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La musica dei minatori: memorie, proteste e rivendicazioni identitarie

Minatori di carbonia (ph. Federico Paternali

Minatori di Carbonia (ph. Federico Patellani)

di Sonia Salsi 

Le parole dei loro canti trovano echi nelle loro memorie emotive, e sono questi echi che ci vengono comunicati, e che costituiscono il fascino delle loro esecuzioni. E per quanto il canto di tradizione orale possa apparire impoverito, soffocato e ripiegato su se stesso, se riesce a fare questo riesce ad assolvere appieno alla sua funzione di vera voce del popoli (Bruno Pianta)

Introduzione 

La canzone sociale, secondo la definizione data da Gianni Bosio nel 1963, include le tipologie di canzoni come i «canti di protesta, di denuncia, di affermazione politica e ideologica, di resistenza, di contrapposizione […] propri o in funzione delle classi lavoratrici»[1]. Osservare la nascita della canzone sociale nei contesti minerari rappresenta un fertile terreno di ricerca, non solo all’interno di un singolo territorio nazionale, ma possiede un prezioso valore euristico in funzione comparativa.

All’interno dei luoghi industriali carboniferi, oltre a scavare la terra, i minatori furono generatori di musiche. Musiche che nel tempo furono studiate da etnomusicologi, antropologi e sociologi. Numerosi cantanti provenienti dai luoghi carboniferi raccontarono attraverso le canzoni il lavoro, la protesta e la denuncia contro le ingiustizie subite dai padroni delle miniere. Interpretare il canto dei minatori, sia dal punto di vista testuale che come una pratica sociale, permette di creare un quadro metodologico che può essere applicato per confrontare molteplici contesti carboniferi esistenti da secoli in tutto il mondo. È interessante notare le declinazioni che assumevano i contenuti dei canti sociali, presenti all’interno dei vari confini nazionali, e verificare se i sistemi di circolazione, gli usi, le pratiche e i luoghi legati alla sociabilità attraverso l’espressività musicale, cambiarono o rimasero invariati nei differenti ambiti geografici.

L’attività plurisecolare legata al carbone ha prodotto preziose testimonianze e memorie. La tradizione di cantare le miniere è piuttosto diffusa in Europa, in particolare nelle comunità delle regioni carbonifere dell’Inghilterra, della Germania, della Polonia, del Belgio, dell’Olanda e dell’Italia. Le canzoni non rappresentano solo un modo per descrivere il duro lavoro dei minatori, ma furono anche l’occasione per raccontare la coesione nella lotta e nelle proteste contro le condizioni difficili e pericolose in cui si lavorava nel sottosuolo. Come ha scritto Fausto Amodei, cantautore e studioso di musica popolare, l’intento primario dei canti che accompagnavano le manifestazioni, per esempio contro la chiusura delle miniere, non era quello di mettere la canzone al servizio della lotta ma di farne uno strumento culturalmente dignitoso di comunicazione e dibattito [2]. Dalle canzoni traspaiono i rischi e i pericoli dovuti alle esplosioni di grisou, alle frane, la tragedia delle malattie come la silicosi, ma i testi raccontano anche degli atti di coraggio e di lealtà dei minatori. In alcuni casi questi canti possono funzionare da elementi motivazionali, incoraggiandoli a perseverare nonostante i momenti difficili, prendendo forza dall’unione con i compagni di lavoro che cantano insieme. Secondo lo storico Stefano Pivato queste canzoni funzionavano come mezzi per allontanare e dimenticare i problemi quotidiani e per diffondere sentimenti di serenità e rassicurazione [3].

I canti dei minatori sono una ricca e importante tradizione che ha accompagnato la storia delle miniere e dei minatori in tutto il mondo. Oltre ad una funzione pratica, queste canzoni avevano anche un profondo valore simbolico e culturale per la comunità mineraria. I canti venivano utilizzati, in primo luogo, come una forma di comunicazione durante il lavoro. In un ambiente rumoroso e caotico come quello della miniera, rappresentavano uno strumento per coordinare l’attività, indicare i pericoli, motivare gli operai e alleviare la monotonia e la fatica della lavorazione del carbone. Si trattava dunque di una vera e propria forma di linguaggio tra i lavoratori.

het-genker-mijnwerkerskoorI canti avevano però anche un significato culturale molto importante. Spesso si trattava di melodie e testi tradizionali che si trasmettevano di generazione in generazione all’interno delle società minerarie. In questo senso rappresentavano un modo per preservare la memoria e la cultura, per trasmettere il senso di appartenenza a una tradizione comune. Cantare insieme creava quel legame situazionale di conforto nei momenti difficili e ne fortificava l’identificazione culturale. L’accezione collettiva acquisita attraverso la musica divenne un catalizzatore nelle relazioni sociali e costituì pertanto uno straordinario strumento di autorappresentazione e di comunicazione tra il mondo dentro e fuori le miniere. La musica come oggetto mediatore fra culture diverse innescava così processi di invenzione, incroci e contaminazioni di ogni sorta, in cui si facevano sentire le voci, i cori, le bande, le orchestre di minatori e minatrici.

Attraverso i canti la gente di miniera evocava con enfasi e orgoglio le proprie origini, i lunghi viaggi intrapresi e il duro lavoro. I luoghi in cui si ascoltavano queste voci, anche straziate dalla nostalgia o dal dolore, erano le feste, i luoghi pubblici, le piazze, le strade ma anche le case, sul territorio limburghese e vallone, i luoghi per eccellenza dell’industria carbonifera che vennero invasi dalle parole e dai suoni di canti pluriregionali, tenuti magnificamente vivi dal popolo. Un luogo, quello minerario, fertile che invita a sviluppare riflessioni su quanto l’attività mineraria sia un importante valore patrimoniale e territoriale da preservare. Tant’è che la musica dei minatori ha prodotto molti esponenti importanti che hanno contribuito a preservare e diffondere questa forma di espressione artistica e canora.

91v6nyzff3l-_ac_uf8941000_ql80_Gli esponenti del folklore e della musica delle miniere. Rivendicare un’identità coesa 

Numerosi furono gli studi effettuati sulla musica dei minatori in Europa e in America. Uno dei primi a interessarsi alle musiche dei minatori è stato l’antropologo inglese George Ewart Evans che ha condotto ricerche sulla cultura popolare dei minatori gallesi negli anni ‘50 e ‘60 del Novecento.

Evans, figlio di un droghiere, nacque il 1º aprile 1909 nella città mineraria di Abercynon, nel Galles del Sud. Durante la sua infanzia ha osservato in prima persona le lotte di una comunità mineraria, negli anni della depressione. Ha osservato gli effetti di disastri minerari, gli scioperi ma anche la perdita del negozio di suo padre. Queste esperienze l’hanno portato ad avvicinarsi ai principi del comunismo, percepito come un modo per porre fine alle disuguaglianze sociali. George Ewart Evans è stato un pioniere nel campo della storia orale, o “storia parlata” come ha preferito definirla. Dagli anni ‘50 ha iniziato a registrare interviste con persone provenienti dalle zone rurali e minerarie per mantenere vive le storie delle persone che ne fecero parte [4].

Esistono diverse registrazioni di musiche dei minatori realizzate sul campo da etnomusicologi e ricercatori. Tra le più note ci sono la raccolta delle voci dei minatori inglesi effettuate negli anni ‘60 dal cantante folk inglese Albert Lancaster Lloyd e depositata presso la British Library di Londra [5], e quella dei minatori gallesi effettuata da Idris Foster e depositata presso il National Museum of Wales. 

Nell’introduzione del libro Lloyd scrisse:

«These are rough songs, mostly made by rough men. Hardly any have much claim to poetic art. […]. Yet they are songs that have meant much to coal miners. Their very hoarseness is a virtue in as much as the voice that speaks in them of work and joy and disaster and struggle, is the voice of the miner himself or of someone sharing his life. […] A “good” song in this context is one that positively affects the community for whom it is destined, that makes for a clear reflection of circumstances, that aids understanding of common plight» [6].

the-forde-collection-irish-traditional-music-from-the-william-forde-manuscripts__30354A. L. Lloyd è stato uno dei protagonisti del revival della musica folk del dopoguerra ed è considerato il fondatore di uno specifico sottogenere folk: il folk industriale [7], da lui stesso definito come «il genere di canzoni vernacolari realizzate dagli stessi lavoratori direttamente dalle proprie esperienze, attraverso cui esprimevano i propri interessi e le proprie aspirazioni che venivano condivise e trasmesse in forma orale» [8]. Altri importanti contributi sono stati forniti da Nicholas Carolan, etnomusicologo irlandese che dedicò gran parte della sua carriera alla musica tradizionale irlandese e mineraria [9] e da Travis Stimeling che si è concentrato alla questione identitaria dei minatori delle zone dell’Appalachia, in West Virginia e ha scritto che: «si tratta di una musica che proviene da un profondo sentimento personale. La musica dell’Appalachia unisce le persone, le spinge fuori dalle loro posizioni individuali per proiettarle dentro una comunità e un sentimento condiviso» [10].

mbid-aadd607e-e6cf-4dd5-8382-012e676330d4-34260445722Di questa zona mineraria si è occupato anche Jack Wright nel libro Music of Coal: Mining Songs from the Appalachian Coalfields [11], che include due CD con raccolte di vecchie e nuove canzoni sui bacini carboniferi del sud dell’Appalachia, trattando temi anche drammatici come gli incidenti minerari e la malattia polmonare nera. Questa specifica zona degli Stati Uniti è stata infatti teatro di una delle più grandi tragedie avvenute in miniera. Il 6 dicembre del 1907, a Monongah, uno dei villaggi minerari situato a nord del West Virginia, una serie di esplosioni di una violenza inaudita, tale da provocare un terremoto avvertito a 12 chilometri di distanza, uccise 361 uomini, rimasti intrappolati nei due tunnel che un misto di polvere di carbone e gas metano aveva trasformato in vere e proprie camere ardenti. Il bilancio delle vittime però fu molto più alto del numero ufficiale e si parlò di 956 minatori morti nella tragedia.

Il folklorista americano Archie Green ha messo insieme una discografia di canzoni sull’estrazione del carbone da cui emergono la coscienza e le tradizioni dei lavoratori americani. Questo progetto è stato poi raccolto nel libro Only a Miner che esamina più di un secolo della complessa interazione tra l’estrazione del carbone e le dinamiche della cultura americana, e riflette la natura e le implicazioni socio-politiche di questo lavoro così drammaticamente rischioso. Tra le centinaia di canzoni sull’estrazione del carbone distribuite dalle case discografiche, Green ne sceglie alcune particolarmente significative e quasi universalmente conosciute: Sixteen Tons, che Merle Travis scrisse e registrò nel 1946, raggiunse milioni di ascoltatori attraverso i dischi e il programma televisivo di Tennessee Ernie Ford a metà degli anni ‘50. Altre, come The Death of Harry Simms, non sono mai state ascoltate al di fuori dell’ambiente sociale del carbone in cui sono nate. Eppure il modello di interscambio tra la cultura del carbone, in gran parte regionale, e la cultura nazionale è ricco e notevole e mostra tutte le contraddizioni e le sfaccettature che contribuiscono a formare una tradizione e una identità consolidata: il trascurato folklore dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione, l’economia e la politica dello sfruttamento delle risorse negli Appalachi, i giacimenti di carbone e infine la natura del pluralismo e dell’unità culturale americana che fanno delle canzoni create nel sottosuolo minerario un patrimonio inestimabile, come forma di una eredità culturale e folkloristica [12].

johnny-cashTra i maggiori esponenti della musica dei minatori in America c’è sicuramente Johnny Cash, che è stato un famoso musicista e cantautore americano. È considerato uno dei più grandi artisti di musica country e ha influenzato molte generazioni di musicisti. La sua musica è nota per i testi che toccano argomenti come l’ingiustizia sociale, le lotte, le proteste delle classi subalterne e la vita degli emarginati. Ha scritto molte canzoni sui minatori e sulle problematiche legate a questo lavoro come Dark as a Dungeon, Sixteen Tons e Coal Mine Daughter, canzoni cariche di tristezza e disperata frustrazione ma che al contempo possono essere lette come inni di protesta contro le condizioni di lavoro e la disuguaglianza sociale. Cash, noto per il suo impegno sociale, era interprete di canzoni che riflettono spesso il suo punto di vista critico sulla società e la politica. Questo lo ha reso un’icona della cultura popolare americana. La sua influenza e il suo impegno rimangono ancora oggi delle fonti di ispirazione per molti artisti e attivisti di tutto il mondo [13].

In Italia, furono musicologi come Bruno Pianta a dare un contributo rilevante nella conoscenza delle musiche dei minatori della Val Trompia, conosciuta anche come “La via del ferro”, nella provincia di Brescia. Pianta ha messo a confronto credenze, comportamenti, modi di dire, mitologie, canti, riti di lavoro e di socializzazione, basandosi principalmente su testimonianze etnografiche dirette. In particolare si è concentrato su una famiglia di minatori di Pezzaze, nella montagna bresciana, i Bregoli, in cui tutti i membri maschi erano minatori e cantanti eccezionali con un ricco repertorio di canzoni sulle miniere. Analizzando questo repertorio di famiglia (evidenziando anche i collegamenti estetici con l’antica poesia delle ballate tradizionali italiane) mostra come i minatori che hanno lavorato nelle gallerie delle Alpi, a partire dal 1870, abbiano formato un gruppo sociale peculiare, con una visione mitologica tipica: dalle gallerie “seduttrici” alla forte attrazione per la strada e la vita nomade [14]. Insieme all’etnomusicologo Roberto Leydi [15], Pianta diede vita al Servizio Cultura del Mondo Popolare della Regione Lombardia, oggi AESS.

Paolo Chiarchi

Paolo Chiarchi

Paolo Ciarchi, classe 1942, è un altro interprete e studioso della cultura musicale legate alle miniere. Ha cominciato da giovane ad appassionarsi delle musiche popolari. Negli anni Sessanta fu decisivo l’incontro con Roberto Leydi e Roberto Bosio, fondatori della rivista “Nuovo Canzoniere Italiano”. Ciarchi fu musicista e compositore noto anche per le sue canzoni sulla vita dei minatori in Toscana, oltre che per le collaborazioni con grandi artisti come Dario Fo ed Enzo Jannacci. Le sue canzoni raccontano le condizioni di lavoro difficili e pericolose dei minatori appartenenti alle comunità minerarie del Monte Amiata [16]. Sulle zone minerarie del Valdarno, invece, emblematica è la figura di Giovanni Marruchi che ricostruì la storia di tutte le filarmoniche e le bande del territorio cavrigliese, spulciando statuti, lettere e spartiti [17]. Studi sulle canzoni dei minatori del Valdarno, sulle loro lotte e battaglie, furono eseguiti anche da Diego Carpitella [18] e da Dante Priore [19].

In Belgio il merito di dare rilevanza alle musiche dei minatori cantate in forma dialettale fu di André Bloemen. Nato e cresciuto a Kaulille nel Limburgo belga, Bloemen creò la più grande collezione di musica dialettale Limburghese composta da cassette, vinili e cd. Con la sua collezione di musica locale divenne un punto di riferimento per la musica dialettale nella zona carbonifera del Limburgo. Insieme a Henk Hover e Sef Derks, ha fondato la “Listen to Limburg” per far emergere il lavoro di ricerca legato a questo mondo musicale [20].

jacques-brellIl tema sociale ha avuto una grande importanza in un Paese come il Belgio. Il maggior esponente di questo genere di canzoni è Jacques Brel, uno dei più noti cantautori belgi del ventesimo secolo, apprezzato per i temi sociali e politici affrontati nelle sue canzoni. La canzone Les Flamandes, scritta nel 1962 è stata ispirata dalle lotte operaie delle miniere di carbone in Belgio. La canzone racconta la storia di un uomo che lavora duramente nelle miniere e che alla fine delle fatiche quotidiane torna a casa, riflettendo sulla sua vita e sulle difficoltà dell’esistenza. Le Moribond invece è una ballata che Brel scrisse nel 1961 e che descrive il paesaggio rurale del Belgio, in particolare della regione della Vallonia. La canzone ricostruisce la storia di un vecchio che sta morendo e che guarda fuori dalla finestra della sua casa osservando i campi e i paesaggi intorno a lui, mentre ricorda la sua vita. In entrambe le canzoni Brel trasmette emozioni profonde affrontando temi complessi e importanti per la società belga del tempo. La sua musica e la sua poesia hanno reso omaggio alle difficoltà della condizione operaia e contadina, così come alla bellezza della natura e dei paesaggi della sua terra. La Fanette è diventata un vero e proprio inno tra i minatori del Nord della Francia, mentre Plat Pays è una dichiarazione d’amore per il suo Paese natale, il Belgio. La canzone rimanda alla regione delle Fiandre, caratterizzata dalle vaste pianure. Descrive le campagne, i campi di grano, i mulini a vento e i canali navigabili di questa terra con parole poetiche e nostalgiche. La canzone è anche un inno alla cultura fiamminga e alle sue tradizioni, ne celebra gli abitanti, citandone coraggio e perseveranza. La ballata divenne molto popolare in Belgio e in Francia, considerata uno dei classici della musica grazie alla forza che traspare dalla sua voce, Brel ha saputo trasmettere una profonda identità nazionale, a cui il cantautore sentiva appartenere a tutti gli effetti [21]. 

Il sottosuolo, ambiente di paure e di speranze. Il minatore, un mito e un eroe culturale 

L’attività mineraria di per sé generava svariate composizioni acustiche di insolita articolazione e natura. Un ambiente come quello delle zone carbonifere europee era ricchissimo di suoni e rumori e il repertorio era costituito da tante sonorità: le perforazioni, gli scavi e gli scoppi di dinamite, i rumori del martello pneumatico. Rumori uditi in prima persona da Raul Rossi, minatore italiano nelle miniere vallone in Belgio. Rossetti nel suo libro Schiena di vetro, scrive: 

«con l’avvento del martello pneumatico la percentuale di ammalati ai polmoni è cresciuta, si può dire, del mille per cento. Ora la mina ti segna un limite: dopo il limite, il sanatorio. Prima no, al tempo di nonno piccone la polvere non esisteva e così un minatore tirava avanti anche fino a ottant’anni. Sicché ai vecchi tempi anche gli ergastolani facevano una bella vita, non come noi. Però erano costretti…» [22]. 

614-4tvpqcl-_ac_uf10001000_ql80_Questi rumori strutturavano i pensieri e diventavano parte integrante dell’ambiente mentale. C’erano quelli delle pale utilizzate senza sosta per scavare ed estrarre il materiale, quelli della partitura metallica creata dai carrelli che trasportavano il carbone sino alle ferrovie o ai luoghi di imbarco, delle sirene che scandivano i turni e avvisavano delle sciagure avvenute. I tunnel sotterranei facevano da cassa di risonanza: l’eco amplificava suoni e rumori rendendoli inconfondibili e riconoscibili anche in condizioni di scarsa luminosità. Macchine e attrezzi cadenzavano lo svolgere del lavoro, poco spazio era concesso agli scambi di parole, ma solo qualche intreccio di voci che fungeva da pallido conforto. Si alzava la voce unicamente in caso di pericolo: gridi di allarme che potevano salvare vite umane. Come ha detto l’antropologa Paola Atzeni «la miniera era un deposito di suoni, voci e rumori» [23].

L’archetipo del sottosuolo ha radici molto antiche. Già nella preistoria, l’uomo non mostrava solo meraviglia per ciò che gli accadeva intorno, per l’alternarsi del giorno e della notte, per i temporali e il susseguirsi delle stagioni, ma questi stessi fenomeni gli incutevano anche sentimenti di paura per il fatto che la sua mente non era in grado di razionalizzarli. Questa contrapposizione tra paura e fascino dell’ignoto è accentuata dall’immaginario del sottosuolo. Questo archetipo è da sempre associato al timore, più che al fascino. Fin dalla Divina Commedia dantesca, il sottosuolo appare come un luogo popolato da demoni, da forze maligne che travolgono l’uomo nella sua interezza. Dante colloca l’Inferno nel sottosuolo, in una voragine che culmina al centro della Terra con Lucifero. L’Inferno era un luogo buio, sede di «pianto e stridor di denti», dove le anime dannate si lamentavano in eterno con urla disumane che paralizzavano Dante dalla paura. Da tale raffigurazione si evince come il mondo sotterraneo e quello sonoro siano in sintonia: sottoterra, infatti, regna l’oscurità e i suoni rappresentano l’unico modo per orientarsi. Anche le miniere si configurano come ambienti definiti dalla paura, dalla sofferenza e dalla morte, ma nello stesso tempo delineano i contesti della sopravvivenza e del sacrificio per se stessi e per le proprie famiglie. In alcuni casi, ad esempio, il termine miniera è usato in senso metaforico, quando rappresenta l’inconscio, ossia la parte più profonda e istintuale dell’essere umano, quella in cui trovano dimora i segreti più reconditi e rimossi [24].

Questo modo di intendere il sottosuolo emerge anche nei racconti medievali, passando per leggende e miti popolari. Nelle antiche leggende sarde, ad esempio, si narra di un sottosuolo abitato dalle cogas, ossia le streghe, e altre creature misteriose che mettevano a dura prova l’uomo. Nel passaggio all’età moderna tale immaginario diventa esperienza concreta da vivere in prima persona. Gli uomini così cominciano a perlustrare i luoghi tanto temuti, esplorano e si ingegnano per sfruttare il territorio circostante da cui estrarre materiali utili come il carbone per le necessarie attività produttive urbane. Il lavoro in miniera dunque può scatenare variegate sensazioni e innescare meccanismi sensoriali poco conosciuti. Nel sottosuolo, ad esempio, il senso della vista perde le sue funzioni primarie lasciando ampio spazio di attività all’udito, non più senso ausiliare bensì faro guida del minatore. Il minatore diventa testimone oculare e uditivo di quanto accade nel sottosuolo, osserva le impronte sudate di fatica che gli scavatori lasciano sui loro attrezzi assieme alla loro sofferenza. Il minatore che intraprende un viaggio nelle viscere della terra esercita ogni giorno il proprio coraggio e la propria determinazione, si scontra di continuo con le ombre interiori ed esteriori, i suoi nemici diventano il buio, le polveri e i possibili crolli in galleria che minacciano la sua incolumità. L’eroe parte da casa lasciando la famiglia e la sicurezza e quando sopravvive alle sciagure è comunque segnato nel profondo dall’esperienza che ha vissuto.

Tali imprese eroiche, atti di coraggio e lotta per la sopravvivenza nel sottosuolo, hanno ispirato molti cantautori che con le loro canzoni riuscirono a trasportare quel mondo sotterraneo nel mondo esterno. Musicisti e cantanti riprodussero e interpretarono il ruolo del minatore e resero partecipe il pubblico delle discese e delle risalite da quel mondo oscuro attraverso le loro voci. I testi delle canzoni divennero narrazioni quasi mitiche che raccontavano il “viaggio dell’eroe”. Richiamato dalle situazioni che le viscere della terra gli impongono, egli cala nel buio del sottosuolo abituandosi a sopravvivere sottoposto a mutamenti imprevisti della sorte. Tra i suoi alleati figurano gli altri minatori che come lui condividono il percorso, aiutandolo a sopportare il dolore fisico, e la lampada, oggetto magico per eccellenza, che dà luce in galleria e illumina la speranza di tornare a casa sano e salvo a riabbracciare la famiglia e gli affetti [25].

new-trolls-minieraIl panorama musicale italiano è ricco di gruppi e cantautori che descrissero il mondo delle miniere e la speranza dei minatori di rivedere la luce. Ricordiamo la canzone Una Miniera dei New Trolls dal testo fortemente evocativo: «Le case, le pietre ed il carbone dipingeva di nero il mondo». Si descrivono qui le percezioni sensoriali nel buio delle gallerie: prima la vista che apprende un paesaggio scuro, dove non filtra la luce del sole, poi l’udito con il silenzio di qualunque suono naturale rotto dal rumore monotono e assordante del lavoro («Nessuno parlava, solo il rumore di una pala che scava, che scava»). Poi il pensiero va agli affetti lasciati a casa («Ritorna alla mente il viso caro di chi spera questa sera, come tante, in un ritorno») e un filo di speranza si diffonde nel ritornello: «Tu quando tornavo eri felice di rivedere le mie mani, nere di fumo, bianche d’amore». Infine, nella seconda strofa, la fine tragica del protagonista, la sconfitta dell’eroe dopo lo scontro finale: «Ma un’alba più nera ferma il respiro di chi è fuori… paura, terrore, sul viso caro di chi spera…». La caratteristica principale del testo è la polarità di opposti basata su alcuni stereotipi: il nero come buio, il bianco come luce. A questo consegue la presenza dell’ossimoro «alba nera» e l’opposizione tra ritorno e non ritorno.

Di miniere si era già iniziato a cantare nel 1927, con il classico Miniera di Bixio Cherubini cantato da Luciano Tajoli, Claudio Villa e molti altri. Un “classico” del genere che introdusse il tema della canzone a sfondo sociale. Una storia a lieto fine è invece quella narrata nella canzone La ragazza e la miniera di Francesco De Gregori. Qui l’eroe esce vittorioso dallo scontro finale, e al suo ritorno a casa viene acclamato dai familiari e dalla sua amata. Ma il percorso dal buio verso la luce è una dura battaglia che viene vinta anche grazie al supporto dei compagni di lavoro e del canto consolatorio: «Meno male che c’è sempre qualcuno che canta e la tristezza ce la fa passare».

Il minatore dunque diventava a tutti gli effetti un personaggio eroico che incarnava il duro lavoro, il sacrificio e la resistenza. Egli evocava, nonostante le fatiche, un legame forte con la propria terra e la comunità di appartenenza. Lo stesso Pablo Neruda nella sua poesia Fra i minatori descrive questi lavoratori come «oscuri eroi» di cui elogia il coraggio quotidiano nel buio delle miniere. 

Rocco Granata

Rocco Granata

Migrazioni e appartenenza identitaria tra popoli e miniere 

Durante le migrazioni, le canzoni dei minatori hanno avuto un ruolo importante nella vita dei lavoratori che si spostavano verso altre zone carbonifere. In Italia le comunità minerarie di tradizione secolare, come quelle delle zolfare marchigiane, siciliane e delle zone carbonifere sarde, spesso migravano per seguire le opportunità di lavoro nelle miniere in altre regioni e nazioni. In questi spostamenti, le canzoni esprimevano il profondo legame con la propria comunità di origine.

Approdati poi nei nuovi Paesi, per esempio in Belgio, le canzoni di origine vennero mantenute vive durante i momenti di svago e di ritrovo cementando una forte coesione sociale e culturale tra i membri della comunità italiane attestate intorno alle sedi carbonifere nel Limburgo belga. Alla fine della Seconda guerra mondiale, infatti, le zone estrattive belghe e olandesi iniziarono ad accogliere popoli stranieri, in cerca di fortuna. In seguito ai massicci arrivi di uomini soli, celibi o sposati, e delle loro famiglie, le aree geografiche dell’industria del carbone si ritrovarono impreparate materialmente e psicologicamente ad accogliere i consistenti flussi di stranieri. Oltre la complicata gestione dell’accoglienza da parte delle direzioni minerarie, a braccetto con i governi, si manifestarono incomprensioni linguistiche tra stranieri e gente locale. Non mancarono episodi di natura discriminatoria e di scontro interculturale mentre, d’altro canto, la paura di scendere nel sottosuolo fortificò le relazioni di mutuo soccorso tra gli abitanti dei villaggi minerari e le zone circostanti.

Si verificò così un mutamento culturale, sociale e geografico senza precedenti. L’ibridazione dei popoli determinò un terreno fertile e creativo e fu la musica in primis a portare allegria e leggerezza all’interno dei nuclei abitativi. Le band musicali, le orchestre e i cori sorti attorno alle miniere si esibivano nei luoghi di frequentazione comuni, come le sale da ballo, i bar e i centri ricreativi. I cantanti italiani di prima generazione s’ingegnarono a creare canzoni che richiamassero i ricordi dei luoghi natali e le famiglie lasciate in Italia, divenendo fonte d’ispirazione per le generazioni a venire. In territorio belga, questi musicisti con i loro brani erano tenuti in grande considerazione dalla direzione delle miniere, elogiati come una categoria protetta e di rilievo nei luoghi toccati dalla polvere di carbone.

Il Belgio non è solo un luogo di scavi di carbone ma anche un Paese creativo e artistico da cui molti cantanti hanno tratto ispirazione per fare musica. Il riconoscimento sociale e il successo di questi musicisti rappresentò una sorta di rivendicazione sociale: da minatori, o figli di minatori, a cantanti che ebbero la tenacia di realizzare il proprio sogno raccontando la propria storia. Le loro canzoni si differenziano dal restante panorama musicale per testi, melodie e sonorità. Le star che emersero dal buio del sottosuolo rappresentarono dunque la rottura con un passato insofferente e discriminatorio. Da sempre la musica è caratterizzata di contaminazioni e prestiti, rappresentando uno dei principali canali di integrazione tra culture differenti. La musica condivisa funge da collante tra i cantanti e gli ascoltatori, che si coinvolgono a vicenda anche in territori stranieri.

Le prime generazioni di migranti italiani nel Limburgo e la Vallonia belga furono portatori di canti popolari in cui le parole cantate si tingevano di toni nostalgici e melanconici. Le canzoni contenevano testi con riferimento ai luoghi d’origine e agli amori lasciati in patria. La musica trasportata dai luoghi d’origine verso i luoghi di migrazione ebbe una funzione strategica in terra straniera: mise in contatto e creò relazioni tra persone di differenti provenienze regionali e nazionali. Di questo tema si è occupato Eugenio Marino che ha proposto uno studio interessante sugli italiani che disseminarono la loro cultura popolare ovunque nel mondo. A proposito della musica della migrazione, l’autore ha notato che «nelle canzoni prevale un atteggiamento legato allo spirito di sacrificio, all’esaltazione della fatica e l’invito alla rinuncia, il tutto avvolto nella retorica patriottica e voltata al sentimentalismo e al fatalismo» [26].

Remo Perrotti

Remo Perrotti

Le canzoni fungevano da colonna sonora negli spostamenti sia interni che esterni dalla penisola. Le parole cantate contenevano le numerose sfaccettature della sfera emozionale: la tristezza nel lasciare il proprio paese, le amate abbandonate a casa, la paura dell’ignoto con cui l’emigrato doveva fare i conti. Il filosofo e pedagogista americano John Dewey sostiene che le espressioni artistiche e musicali da parte degli immigrati aiutarono a fortificare il senso di unione tra gli stranieri [27]. Il canto divenne infatti, nei contesti migratori, un modo per portare alla luce esperienze di vita e memorie legate a passati lontani [28].

Le pratiche artistiche aiutarono a rafforzare le costruzioni identitarie, fornendo agli individui un senso di appartenenza alla società o a un gruppo specifico nonché la possibilità di collocarsi in un ambiente sociale. L’etnomusicologo inglese John Baily si è concentrato sulle connotazioni emozionali intrinseche alla creazione di canzoni. Secondo lo studioso è proprio attraverso l’espressività musicale che si negoziano e si affermano le identità di origine a contatto con la popolazione locale [29]. Creare musica quindi dette ai nuovi arrivati la possibilità di rimanere ancorati alle proprie origini e alle proprie tradizioni all’estero [30].

Attraverso il cantato si costruiscono ponti tra emigrazione e immigrazione [31]. La musica risulta essere infatti una preziosa risorsa culturale nella diaspora, intesa come un fenomeno di dispersione geografica di determinate popolazioni che cercano di mantenere una forma di unità e solidarietà reciproca. Lo sradicamento dal proprio luogo d’origine rende molto forte il bisogno di riaffermazione dell’identità e di preservazione culturale, per mantenere vivo il legame con il proprio passato e con il proprio Paese e per consolare il senso di smarrimento. La musica ha avuto questa funzione e ha aiutato a dare un senso al proprio progetto migratorio fornendo alle seconde generazioni e a quelle successive un’identità culturale di riferimento costituita da memoria, miti e narrazioni. Una risorsa culturale quindi che permette alla collettività immigrata di forgiare solidarietà e appartenenza [32].

Dalla ricerca etnografica di Nadia Molek, emerge che per molti discendenti la musica rappresenta una parte fondamentale della propria vita culturale da trasmettere alle generazioni future [33]. L’espressione musicale diviene un atto di riscoperta e rivitalizzazione di esperienze e memorie trascorse che vengono così riprese e rimodellate attraverso un gesto creativo nel presente. In Belgio, gli spazi industriali presso gli ex distretti minerari di Waterschei, Winterslag e Zwartberg (Genk), ubicati nel nord-est del Limburgo belga, si trasformarono in luoghi creativi e significativi per le nuove generazioni di musicisti di origine italiana. Tra i cantanti della seconda generazione ricordiamo Salvatore Adamo, rappresentante della musica italiana presso i distretti minerari della Vallonia, e Rocco Granata, trasferito nel Limburgo Belga in tenera età. 

Cantanti, band e cori di minatori nei territori olandesi e belgi. Rievocare attraverso la musica nostalgie e ricordi 

Dopo il disastro di Marcinelle, nel 1956, in Belgio la figura del minatore fu accostata non solo a quella dell’eroe, ma anche della vittima. In seguito, alla dimensione vittimista si è aggiunta quella del martire, caduto in nome di un progetto nazionale. Questo approccio – comunque non unico ma maggioritario – è stato funzionale, fin dalla ricostruzione, a mettere in secondo piano la dimensione del minatore come lavoratore e come soggetto di diritti e a rimuovere l’intreccio di scelte e di responsabilità istituzionali e industriali che hanno accompagnato la storia delle migrazioni.

Le canzoni italiane a cavallo tra Ottocento e Novecento raccontarono le emigrazioni di milioni di contadini italiani, in fuga dalla povertà e dalle guerre verso le Americhe e il nord dell’Europa. L’emigrazione italiana divenne argomento studiato e approfondito da differenti discipline universitarie. Attraverso approcci diversi, che spaziano tra una visione antropologica, sociale, storica e urbanistica, si punta l’attenzione sulle varie forme di raccontare e rappresentare il mondo estrattivo. Molti etnografi appassionati di musica hanno scritto libri e saggi sul mondo canoro minerario: biografie di vita, di racconti e memorie di musicisti che vissero la realtà di scavo lasciando una traccia attraverso le loro canzoni alle generazioni a venire.

I minatori, infatti, erano spesso anche bravi musicisti. Ogni miniera aveva il proprio coro musicale, sovvenzionato dalle direzioni delle miniere. Nel Limburgo olandese il Mauritsmuziekkorps, Harmonie-Orkest, de Mijnkapel del Domaniale Mijn Maatschappij, het Harmonie-Orkest della Wilhelmina e la Oranje-Nassau Orkest. Ad Eisden nel Limburgo belga spicca il Koninklijke Harmonie Limburg. Ad Hornu nel Borinage, la Royale Fanfare.  In Inghilterra si ricordano il coro maschile Wales e le fanfare del Yorkshire [34].

Uno dei gruppi musicali più famosi del Limburgo belga è il coro fiammingo composto da minatori Het Genker Mijnwerkerskoor, fondato da Roger Gaspercic nel 1988 e diretto da Luc Smets, a tutt’oggi il coro maschile più prestigioso del Belgio, che conta circa 40 membri tra minatori, figli di minatori e simpatizzanti di ogni ceto sociale. Lo scopo e la missione del coro sono quelle di diffondere la cultura della miniera in tutte le sue forme, canti, poesie e musica. Si sono esibiti più volte con grande successo nelle Fiandre, in Vallonia, nei Paesi Bassi, in Germania, Svizzera, Polonia, Francia, Regno Unito e Italia e sono apparsi anche su vari canali TV nazionali e internazionali.

11Anche nei Paesi Bassi esiste un coro di ex minatori, Carboon, fondato da Jan Hendriks nel 1976. L’album Witste nog Koempel, pubblicato nel 1976 e in cui il gruppo canta della chiusura delle miniere, è diventato disco d’oro in quattro mesi ed è stato il primo disco regionale a vendere più di 25.000 copie in un anno. L’album ha una forte preponderanza folk e blues, una contaminazione di suoni che rimandano alle musiche tradizionali delle working class olandesi e americana. L’uso della fisarmonica in Beambtezjwek, l’steelgitar e Koele en kuulkes’ o il banjo in D’r berg, ad esempio, sono un chiaro riferimento alla musica tradizionale country americana, mentre la canzone con cui si conclude l’album, Koepel Sjeng, è accompagnato da un arrangiamento d’archi. I testi parlano da un lato di passioni condivise nel sottosuolo, ma sono anche canzoni di ribellione, di protesta contro la chiusura delle miniere che raccolgono i temi classici connessi al mondo minerario: la rabbia, la nostalgia e la lotta contro le ingiustizie perpetrate dai padroni delle miniere.

Nel documentario Witste nog, Carboo’ realizzato dal regista olandese Paul Versteegen nel 2015, alcuni membri del gruppo raccontano la vita mineraria che hanno vissuto in prima persona: un’esistenza umile, caratterizzata da un forte senso di amicizia creatosi nel sottosuolo [35]. Spesso emerge dalle voci corali un invito a immergersi nei contesti sociali sorti attorno alle sedi minerarie, con l’intento di accendere un faro sui sentimenti vissuti dai minatori. Dopo la realizzazione del secondo album, D’r letste Koempel, cala il silenzio sul coro, sino a quando Joep Pelt, nato e cresciuto ad Amsterdam con genitori del Limburgo meridionale, prese l’iniziativa di riunire i componenti del complesso musicale per ripresentarlo al pubblico, in occasione dell’Anno del minatore, festeggiato ad Heerlen nel 2015 [36]. Questa celebrazione è stata anche l’occasione per portare avanti un altro progetto organizzato da Sophie’s Voice, un coro di world music, che ha scavato nel repertorio dei canti delle miniere e dei minatori e ha portato alla luce bellissime canzoni da ogni angolo del mondo. La location scelta è stata il Cultuurhuis Heerlen, l’ex edificio di patronato dei minatori. In questo luogo speciale, Sophie’s Voice hanno dato vita ad una emozionante performance tra canti, racconti e immagini, ricreando l’atmosfera e gli elementi culturali delle miniere e dei minatori: la solidarietà, la lotta contro la natura imprevedibile, il pericolo e la morte [37].

Durante il periodo d’oro dell’industria mineraria si segnalano anche numerosi autori e cantanti solisti come Armand Preud’Homme cantante fiammingo nato a Peer, in Belgio, che ha dedicato gran parte della sua carriera alla scrittura di canzoni sulla vita della classe operaia [38] o Frits Rademacher, cantante olandese, nativo della regione mineraria del Limburgo. Rademacher è stato uno dei più famosi cantanti di musica folk della regione, ha scritto canzoni sulla vita dei minatori e sull’amore per la regione d’origine [39].

adamoSul territorio minerario olandese emergono canzoni che ebbero notevole successo. Si pensi a Glück auf, cantata da Johnny Hoes, canzone che accompagnava i minatori durante la discesa nelle viscere della terra che dà anche il titolo al film del regista Remy van Heugten ambientato nella regione mineraria orientale del Limburgo olandese [40]. Il trio De Limburgse Zusjes e Jerry Bey hanno invece inciso la canzone Het lied van de mijnwerker, rispettivamente nel 1958 e 1977, cantata spesso sia durante le feste e le manifestazioni che durante gli scioperi. Altra canzone di grande successo è Heimwee nao Limburg, cantata da Martin Hurkens, che descrive la nostalgia dei minatori quando, dopo la chiusura di alcune miniere olandesi, emigrarono in altre zone minerarie. L’autore, Laurens Ham, appassionato di musica popolare olandese, nel suo libro Op de Vuist, ha pubblicato una raccolta di canzoni, con un’attenzione particolare alle canzoni sociali e ai canti di protesta in lingua brabante, duranti gli anni turbolenti delle miniere [41]. Il libro nasce dagli incontri e dalle interviste fatte ai miglior esponenti delle musiche olandesi tra cui i cantautori Harold K, Janse Bagge, Henk Steijvers, Herman Veugelers, Arno Adams e Zjèr Bataille.

I canzonieri diedero un contributo fondamentale anche alla storia dell’immigrazione italiana verso i luoghi carboniferi belgi. Il canto divenne contenitore di memorie, di ricordi intrecciati tra partenze e arrivi in terra straniera. Fu trasmettitore e ricostruttore di passati in cui agivano fattori emotivi come la nostalgia verso l’Italia e la solitudine vissuta sul suolo straniero. Alcuni brani nacquero da esperienze di vita personali come Marina di Rocco Granata che racconta la storia d’amore tra il figlio di un minatore e una ragazza belga, o La notte (La nuit) di Salvatore Adamo.

A partire dagli anni Ottanta, gli studi sulle musiche dei migranti segnarono una particolare attenzione verso i cantanti appartenenti alla prima generazione d’italiani. Insieme allo spostamento migratorio, infatti, arrivarono in Belgio anche le tradizioni musicali dei migranti. Le canzoni dei minatori italiani, cantate nei dialetti delle regioni di origine, esprimevano la fatica, la solidarietà e la lotta comune contro le difficoltà del lavoro nelle miniere. In questo senso, le canzoni dei minatori hanno rappresentato uno strumento di integrazione culturale e di coesione tra le diverse comunità di migranti, favorendo la costruzione di una nuova identità collettiva basata sulla condivisione dei valori e delle esperienze di vita.

A partire dal 1978, nelle zone minerarie del Limburgo belga, il gruppo Muntagna Nera divenne portavoce dei canti popolari della prima generazione di uomini e donne di origine italiana. L’ensemble musicale, fondato dal giovane studente Angelo De Simone, originario di Genk e figlio di immigrati italiani, riunì le più belle e autentiche voci della comunità italiana del Limburgo. Durante i suoi studi De Simone entrò in contatto con la musica folk mediterraneo-italiana, una musica non molto ascoltata alla fine degli anni Settanta nel Limburgo belga. Come spiega Stefania Marzo il nome del gruppo «si riferisce alle discariche minerarie situate sulla superficie di una miniera» [42]. Muntagna Nera rimanda dunque ai terrils, alle montagne di scorie di carbone adiacenti le miniere. Dopo cinque anni dal debutto il gruppo si sciolse per riaffacciarsi al successo trent’anni anni dopo grazie a Bjorn Schmelzer. Al leggendario club Muntagna Nera si aggiunsero così i musicisti di Graindelavoix. Il nuovo fondatore ha inserito voci struggenti e intense, una mescolanza di melodie nostalgiche di origine napoletana, siciliana e sarda che evocano un passato di migrazione e duro lavoro in miniera, ormai parte di un comune passato. Il repertorio musicale, ricco e variegato, comprende i canti popolari che un tempo, nella terra natia, facevano da colonna sonora per gli spostamenti e, come sostiene Eugenio Marino, fungevano da metronomo che scandiva i tempi e ritmi sui luoghi di lavoro [43]. Questi testi di canzoni sociali – materiale proveniente dalla tradizione contadina che si è poi sviluppato nella tradizione artigiana urbana – sono considerati documenti della memoria collettiva e della coscienza storica e critica delle classi povere e delle masse di migranti.

Questi canti rappresentano tutto il complesso insieme di sentimenti che caratterizzava i migranti italiani: la nostalgia, l’amarezza, il senso di abbandono e la profonda tristezza per dover rinunciare agli anni migliori della propria vita per guadagnarsi da vivere altrove, in una terra straniera, ma anche il riscatto e la speranza di un futuro migliore. Le melodie dei brani sono un invito a viaggiare attraverso il variegato paesaggio musicale del sud Italia. Dalla Pizzica Taranta alle ballate d’amore, ma anche di sofferenze e fatica. Musiche accompagnate dalle splendide voci di Maria Morgante, Michele Zori, Pina Canale, Manuela Deledda, Salvatore Carlino, Domenico Nanu, Antonio Todde, voci seduttive come quella del cantante siciliano Salvatore Carlino, che si esibisce accompagnato dal tipico suono del marranzano. Partecipano ai canti di Muntagna Nera anche i Tenores, cantanti sardi di Zwartberg, un coro di voci polifoniche accompagnato dal chitarrista Ivo Deledda e dal tamburello di Santo Laganà.

Molti di questi gruppi musicali non ebbero successo solo nel periodo di piena attività delle miniere, ma continuarono ad esibirsi anche dopo la loro chiusura, mantenendo così in vita la tradizione e l’eredità dei minatori del Limburgo belga e olandese. 

muntagna-neraConclusioni 

L’industria carboniera olandese e belga, ormai fa parte di un passato lontano, ma il carbone è ancora vivo nella memoria, anche grazie ai canti dei minatori o di chi ha raccontato la miniera. Le miniere olandesi furono chiuse tra il 1965 e il 1975 ma il patrimonio immateriale di un passato carbonifero sopravvive alla loro chiusura attraverso canzoni, musiche, poesie e racconti che ancora oggi accompagnano le feste e le occasioni di socialità. Si pensi per esempio alla festa di Santa Barbara, protettrice dei minatori, celebrata il 4 dicembre o alle commemorazioni in onore dei morti delle miniere che annualmente vengono organizzate. La miniera, per di chi l’ha vissuta da vicino continua a vivere nella mente e nei ricordi. Per i minatori, l’estrazione del carbone non era solo un lavoro, ma anche un modo di vivere. Tutto il mondo industriale ruotava attorno a chi ne faceva parte. Furono costruiti appositi villaggi (cité). Qui le famiglie organizzarono una vera e propria comunità sociale, con le sue tradizioni e le sue usanze. Dal tempo libero di svago, al mutuo soccorso, persino la Chiesa si rese disponibile per aiutare i più bisognosi, supportando gli abitanti di questi specifici territori. In questi contesti di sudore e fatica, i canti dei minatori fungevano da strumento di conforto. Ogni miniera aveva il suo coro, i suoi cantanti o la sua banda che rappresentava un motivo di grande orgoglio per l’intero territorio. La vita mineraria, dunque, è stata fonte di ispirazione per i musicisti e i cantautori di ogni epoca e formazione.

Nel corso della trattazione abbiamo potuto osservare come tutti i percorsi narrativi presenti nelle canzoni non siano mai banali. Accanto ai racconti più dolorosi e drammatici si osservano anche storie di solidarietà e di speranza per un futuro migliore, motivo per cui tali prodotti risultano ancora attuali nonostante non siano di recente creazione. Quasi tutti, infine, sono accomunati dalla contrapposizione e dal contrasto dentro/fuori, nero/bianco, buio/luce, dolore per la perdita/gioia per il ritorno, disperazione/speranza, paura/fascino. Nella storia dei movimenti sindacali dei minatori, i canti hanno avuto un ruolo importante per la mobilitazione, la solidarietà e la lotta per i diritti dei lavoratori. In alcuni casi, i canti dei minatori sono diventati simboli di resistenza e di lotta politica contro le ingiustizie e le discriminazioni subite dalla classe operaia.

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Note
[1] Gianni Bosio, Alcune osservazioni sul canto sociale, in “Il nuovo canzoniere italiano”, Milano, n. 4, aprile 1963.
[2] Intervista a Fausto Amodei, in “l’Unità”, maggio 2002.
[3] Stefano Pivato, Canto e politica nella storia d’Italia, Laterza 2005: 206.
[4] Alun Howkins, Inventing Everyman: George Ewart Evans, Oral History and National Identity, in “Oral History 22,2”, Autumn 1994.
[5] A.L. Lloyd, Come all ye bold miners. Ballads & Songs of the coalfields, Humanities Press 1978.
[6] «Queste sono canzoni grezze, per lo più fatte da uomini rozzi. Difficilmente qualcuno di loro possedeva l’arte della poesia […]. Eppure sono canzoni che hanno significato molto per i minatori. La loro stessa raucedine è una virtù in quanto la voce che parla in loro del lavoro e della gioia e del disastro e della lotta, è la voce del minatore stesso o di qualcuno che condivide la sua vita. […]. Una canzone “buona” in questo contesto è quella che colpisce positivamente la comunità a cui è destinata, che riflettere la loro situazione, che aiuta la comprensione delle esperienze comuni», in A.L. Lloyd, op. cit. 1978.
[7] The Colliers’ Rant and other miners’ ballads, LoBMusicLibrary, November 9, 2019.
[8] A. L. Lloyd, Folk song in England, Lawrence and Wishart, London 1967: 323-28.
[9] Nicholas Carolan, What is Irish traditional music?, Irish Traditional Music Archive, Dublin 1991, Collection: No 1.
[10] Travis D. Stimeling, Music, Place, and Identity in the Central Appalachian Mountaintop, “Removal Mining Debate” , Vol. 30, No. 1, Spring 2012, published by University of Illinois Press: 1-29.
[11] Jack Wright, Music of Coal: Mining Songs from the Appalachian Coalfields, Condon Music Group 2007.
[12] Archie Green, Only a Miner: Studies in Recorded Coal-Mining Songs, (University of Illinois Press, 1972.
[13] Robert Hilburn, Johnny Cash. The life, Orion, 2014.
[14] Bruno Pianta, Minatori della Valtrompia, la famiglia Bregoli di Pezzaze e Ernesto Sala il “Piffero” di Cegni, in Bruno Pianta, I canti dei minatori di galleria, “La Ricerca Folklorica” No. 71, La cultura dei minatori delle Alpi, 2016: 171-219.
[15] Roberto Leydi, Il Folk Music Revival, con la collaborazione di Sandra Mantovani e Bruno Pianta, S.F. Flaccovio, Palermo 1972.
[16] Antonello Catacchio, Paolo Ciarchi e quella Milano sorprendente degli anni ‘60, ilmanifesto.it, 16 maggio 2019.
[17] Giovanni Marruchi, Cavriglia e le sue filarmoniche. Musica e territorio, Sarnus 2011.
[18] Diego Carpitella, Conversazioni sulla musica. Lezioni, conferenze, trasmissioni radiofoniche (1955-1990), Ponte alle Grazie, Firenze 1992.
[19] Dante Priore, Canti popolari della valle dell’Arno. Trascrizioni musicali di Claudio Malcapi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1978.
[20] André Bloemen in “Wiel Beyer, Daglblad e Limburger”, 30 november 2002, consultato online, 15 aprile 2023.
[21] Jacques Vassal, Jacques Brel. Vivre debout, Edi8, 2018.
[22] Raul Rossetti, Schiena di vetro, Einaudi, Torino 1989: 115.
[23] Paola Atzeni, I minatori come produttori di canti: poesia orale ed azione sociale, in I minatori. Storia locale e ideologie, Passamonti Cagliari, 1978: 114-116.
[24] Natalino Sapegno, La Divina Commedia. L’Inferno, La Nuova Italia, Firenze 1964.
[25] Chris Vogler, Il viaggio dell’eroe. La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e di cinema, (trad. Jusi Loreti), Dino Audino editore, Roma 2010.
[26] Eugenio Marino, L’emigrazione nella canzone italiana dal 1700 al 1945, “Rapporto italiani nel mondo”, in Fondazione Migrantes, 2011, Edizioni Idos:421.
[27] John Dewey, Arte come esperienza, 1934, in edizione Aesthetica 2020.
[28] Marco Martiniello, Jean-Michel Lafleur, Ethnic Minorities’ Cultural and Artistic Practices as Forms of Political Expression: A Review of the Literature and a Theoretical Discussion on Music, “Journal of Ethnic and Migration Studies”, 2008, 34:1200.
[29] John Baily, The role of music in the creation of an Afghan national identity, in Martin Stokes (a cura di) Ethnicity, Identity and Music. The Musical Construction of Place, Oxford 1994.
[30] Nicholas Cook, Music: A Very Short Introduction, Oxford 1998.
[31] Berman Slobin, Relating Events in Narrative: A Crosslinguistic Developmental Study, Berman R. A., Slobin D. I. (a cura di), Taylor & Francis Inc.,1994.
[32] Thomas Turino, Moving Away from Silence: Music of the Peruvian Altiplano and the Experience of Urban Migration, University of Chicago Press, Chicago 1993.
[33] Nadia Molek, Songs from the homeland. Popular music performance among descendants of slovenian refugees in Argentina: the case of Slovenski Instrumentalni Ansambel in Dve Domovini, Two Homelands, vol. 46, Slovenian Migration Institute at the ZRC SAZU Ljubljana 2017: 23-36.
[34] Max Paumen, De laatste gang. Het verdwijnen van de Europese mijnwerker, L.J. Veen, Amsterdam, 1993.
[35]. Kevin van Wanrooij, De bezongen koempel: muziek over het mijnbouw verleden, 2020 online consultato 12 aprile 2023.
[36] Ibidem.
[37] Wilma Jansen, Mijnwerkersliederen door Sophie’s Voice, “Demijen.nl” 17 novembre 2015.
[38] W. De Meyer, Armand Preud’homme, in: De Vlaamse Zanger. 50 Liederen uit Oude en Nieuwe Tijden, deel VII, Veulen, 1942.
[39] Troubadour, Rademacher gehuldigd in Sittard, “Limburgs Dagblad”, 8 november 1993.
[40] Remy van Heugten, Glück auf, 2015. “Glück auf” è il saluto che i minatori pronunciavano ogni volta che scendevano in miniera, e significa “buona fortuna”.
[41] Laurens Ham, Op de vuist.  Vijftig jaar politiek en protestliedjes in Nederland, Ambo Anthos, 2020.
[42] Stefania Marzo, Una lingua a pezzi. Il panorama linguistico dei minatori italiani delle Fiandre in Minatori di Memorie/3, a cura di Marco Prandoni e Sonia Salsi 2020: 65.
[43] Marino Eugenio, L’emigrazione nella canzone italiana dal 1700 al 1945, Rapporto italiani nel mondo, in Fondazione Migrantes, 2011, Edizioni Idos, Roma: 421. 
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Sonia Salsi, è nata e cresciuta presso il villaggio minerario di Lindeman in Belgio. Laureata nel 2010 in Scienze antropologiche presso l’Università di Bologna con una tesi sulla storia dell’immigrazione italiana in Belgio verso i bacini minerari del Limburgo, nel 2014 consegue la laurea magistrale in Progettazione e gestione dell’intervento educativo nel disagio sociale con una tesi sulle donne rifugiate e richiedenti politici a Bologna. A dicembre 2015 ottiene un Master Interculturale di primo livello nel campo della salute, del welfare, del lavoro e dell’integrazione presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Nel 2023 consegue la laurea magistrale con 110 e Lode in Scienze Storiche e Orientalistiche presso l’Università degli Studi di Bologna con tesi sulle donne che hanno combattuto nella Resistenza in Europa. Da diversi anni si occupa di biografie, racconti e narrativa di donne italiane che vissero le migrazioni nei contesti multiculturali adiacenti le zone carbonifere tra il Belgio, l’Olanda e la Francia. Attualmente svolge ricerche sulle musiche dei minatori tra l’Europa e le Americhe con un focus centrato sulle canzoni degli italiani, discendenti dei minatori, nati e cresciuti nel contesto belga carbonifero limburghese.

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