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La modernità secondo Palumbo. Santi che si inchinano e sguardi che si interrogano

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2020 @ 01:37 In Cultura,Letture | No Comments

ME_Palumbo_Piegare_DEF.indddi Mariano Fresta

Il libro di Berardino Palumbo, Piegare i santi (Marietti, Bologna 2020), oltre ad analizzare un fenomeno che quando accade provoca in molti qualche sconcerto, controbatte tutte le spiegazioni che di esso si danno e che agli occhi di un antropologo appaiono (o dovrebbero apparire) insufficienti e dettate da pregiudizi o da considerazioni superficiali e boriose. Il fenomeno è quello degli “inchini” che i partecipanti di una processione religiosa fanno fare alla statua del santo, inclinando il fercolo verso un balcone in cui sta un rappresentante della malavita locale con tutta la sua famiglia.

Secondo Palumbo, tutte le interpretazioni, che laici e cattolici, giornalisti e scrittori hanno dato a questo fenomeno, sono viziate da un difetto di fondo; esse, infatti, nascono come risposte a domande del tipo: ha esso a che fare con la religione? È un comportamento religioso moderno oppure si tratta di residui di paganesimo e di ignoranza? A queste stesse domande la risposta dell’antropologo Palumbo è: “Dipende”, che, di primo acchito, disorienta il lettore. Poi l’antropologo prosegue con un ragionamento che ti conduce a comprendere il perché di quel “dipende”:

«Dipende da cosa intendiamo per religione e religiosità, da chi definisce queste nozioni e all’interno di quali processi storici, da come nelle società in questione si relazionano tra di loro le idee sulla violenza, i modi di agire nei rituali festivi e nella quotidianità, le costruzioni della soggettività maschile, le configurazioni dello spazio pubblico; da come tali nodi si connettono a loro volta con i nostri (di italiani, europei, eventualmente cattolici, talvolta studiosi) sentimenti, con le nostre emozioni incorporate, la nostra etica, la nostra idea di modernità e la loro complessa storia».

Le risposte, pertanto, che fino ad ora sono state date e che richiamano situazioni di premodernità, di ignoranza e di superstizione, non sono affatto convincenti. Così come Palumbo pone, correttamente, la questione, essa non può essere liquidata con atteggiamenti snobistici e con giudizi espressi semplicisticamente e con aria di superiorità. Occorre, invece, indagare a fondo sulla situazione culturale di quella comunità cui appartengono i devoti dediti agli inchini e sui substrati storici sui quali quella cultura si fonda.

Questi, dunque, sono le premesse e i temi che Palumbo intende svolgere nel libro per cercare di dare delle risposte che saranno tanto più corrette quanto più l’antropologo saprà «contestualizzarli entro scenari sociali in cui agiamo (essi e noi)».  Ogni giudizio, ovviamente, va sospeso in tutto il periodo in cui si svolge la ricerca etnografica che per avere dati di riferimento certi deve essere molto lunga e deve coinvolgere il ricercatore. Gli esempi di lunga etnografia che Palumbo adduce sono quella di Jason Pine, la cui ricerca decennale ha avuto come oggetto la camorra e i cantanti neomelodici di Napoli; quella di Stavroula Pipyrou, che ha indagato, per molto tempo, le comunità grecaniche della Provincia di Reggio Calabria;  quella di Theodoros Rakopoulos, che ha scoperto come la mentalità mafiosa sia presente tra gli operai, cioè la parte meno consapevole di quelli che lavorano nelle cooperative che gestiscono i beni confiscati alla criminalità organizzata; ed, infine, quella che lo stesso Palumbo ha svolto durante i suoi anni trascorsi nel Sud-Sud-Est della Sicilia [1].

Altrettanto lunga e complessa deve essere un’etnografia che vuole capire cosa accade nelle comunità in cui una manifestazione di fede religiosa, come la processione di un santo, sembra trasformarsi in un omaggio a personaggi che la cronaca giudiziaria indica come capi di organizzazioni criminali, perché, come scrive Palumbo:

«mi è subito apparso chiaro come lo scenario che osservavo interrogasse orizzonti concettuali e categorie molto generali, quali le nozioni  stesse di religione, di devozione o, contemporaneamente, di spazio pubblico e di politica, i loro rapporti e, in ultima istanza, la peculiare conformazione che la modernità ha assunto in varie parti del nostro paese nel corso di processi di lunga durata».
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Palermo, Zen, Processione di Padre Pio

Avendo presentato così le metodologie seguite nella sua indagine etnografica, Palumbo ci racconta le sue esperienze, a partire da quella fatta a Messina e che riguarda la costruzione di una linea tranviaria che collega il Nord e il Sud della città. Il progetto originario prevedeva che il tracciato dovesse essere parallelo al viale Garibaldi, ma in questo modo si sarebbe sovrapposto al percorso che tradizionalmente fa la processione, ogni 15 di agosto, al seguito della vara dell’Assunta. Immediatamente insorse il comitato della festa e con esso buona parte della cittadinanza, col risultato che dopo qualche anno la linea tranviaria è stata realizzata ma spostata più ad oriente, lontana dal percorso della vara. Così, fa notare Palumbo, le strutture urbane della città sono state ammodernate non secondo le esigenze di un piano regolatore che si ipotizza abbiano una loro razionalità, ma su quelle che il capo del comitato della festa ha imposto al Comune e alla Curia.

Certo, oggi ci appare scandaloso il fatto di Messina; ma se si considera che per tutto l’Ottocento in molti paesi e città la rete viaria e la localizzazione di certe chiese e certi luoghi di culto furono realizzate secondo i bisogni della liturgia cattolica [2], che per lunghi secoli ha offerto i suoi riti come gli unici avvenimenti culturali alla quasi totalità della popolazione, non c’è da rimanere molto sorpresi. A Messina la possibilità che quello tradizionale, ritenuto l’unico e vero percorso della vara, potesse essere modificato, giustifica in qualche modo lo sconcerto e la preoccupazione della massa dei devoti; e a questo punto diventa comprensibile l’intervento della criminalità organizzata che, difendendo la tradizione e costringendo le autorità comunali a cambiare il progetto della linea tranviaria, rafforza presso il pubblico l’opinione che il potere non è dei sindaci e dello Stato ma di chi impedisce l’attuazione del progetto ritenuto sbagliato. Perché, aggiunge Palumbo, egemonizzare le festività religiose e soprattutto le loro modalità di rappresentazione significa avere influenza sulla massa popolare. A riprova di questa asserzione l’Autore riporta numerosi esempi tratti sia da ricerche specifiche su feste di alcune comunità, sia quelli riportati dalla cronaca nazionale dei quotidiani.

I due capitoli “Tra inchieste ed etnografia” e “Le chiese di Catalfàro” non sono che lunghi resoconti di feste patronali e processioni durante le quali avviene il rito dell’inchino. Soprattutto denso di notizie e di considerazioni il capitolo relativo alla lunga ricerca etnografica che Palumbo ha svolto nel Sud Est della Sicilia [3], dove la collocazione politica di ogni cittadino non è dovuta all’adesione a certe ideologie filosofiche o partitiche, ma si determina per il fatto di abitare e vivere nel territorio di una delle due parrocchie, quella di San Nicola e quella di Santa Maria: o si è nicolesi o si è marianesi; almeno per quanto riguarda la politica comunale.

È affrontata poi la questione di come si collocano questi riti degli inchini all’interno di una religiosità complessa come quella con cui il cattolicesimo si manifesta nell’odierna prassi italiana. Mentre prima difficilmente la cronaca giornalistica si soffermava su queste pratiche, oggi, forse perché c’è una maggiore attenzione nei confronti della criminalità organizzata e perché è cresciuto a livello dei cittadini il sentimento della legalità, o perché tra i cattolici c’è chi si vuole richiamare con più forza ai dettami del Concilio Vaticano II, di questi inchini spesso si parla sulla stampa e nei telegiornali.

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Napoli, Processione di San Gennaro

Il problema soprattutto si pone per quelle regioni in cui la devozione popolare si manifesta essenzialmente attraverso processioni, ostensioni pubbliche del santo festeggiato, spari di rumorosi fuochi artificiali, tutte attività estranee al clero. Le feste, infatti sono organizzate da laici: ci sono commissioni, comitati, governatori appositi che si propongono annualmente di organizzare la festa. In genere la Chiesa e i sacerdoti negli anni passati hanno lasciato fare, limitandosi a presenziare ai momenti liturgici. Dopo il Concilio Vaticano II, nel tentativo di riportare queste manifestazioni dentro l’alveo di una maggiore spiritualità, la Chiesa ha cercato di intervenire limitando, quando possibile, lo strapotere degli organizzatori; ma dove la tradizione è fortemente radicata i cambiamenti avvenuti sono stati di lieve entità e non hanno minimamente scalfito l’impianto generale della festa e della processione del santo [4].

Nei confronti di queste manifestazioni devozionali piuttosto sui generis, che si svolgono soprattutto nelle regioni meridionali italiane, con qualche episodio nelle zone del Nord dove ci sono folti gruppi di immigrati del Sud, l’opinione pubblica nazionale ha sentimenti che si collocano tra l’indifferenza e la curiosità per pratiche che ai loro occhi risultano quanto meno pittoresche. Quando, però, le cronache parlano degli inchini delle statue verso i balconi di qualcuno in odore di criminalità, ecco allora che giornali, televisione, intellettuali, politici e sacerdoti alzano la voce contro comportamenti ritenuti fuori della religione, superstiziosi e soprattutto ossequiosi nei confronti di quei gruppi criminali responsabili di spaccio di droga, omicidi, e reati vari più o meno gravi.

Tra i più ostili a queste manifestazioni sono ovviamente quei cattolici che si battono per il rinnovamento della Chiesa secondo gli esiti del Concilio Vaticano II; Palumbo riporta alcuni di questi interventi tra i quali quello, abbastanza radicale, del sacerdote Salvatore Resca di Catania che, all’approssimarsi della festa di S. Agata così dice: «Lascio la città, e non perché la festa popolare non sia bella, a chi piace il genere. Ma perché non è cristiana, è un falso, una patacca come tutte le altre feste religiose del mondo che sono dappertutto le stesse… ci vorrebbe una chiesa coraggiosa che distinguesse la religiosità dalla fede e dunque cacciasse da lì non solo i devoti mafiosi, ma i preti che sulla vara e sul fercolo raccolgono soldi e candele, mescolano le messe con le scommesse». Al che, giustamente, Palumbo fa osservare che distinguere tra una religione vera e una religione patacca è piuttosto arduo.

Tra il clero c’è stato anche chi ha cercato di dare una giustificazione sociologica al fenomeno, come il sacerdote Francesco Stabile che ha teorizzato una “religione municipale” o un “cattolicesimo municipale” per indicare quei gruppi che «vivono il loro sentimento religioso come religione civile che faccia da supporto alla secolarizzazione del potere politico»; anche queste posizioni sono per Palumbo insufficienti a spiegare il fenomeno perché si tratterebbe di un’esperienza che rimane chiusa entro confini locali. Altre critiche vengono da intellettuali che rappresentano la vox media della borghesia liberale italiana, come i giornalisti de La Repubblica Merlo, Messina e Augias che, a parte forse Merlo, portano argomentazioni che si possono smontare senza sforzo perché costruiti su una retorica stantia. Si vede che a Palumbo piace vincere facile, perché ha scelto come oggetto di controversia le opinioni di alcuni giornalisti di successo mediatico e non, per esempio, il parere ben più autorevole e competente di giuristi o di magistrati della DIA.

Resta, comunque, il fatto, come scrive Palumbo, «della partecipazione a queste manifestazioni di devozione religiosa popolare di parti cospicue del popolo dei fedeli che non solo non ne prendono le distanze, ma a quelle manifestazioni partecipano e plaudono. Evidentemente lo scenario è ben più complesso di quanto non lascino trasparire le prese di posizione ufficiali e richiede, come vedremo, puntuali approfondimenti».

Ma come vedremo anche noi, questi approfondimenti anziché chiarire le situazioni rischiano di essere fonte di ulteriore perplessità per il lettore. Palumbo è convinto, ed a ragione, che per spiegare fenomeni ritenuti “alieni”, come la ritualità mafiosa e la devozione fuori dagli schemi della religiosità ufficiale, i concetti di paganesimo, mentalità retrograda e di superstizione sono del tutto insufficienti; ma, a parer mio, le sue considerazioni che cercano di spiegarli aprono altri problemi. Cerchiamo di vederli uno per volta.

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Napoli, Madonna con la pistola (opera di Bansky)

È vero che questi fenomeni vedono molta partecipazione di popolo che approva e applaude: ciò, tuttavia, non significa che la quantità è indice di qualità, per cui, nonostante la moltitudine dei partecipanti resta l’impressione che di patacca si tratti, come si può vedere in fenomeni più clamorosi come le apparizioni della Madonna a Medjugorie o come le Madonne di terracotta che ogni tanto si lasciano scappare qualche lacrima. Se poi tutti i partecipanti a quel tipo di processione sono della stessa pasta di «zio Mariano», portato da Palumbo come esempio di sincera devozione, i dubbi sulla “fede” su cui si fonda tale devozione si moltiplicano all’infinito. Basta leggere il capitolo “Cento gocci di lacrime” per averne conferma. Il personaggio che Palumbo ci presenta, zio Mariano, appare come un uomo vissuto in un ambiente angusto, in cui in tutti i giorni della propria vita si fanno le stesse elementari cose come mangiare, lavorare, dormire le proprie otto ore quotidiane, tranne la domenica, quando andare a messa è l’unica divagazione; e poi, credere in un dio e soprattutto in una madonna che ti fa i miracoli quando ne hai bisogno. Palumbo commenta: «Quella di Mariano a me pare una fede intensa, legata alla credenza incondizionata dell’esistenza di un piano soprannaturale e focalizzata sulla sua Madonna dalla quale è certo di aver ricevuto un miracolo».

Mi sembra che qui l’antropologo manifesti nei confronti di Mariano la stessa fede che il personaggio ha nei confronti di quell’entità capace di fare miracoli, tanto da farglielo collocare all’interno di una “piena modernità” … A ragionarci sopra, la fede e la devozione di zio Mariano non sono affatto credibili: quando parla della sua devozione, l’uomo cade in uno stato emozionale profondo che si palesa con lacrime e tremori, che appaiono all’antropologo come manifestazioni di fede;  ma a chi, come me, non professa nessuna credenza metafisica, sembrano invece sintomi che potrebbero essere capiti solo con una profonda analisi psicologica e forse psichiatrica, che tenga pure conto delle strutture culturali, economiche e sociali in cui zio Mariano è vissuto per tutta una vita. Davanti allo spaesamento del contadino di Marcellinara, De Martino sente il bisogno di sapere cos’è la schizofrenia. Oltre all’antropologia, c’è una scienza che ci possa dire che cosa veramente sente don Mariano? A cosa sono dovuti i suoi tremori e i suoi pianti? A parer mio, una persona che ha avuto nell’orizzonte della sua vita solo l’immagine della Madonna (proprio e solo quella che si venera nella chiesa da lui frequentata) collocata sul capezzale, che crede che l’unica cosa importante della sua vita sia la processione del venerdì santo, non può avere che questa reazione, perché al solo pensiero di poter essere privato di queste cose, per lui vitali, per un capriccio del parroco, lo assalgono la paura e l’angoscia. A quel punto, purtroppo, non vede che un atto di violenza come estremo rimedio. E difatti, zio Mariano, cittadino di Catalfàro, schierato con i marianesi, nel 1994 era tra quei devoti che aggredirono il parroco che voleva spostare di un giorno la processione. Questo atto di violenza è un atto di fede? O va interpretato come nel sonetto che G.G. Belli dedica a “Giuditta e Oloferne”?

Ecchete come, Pavoluccio mio,
se po’ scannà la ggente per la fede
                                        e ffà la vacca pe ddà ggrolia a Ddio   (Son. 213, vv. 12-14).

Non tutti quelli che partecipano alle processioni e che assistono impassibili agli inchini sono fortunatamente come zio Mariano e non tutti i personaggi come don Mariano sono mafiosi o camorristi; per questo l’indagine antropologica e sociologica andrebbe svolta con criteri più severi e senza lasciarsi prendere dalle apparenze e da pregiudizi culturali.

È vero che quella delle processioni del Sud è la manifestazione di «una devozione popolare diffusa, sentita e sedimentata nel tempo, che assume caratteristiche distanti da quelle che la Chiesa contemporanea ritiene proprie di una corretta pastorale»; per capirla, tuttavia, forse sarebbe necessario fare un lungo discorso sulla storia del Mezzogiorno e sul perché queste manifestazioni di devozione e di religiosità emozionale accadono quasi esclusivamente da Roma in giù. C’è secondo me una linea di demarcazione netta tra un Centro-Nord in cui la borghesia capitalistica ha costruito un sistema politico sociale basato sul liberalesimo e sul liberismo, e un Sud in cui queste idee nuove non sono mai arrivate perché bloccate dalla nobiltà agraria che ha permesso alla borghesia settentrionale di fare le industrie nel Nord, in cambio del mantenimento nel Mezzogiorno dello status quo caratterizzato da: latifondo, società patriarcale, analfabetismo, subalternità nei confronti di una religione di Stato che abitua all’obbedienza, al silenzio, al fatalismo ecc. [5] cosa poi ripetutasi con il fascismo salito al potere grazie ai finanziamenti degli agrari meridionali. So che certe questioni non si possono semplificare, ma è un fatto che nel Meridione continua ad essere ancora viva una mentalità che può essere qualificata genericamente “mafiosa”; il voto elettorale, per esempio, è spesso voto di scambio (è ancora il do ut des degli antichi Romani), occultato in genere sotto la veste del patronage: quanti medici, avvocati e maggiorenti in genere, sono stati eletti nelle cariche pubbliche grazie agli orologi regalati ai ragazzi in occasione della cresima? o grazie all’autorevolezza che deriva loro dalla professione o dal ceto?

Familismo, patronage, favoritismi, raccomandazioni, voto di scambio, senso dell’onore, ecc.  sono tutti elementi che in genere compongono la mentalità e la cultura dei meridionali. Che sono così radicate e connaturate da non essere scalfite né dall’evoluzione tecnologica, né dalla scolarizzazione (tra l’altro piuttosto superficiale), né da eventuale espatrio (coloro che si sono trasferiti nelle Americhe e in Australia continuano a “pensarla” come quando erano in patria e questa mentalità è usata da loro come fattore identitario) [6].

L’agente della Polizia stradale, nato nel Meridione, quando opera in una regione del Nord è intransigente, non lascia impunita neppure una lieve infrazione al Codice della strada, si mostra più incorruttibile di Robespierre; trasferitosi però nella regione natia, si trasforma, lascia che l’amico parcheggi in zona vietata, non vede il motociclista senza casco, non fa più una multa tranne che non sia obbligato in quanto componente di un posto di blocco; ma anche qui contano i desideri dei superiori.

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Paternò, Processione di santa Barbara

Gli stessi intellettuali e i politici meridionali che assunsero cariche politiche nello Stato postunitario, difficilmente riuscirono (cosa che accade anche con i politici di oggi) a liberarsi di questa cultura così solida e impermeabile alle novità, tanto che a Roma facevano i liberali, e quando tornavano al paesello riprendevano la postura dei padroni latifondisti. Gli scrittori Verga, Capuana e D’Annunzio usavano il primitivismo come tema letterario: personalmente non avrebbero ucciso come Jeli l’amante della moglie, ma in fondo facevano il tifo per il pastore geloso e omicida. La loro posizione non era, come dice Palumbo, disemica, era piuttosto schizofrenica, perché sapevano che quella cultura siciliana e meridionale era “vecchia” ma ciononostante staccarsene per loro era difficile, forse impossibile, così sublimavano con la letteratura e, come Pitrè, con la ricerca demologica.

C’è nelle analisi di Palumbo una certa ambiguità di fondo. La rappresentazione che egli fa delle lotte partitiche tra nicolesi e marianesi di Catalfàro, è frutto di una lunga frequentazione etnografica, come è ormai nello stile di molti antropologi degli ultimi anni. Abbiamo visto, infatti, L. Wacquand e R. Sand fare, rispettivamente, il pugile e  il giocatore di football, per capire meglio la cultura che si esprime in questi due sport professionali; Palumbo cita come modello esemplare l’etnografia svolta da  Pipyrou, Rakopoulos e Pine il quale ultimo, addirittura, per entrare meglio nei panni dei neomelodici napoletani si mette a svolgere il lavoro di discografico insieme con un camorrista; allo stesso modo Palumbo si inserisce nel tessuto sociale di Catalfàro per comprendere  le basi della rivalità tra nicolesi  e marianesi e per capire i comportamenti di tanti devoti simili a  zio Mariano. E ci si introduce così profondamente da raccontare, compiaciuto, l’episodio della sua partecipazione alla schiticchiata (una scampagnata con grigliata) di amici, tutti maschi, che discutono come punire, accoltellandolo, un sacerdote reo di voler modificare la data di una processione; e, racconta pure, alla domanda su dove era stato, di aver risposto con una frase che ha il sapore sgradevole dell’omertà: «Nulla, una mangiata fra amici».

Mi sembra, a questo punto, che Palumbo vada oltre il suo lavoro di etnografo “osservante e partecipante”, perché a volte più che partecipazione la sua appare simpatia e solidarietà nei confronti di persone che, per quanto sincere ed inconsapevoli, hanno comportamenti devianti e divergenti rispetto all’odierna normalità. Certo, si può avere avversione per uno Stato che non fa nulla per scolarizzare, almeno, queste persone, per aiutarle ad uscire dal loro torpore culturale; per uno Stato che è più sollecito a difendere i privilegi delle classi dominanti che i diritti dei subalterni; che spesso è colluso – in forme molto più gravi di quelle della massa dei devoti che plaudono agli inchini – con la criminalità organizzata, con cui, nell’amministrare la cosa pubblica, condivide gli stessi scopi economici e finanziari. Occorre, tuttavia, ricordare che lo Stato è molto più complesso e socialmente più articolato di un gruppo mafioso o camorristico; e soprattutto è “disemico”, per usare un termine che piace a Palumbo: nel senso che esso ha sì la stessa tossicità delle cosche mafiose ma possiede altresì gli antidoti per combatterla.

Di questi antidoti Palumbo non parla, come se in Europa non ci fosse mai stata una Rivoluzione francese, né una rivoluzione industriale, durante le quali sono nati i concetti di “cittadino” e quelli di “libertà” e di “democrazia”; come se in Italia non ci fosse la Carta costituzionale del 1948. Per Palumbo le processioni devozionali con relativi omaggi ai malavitosi, gli autoflagellanti di Guardia Sanframondi, i fuienti di Napoli, la spogliata dei bambini di Catalfàro offerti alle statue sacre, l’idolatria per padre Pio, sono tutti fenomeni che appartengono alla “modernità”:

«Le famiglie mafiose talvolta provano a controllare i tempi e i ritmi delle processioni religiose e, occupando una precisa posizione sotto le vare, decidere il movimento delle statue; possono gestire i tempi, i luoghi e le modalità dello sparo dei fuochi d’artificio e così rappresentare pubblicamente il proprio status sociale e i rapporti di forza tra uomini. Questi esperti manipolatori dello spazio pubblico guidano auto di grossa cilindrata, maneggiano armi e droga e investono in complesse operazioni finanziarie; non sono dunque gli attori di una società arcaica, ma esponenti del cosiddetto casinò capitalismo».

D’accordo sul fatto che, se questi comportamenti e questi atteggiamenti sono arrivati fino a noi, sono da considerarsi nostri contemporanei, sono “moderni”. È vero anche che «gli esiti attuali non possono in alcun modo essere inscritti all’interno di un’ideale, astratta, omogenea e normativa idea di modernità», ma mi sembra altrettanto ovvio che saper pilotare un’auto di grossa cilindrata, maneggiare armi e droga e speculare in borsa sono abilità tecniche che non hanno nulla a che fare con una filosofia del mondo e della vita né con la sua eventuale evoluzione.

Ma se tali fenomeni, secondo Palumbo, appartengono alla modernità cosa distingue questa dall’arcaicità? Che forse buona parte dell’arcaicità si è travasata nella modernità? Se così fosse sarebbe necessario ridiscutere il concetto di cultura (non rinnegarlo) e insieme ridiscutere il concetto di evoluzione, così caro a molti intellettuali come Messina e Augias e diventato communis opinio nel corso del secolo appena passato. Forse bisogna accettare che i processi evolutivi delle società umane e delle loro culture non sono così lineari come il Positivismo ci ha insegnato ma complicati e aggrovigliati come quelli che, a sentire Telmo Pievani, riguardano anche la biologia.

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Ventimiglia, Processione della Madonna di Polsi

O forse, più semplicemente, dobbiamo studiare meglio la storia e considerare gli avvenimenti politici e sociali degli ultimi anni del sec. XVIII e dei primi del secolo XIX come spartiacque tra l’ancien règime e la modernità; avvenimenti tragici e terribili durante i quali furono forgiati i concetti di libertà, cittadinanza e democrazia. Se è vero questo, allora la modernità si caratterizza non per sapersi comportare da camorrista, ma per la presenza in essa di questi tre elementi. Non mi pare che nell’ossequio, nell’inchino che gruppi di uomini fanno, con la mediazione di una statua, ad una persona ritenuta molto importante e autorevole (e pure criminale), ci siano aspetti che rimandino al senso di cittadinanza e ai concetti di libertà e di democrazia. Se la mia coscienza rimane ferita dall’inchino di una statua ad un potere criminale, non è perché si usi un’occasione ritenuta sacra (la processione) e un oggetto di culto (la statua) ritenuto altrettanto sacro, ma perché un gruppo di miei concittadini palesa la sua fiducia nei confronti di una persona per la quale il delitto è prassi quotidiana, perché si sente sottoposta ad una legge che non è quella che rende tutti uguali ma quella che assegna un potere assoluto (e sacralizzato) ad una sola persona, ad un solo gruppo.

Palumbo non dice mai espressamente di parteggiare con questa massa di devoti che pratica una religiosità che comprende la “violenza” insita nella macchina della festa, l’autoflagellazione, l’idolatria, il maschilismo tipico di queste manifestazioni devozionali; afferma solo che si tratta di fenomeni moderni e che come tali vanno accettati. Quando, però, si dà un potere maggiore, santificandolo, ad un criminale che spaccia droga, che gioca in borsa col denaro riciclato, che condiziona l’economia di uno Stato (il direttore della DIA ha detto, a metà del luglio scorso, che, dopo la crisi dovuta alla pandemia del covid19, mafia, camorra e ndrangheta sono pronte ad intervenire finanziariamente là dove lo Stato non ce la fa, data la loro grande disponibilità di denaro liquido), non mi pare che l’antropologia possa limitarsi a dire che tutto va bene e che quelle persone si stanno comportando secondo le norme della modernità.

Anche nei confronti della religiosità popolare Palumbo rimane ambiguo. Egli riporta una frase di un vescovo fatta proprio dal Papa attuale: «La pietà popolare è il sistema immunitario della chiesa. Quando la chiesa incomincia a farsi troppo ideologica, troppo gnostica o troppo pelagiana la pietà popolare la corregge, porta tutta questa difesa». Il Papa avrà anche ragione nell’indicare nella semplicità e nella sincerità dei devoti le basi di una Chiesa povera, molto vicina a quella originaria. Il problema è che la religiosità popolare spesso e volentieri è servita a mantenere poteri politici ed economici niente affatto democratici; senza andare molto lontani nel tempo, basti pensare alle dittature sudamericane sostenute dalla Chiesa, con un Papa che va ad omaggiare gli uccisori di don Romero; ricordiamoci anche del franchismo in Spagna e del fascismo in Italia, nonché del Sillabo e del papato di Pio XII, delle sue scomuniche e delle sue “madonne pellegrine”. Ed è altrettanto vero che la Chiesa senza la religiosità popolare perderebbe buona parte o tutta la sua autorità; o addirittura perderebbe se stessa annientandosi: per contrastare questo eventuale pericolo, lungo i molti secoli della sua esistenza, ha cercato di piegare la ritualità e la religiosità popolare tradizionale cristianizzando feste ed usanze, momenti festivi e vita quotidiana. Ma non è riuscita a penetrare nella mentalità meridionale ed a quasi sessanta anni dall’apertura del Concilio Vaticano II i suoi parroci stanno a litigare con i vari comitati e governatori per decidere in quale data e come deve svolgersi la processione.

Questa incapacità o non volontà di chiarire ciò che è religioso e cosa è superstizione forse è funzionale al mantenimento in vita della stessa Chiesa (tra Papa, cardinali e teologici è possibile che non ci sia qualcuno che sappia trovare la differenza?); senza dubbio la confusione serve a Palumbo a dimostrare la modernità di una devozione popolare così equivoca.

Il testo di Palumbo forse è volutamente provocatorio, apre prospettive di riflessioni nuove e talora sorprendenti. È difficile però concordare con alcune sue asserzioni che non ammettono discussione, come le seguenti: a) «quando ti relazioni a questi modi di fare e di essere – se vuoi comprenderli e non giudicarli – devi mettere in discussione molte delle tue convinzioni e delle tue partizioni categoriali»; b) «Allora – a meno di non voler considerare tali comportamenti incivili, arcaici, pagani e criminali – la tue idee sui rapporti tra violenza, devozione e religione devono essere modificate».

Che si debbano mettere in discussione le nostre convinzioni quando ci si incontra o scontra con culture diverse dalla nostra è uno dei punti basilari dell’antropologia, ma non è certo con la perentorietà dell’invito che si ottiene un buon risultato; per quanto riguarda, invece, il secondo suggerimento non vedo perché lo studio di una cultura altra mi debba far cambiare giudizio su alcuni temi. Se per caso mi mettessi a fare ricerca etnografica su un gruppo che pratica il sacrificio umano e il cannibalismo, alla fine devo accettare quel comportamento e assistere all’uccisione di una persona e poi magari sedermi al banchetto? Palumbo non dice espressamente queste cose, ma non dicendo nemmeno quelle opposte, alla fine si può pensare che per lui sia normale non battere nemmeno ciglio e dire che in fondo, sì, si tratta di una “mangiata fra amici”. La comprensione dell’altro non implica necessariamente la giustificazione né tanto meno la condivisione.

Il libro, infine, sembra essere costruito su idee semplicisticamente esposte, non discute argomentazioni seriamente antagoniste (tranne quelle facilmente contrastabili), ha in qualche passaggio un certo piglio apodittico e un’astrattezza di fondo che mi pare caratterizzi quell’antropologia tanto di moda oggi, che affronta i problemi senza tener di conto della storia e delle condizioni materiali di vita delle persone.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
 Note
[1] Pine, J.A., Napoli sotto traccia. Musica neomelodica e marginalità sociale, Donzelli, Roma 2015; Pipyrou, S., The Grecanici of Southern Italy: Governance, Violence, and Minority Politics, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2016; Rakopoulos, T., From Clans to Co-ops: Confiscated Mafia Land in Sicily, Berghahn, New York-London 2017.
[2] Per esempio, quella del venerdì santo che vede il trasporto del Cristo dalla chiesa principale del paese a quella del Calvario, posta in un luogo lontano, magari su un poggio.
[3] Si veda il suo L’Unesco e il campanile, Meltemi, Roma 2013. Sulle vicende dei nicolesi  e dei marianesi delle due parrocchie di Catalfàro, che nel libro in questione sono riportate nel capitolo “Le chiese di Catalfàro”, sono raccontate in maniera molto distesa da Palumbo nel saggio  “Fuoco di devozione” e “politiche inquietudini”. Cerimonialità, potere e politica in un centro della Sicilia orientale, in La forza dei simboli. Studi sulla religiosità popolare, a cura di Ignazio E. Buttitta e Rosario Perricone, Folkstudio, Palermo 2000: 237-282.
[4] La mia esperienza riguarda solo due feste patronali, una, in Sicilia, studiata alla fine degli anni ‘80 del secolo scorso (La festa di s. Alfio, in «La Ricerca Folklorica», n. 25, Brescia 1992), e un’altra, in Campania, studiata nei primi anni del 2000 (La festa di sant’Antonio Abate: tradizione e innovazione nel Casertano, in «Archivio di Etnografia», n. 2, anno III, 2008). In entrambi i casi, pur a distanza di molti anni, ho potuto verificare la totale esclusione del clero dall’organizzazione della festa. Solo a Macerata Campania il comitato è emanazione della Chiesa, ma la festa si svolge per le vie e le piazze della città senza ostensione di simulacri sacri e nella totale laicità e “popolarità”.
[5] Su questi temi ci fu, alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso una lunga polemica tra Rosario Romeo che difendeva l’atteggiamento degli agrari meridionali e lo storico russo-americano Gerchenkron che proprio in quel comportamento vedeva l’origine delle differenze socio-economiche tra il Nord e il Sud dell’Italia. Si veda il volume La formazione dell’Italia industriale, a cura di A. Caracciolo, Laterza, Bari 1969, in cui sono contenuti i contributi dei due storici.
[6] Sul tema la bibliografia è piuttosto vasta, anche sul piano della letteratura e del cinema di massa: per tutti è sufficiente ricordare il romanzo di M. Puzo, Il padrino e ‘omonimo film con Marlon Brando. Per il resto mi limito a segnalare due lavori recenti: Martina Giuffrè, L’arcipelago migrante. Eoliani d’Australia, CISU, Roma 2010; M. Fresta, Cuori pieni di speranza. Pionieri italiani nell’Australia Nordorientale, in «Dialoghi Mediterranei», n. 41, gennaio 2020.

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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadino, Lo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003.  Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici.

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