di Muin Masri
Senza patria, senza casa, senza possibilità di ritorno. Palestina, per un intero popolo che vive di ricordi da più di 80 anni, quanto ancora può durare nel tempo la memoria collettiva? I vecchi, quelli che hanno avuto la fortuna di nascere liberi, ci raccontavano come era la vita prima della guerra o, meglio, delle guerre.
Ci sono posti nel mondo dove la guerra è di casa, dove la pace non è una vera pace, ma un periodo di calma apparente tra un conflitto e l’altro. Ma quante guerre ci sono state e ci saranno ancora in Palestina? Prima le milizie romane guidate da Pompeo, poi l’esercito del condottiero e sultano Salah Al-Din, poi i crociati, poi Napoleone Bonaparte saccheggiò la città di Jaffa, poi gli ottomani, gli inglesi e, per ultimo, gli israeliani.
Tutti sono passati da qui e, prima di andarsene, hanno lasciato le loro impronte e qualche vecchio insediamento: luoghi di culto, il vecchio acquedotto, carceri con le celle piccole e fredde, piante esotiche, chi ha lasciato il suo nome scolpito nella memora collettiva o ha rubato un tesoro sacro. Ma quanta gente è passata da qui e quanta ne passerà ancora? Dèi, profeti, santi, ladri e viandanti, ognuno ha lasciato il suo testamento, ognuno sognava il paradiso, invece ha trovato la sofferenza umana, il tradimento e l’abbandono.
Questa non è una terra come le altre, qui è un incrocio che indica il cielo con tutte le lingue del mondo. Qui ognuno pensa di essere il custode della verità, l’unico in grado di interpretare certi segnali, ma nessuno si rende conto di essere ostaggio della memoria. E il riscatto si paga con la vita. Il più delle volte la propria. Questo la gente lo sa benissimo, qui lo chiamano destino, fatalità, libero arbitrio; altrove, invece, lo chiamano fanatismo. La ragione, se esiste, forse sta nel mezzo, tra inferno e paradiso.
I vecchi avevano tante storie e aneddoti da raccontare a noi nati in casa durante quella che, pensavamo, sarebbe stata l’ultima guerra, l’ultimo l’assedio o un temporaneo coprifuoco. Hisham, addirittura, è stato partorito al checkpoint: per fortuna quella volta c’era una soldatessa con un cuore grande. Omar, invece, è stato freddato ad uno di questi stessi checkpoint: essendo sordomuto non aveva sentito l’alt e così il soldato, sentendosi minacciato, gli ha sparato un colpo in testa. Dicono che sia caduto piano pianino, come una piuma staccata da una colomba in volo, e che quando il suo corpo toccò terra quest’ultima non emise nessun rumore, divenne sordomuta per un attimo, in segno d’amore verso un ragazzo poco più che dodicenne.
I vecchi di un tempo erano acculturati e saggi perché, anche se non avevano mai letto Malcolm X, sapevano già che la storia è la memoria di un popolo e che, senza una memoria, l’uomo è ridotto al rango di animale. Loro erano consapevoli che l’unico modo per rendere i giovani fieri nonostante l’occupazione militare era raccontare come era la Palestina prima di cambiare il suo nome in mille altri nomi: Terra Promessa, Terrasanta, Terra di Israele, West Bank, Territori Occupati, Territorio dell’Autorità Palestinese.
Era bellissima. Era talmente bella che divenne il sogno proibito di potenze militari e autorità religiose. Samir diceva sempre che, forse, era meglio nascere brutti, in un paese brutto, sperduto in mezzo al nulla ed essere liberi, che nascere belli come dei divi, in un paese che profuma di paradiso e fare la vita degli ostaggi. Samir non amava le storie del passato, anzi, odiava il suo vecchio perché perse tutte le guerre lasciandogli la resistenza come unica eredità. Samir era talmente arrabbiato con la vita che aveva giurato che non si sarebbe mai sposato né avrebbe messo al mondo altri figli dei checkpoint prima di avere acquistato la sua libertà.
Quanto costa la libertà di un popolo? Quanta gente deve ancora morire prima di vedere l’alba di un nuovo avvenire? Quante storie devono essere ancora raccontate alle nuove generazioni per continuare a credere ad un futuro migliore? Samir non ha mai potuto sposarsi, è morto giovane in un giorno di pioggia sporca.
“Tempo, è questione di tempo”, dicono i vecchi e non sai mai se è per tirarti su il morale o per ingannare il tempo; sta di fatto che in Palestina il tempo sembra per davvero sospeso tra cielo e terra. In tempo di guerra e sotto l’occupazione militare il tempo è nullo come ogni cosa, la gente e le cose invecchiano da un giorno all’altro, assumono un colore grigio come la terra, non ci sono più le stagioni, non c’è più la luce, non c’è più religione e il gallo che cantava a tutte le ore, ora tace: troppi spari, troppo sangue, troppi uomini e animali morti.
Un giorno ho sentito un vecchio sopravvissuto a due occupazioni militari, quella ottomana e quella inglese, dire che Dio, ad ogni scoppio di guerra, si offende così tanto che manda dagli uomini l’angelo addetto all’orologio della vita per fermarne le lancette del tempo e che queste saranno ripristinate solo il giorno del cessato il fuoco permanente. Una sorta di maledizione, insomma. L’amico Alì domandò al vecchio: “Ma come hai fatto a sopravvivere così a lungo in assenza di tempo?”. “Io non sono vivo come sembra, io sono un testimone!”, rispose il vecchio senza nemmeno accennare ad un sorriso. Voleva far credere a noi ragazzini di essere stato accarezzato da Dio. Poi, un giorno, lo trovarono morto nel Giordano, cercava di scappare a nuoto nel fiume come faceva da giovane!
Il mio vecchio, invece, era appassionato di orologi, non proprio un collezionista. A Nablus c’era un tizio senza nome e senza fissa dimora che girava per la città con un numero impressionate di orologi custoditi in bella mostra dentro una scatola di latta. Il mio vecchio, ogni tanto, quando incontrava il tizio, lo salutava e provava al polso, uno ad uno, tutti gli orologi che gli piacevano. Un’operazione che durava un’eternità, ma nessuno dei due aveva fretta. Se, poi, gliene piaceva uno, chiedeva al tizio se e quanto avrebbe dovuto pagare per sostituire il suo orologio con uno “nuovo”. “Nulla”, era la consueta risposta. Così mio padre, alla prima occasione, cambiava orologio ogni volta, felice come un bambino. Un giorno, non so perché, mi raccontò che quel tizio, di cui nessuno sapeva il nome né dove abitasse, non era nient’altro che un viaggiatore nel tempo: un giorno lo trovavi qui a Nablus e un attimo dopo era capace di apparire a Gerusalemme; i tassisti locali giuravano che nessuno di loro gli avesse mai dato un passaggio. Preso dalla curiosità chiesi al mio vecchio: “Se lui è così capace di viaggiare nel tempo, perché non va via dalla Palestina? Perché non scappa in un posto dove non ci sono soldati né guerra?”. Il mio vecchio sembrava imbarazzato, non era pronto per una domanda così scomoda da parte di un bambino; dopo una lunga riflessione, rispose: “Lo fa per noi, non va via per tenerci svegli; il giorno in cui andrà via per sempre, tutti cadremo in un sonno profondo fino al giorno del giudizio”. Da bambino perdevo la ragione immaginando le peggiori cose se non vedevo più per lunghi giorni quel tizio che girava per la città con i suoi orologi. “Forse sono già morto!”, pensavo preoccupato.
Oggigiorno sono rimasti pochi vecchi che ricordano come fosse la Palestina prima di cambiare nome e diventare la Terrasanta per un altro popolo. Sono rimasti pochi i vecchi che raccontano storie, bellissime storie di come scorreva la vita prima di diventare sospesa. C’è chi si ricorda il giorno dell’inaugurazione del primo aeroporto in Palestina, con tanto di banda musicale. C’è chi ha volato fino in Libano o in Siria per giocare al casinò o per cercare cinque minuti d’amore. C’è chi si ricorda che da bambino partiva da Nablus di buon’ora con tutta la famiglia per mangiare pesce sul lungo mare di Jaffa per poi concludere la serata al teatro Jamal Basha, C’è chi faceva collezione di francobolli e chi è andato in collegio dalle suore italiane. C’è, addirittura, qualcuno che aveva comprato una Buick, per tutti e ovunque il vero sogno americano è un’automobile di lusso born in the USA!
I vecchi, quando raccontano storie, non sai mai se esagerano o se riferiscono sogni. Sta di fatto che siamo alla terza generazione di palestinesi nati, cresciuti e morti sotto l’occupazione militare. Che storie può raccontare alla futura generazione uno chiuso sempre in gabbia? La terza generazione di uccelli in cattività che, quando la metti in libertà, non si ricorda più come si vola. Che storie possono raccontare intere generazioni cresciute senza tempo né sogni? Tutte le storie sono grigie, tutte iniziano e finiscono alla stessa maniera “C’era una volta e chissà se c’era”.
Oggigiorno arrivare alla vecchiaia è un’impresa, l’età media è ancora la stessa di 2000 anni fa. E poi, quei pochi che raccontano storie lo fanno in forma anonima, senza firma. Sono come i ragazzini innamorati che scrivono parole d’amore rubate a chissà chi sul muro davanti alla scuola dismessa; prima o poi davanti alla pagina sbiadita della Storia, forse, qualcuno le leggerà e si ricorderà di noi, di un popolo pieno di storie, ma senza l’inchiostro, così scriviamo tutto con il sangue.
pozzanghere in mezzo alla strada
di acqua sporcata col sangue,
nebbie che abbracciano il pianto
di ombre nascoste nel buio:
aprendo gli occhi al mattino
è questa la mia città,
prigione tra terra e cielo
di sogni lasciati alle spalle.
brividi e troppa paura
silenzi che stringono rabbia,
giorni sprecati in attesa
e troppe vite bruciate:
occhi strappati dal cuore
per non soffrire mai più,
un lungo bagno nel nulla
dell’incubo che ci circonda:
questa è la mia casa,
questo tutto il mio mondo,
questo l’unico posto
in cui sono perso, e ora
non so più dove fuggire
per avere un soffio di vita,
un solo, breve secondo
che dia un senso, o almeno
mi regali una vana illusione
che dia una risposta al dolore
che nasce e cresce nel petto
dal primo all’ultimo sguardo.
tra stelle fuggite in un cielo
che non vuole splendere più,
e lacrime perse nel buio
di troppi ricordi stracciati
proseguo in un cammino
che non ha mai avuto meta,
mi muovo da nessuna parte,
e in nessuna parte arrivo.
(da un anonimo che si firma solo “Luca”)
La memoria di un popolo è la sua storia con tutti i sentimenti del caso e, come sottolineava lo scrittore Luis Sepúlveda, «un popolo senza memoria è un popolo senza futuro». Il problema è che quando la memoria e la storia vengono raccontate in tempo di guerra, è impossibile tramandare i racconti senza trasmettere anche gli effetti collaterali: i sopravvissuti non riescono ad andare oltre il loro dolore e chi li ascolta si sente prigioniero di un ricordo che non è suo e a cui non vuole mancare di rispetto, ma che pesa nel cuore e nell’anima, facendola diventare grigia. In Palestina, alla terza generazione nata al checkpoint, siamo tutti prigionieri del nostro dolore e nessuno riesce a comprendere la sofferenza dell’altro.
Qui sono passati tutti, qui tutti pensano di essere stati invitati, qui tutti si sentono testimoni, qui nessuno sa per davvero dove porti la strada, ci sono alcune indicazioni nel cielo, dicono, altri indicano il nulla, qui ci si perde nella memoria come nella nebbia in un giorno di Pasqua. Qui il sacrificio si fa dono, il peccato e il perdono diventano vita.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
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Muin Masri, di Nablus (Palestina), in Italia dal 1985, ha studiato informatica al Ghiglieno di Salerano e si è laureato in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Torino. Ha esordito nel 1994 con Racconti?, una raccolta bilingue (italiano – francese) pubblicata da Scriptorium. Ha pubblicato, tra l’altro, il miniracconto Le mutande nere (Goethe Institut, 1996), i romanzi Il sole d’inverno (Lupetti & Fabiani, 1999), Pronto ci sei ancora? (Portofranco, 2001 – Lochness libri, seconda edizione 2006) e Io sono di là (Michele di Salvo – Traccediverse, 2005). Nel 2001 ha realizzato Viaggio di sola andata, cinque episodi trasmessi da Radiotre nell’ambito del programma Centolire. Nel 2007 ha pubblicato due contributi nelle raccolte Cuori migranti (a cura di Lorenzo Dugulin – CACIT Editore) e Mondopentola (a cura di Laila Wadia – Cosmo Iannone Editore). Ha partecipato alla rassegna “Autori per Roma – la città e il mondo” con il testo teatrale “Mamma a Roma. Stop” (a cura del Teatro Eliseo e del Comune di Roma). Nel 2008 ha pubblicato il racconto “Estraneità” incluso nella raccolta Amori Bicolori (a cura di Flavia Capitani ed Emanuele Coen – Contromano, Editori Laterza). Dal 2007 al 2011 ha collaborato alla rubrica “Cronache italiane” per il settimanale Internazionale. Nel 2015 ha pubblicato con Streetlib e in formato ebook i racconti “Il fantasma, la vergine e lo spirito santo”. Nel 2024 ha pubblicato Vendesi croce con www.edizioninautilus.it di Torino.
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