La Valle, Prima che l’amore finisca, cit.: 151.
[21] Cit. in R. Luise, Raimon Panikkar. Profeta del dopodomani, San Paolo, Cinisello Balsamo 2011: 326.
[22] T. Merton, La pace nell’era postcristiana, cit.: 201.
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Leo Di Simone, teologo, scrittore, liturgista, esperto di musica liturgica e di arte sacra, è Interlocutore Referente presso la Pontificia Accademia di Teologia (PATH). Ha insegnato Antropologia culturale e Liturgia presso la Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo), l’Istituto di Scienze Religiose di Mazara del Vallo e l’Istituto Teologico di Scutari (Albania). È presbitero della Diocesi di Mazara del Vallo, docente e Direttore della Scuola Diocesana di Teologia e della Biblioteca diocesana. Nella stessa Diocesi coordina il progetto “Operatori di pace” e dirige l’Ufficio Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso. Attualmente è anche Referente diocesano per il Sinodo. Tra le sue pubblicazioni, si segnalano i seguenti volumi, editi da Feeria (Panzano in Chianti – Firenze): Liturgia secondo Gesù. Originalità e specificità del culto cristiano. Per il ritorno a una liturgia più evangelica (2003); Vexilla Regis. La croce dipinta di Mazara del Vallo. Icona pasquale della liturgia (2004); Beato Angelico. L’estetica del Verbo incarnato (2004); Le rotte dei Misteri. La cultura mediterranea da Dioniso al Crocifisso (2008); Liturgia medievale per la Chiesa postmoderna? La questione del “rito antico” nel racconto del “rito romano” (2013). Ha curato, per i tipi de Il Colombre, il volume Trasfigurazione. La Basilica Cattedrale di Mazara del Vallo. Culto Arte e Storia (2006). L’ultimo suo volume è un saggio biografico su Thomas Merton: Il romanzo di Thomas Merton. Un umanista cristiano nell’era postcristiana, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani (2018). Nel campo dell’innografia liturgica ha pubblicato con le Edizioni Paoline due volumi di inni: O fonte della luce; O Cristo splendore del Padre.
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