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La maschera proibita riabilitata dal virus

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2020 @ 00:15 In Immagini,Società | No Comments

il mondo delle mascherine. Immagini

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

di Nino Giaramidaro

“‘Nfaccialati, eccellenza, erano tutti ‘nfaccialati”. L’omertà siciliana e mafiosa si disvelava con questa formula antica di secoli. La diligenza Wells & Fargo galoppava con dietro, sino all’arrivo dei “nostri”, un nugolo di Colt 45 e relativi detentori, tutti travisati da abbondanti fazzoletti. “O la borsa o la vita” è una frase che non so sia mai stata detta, però si adatta bene al “Passo dei ladri” di Trapani che evoca mascherati ben appostati. E tutti quelli che riposano nella memoria: Rocambole, Fantomas, l’Uomo Mascherato, Mandrake, Zorro. Alcuni senza camuffamento ma è come se l’avessero. Ed eserciti di fuorilegge rassicurati nell’azione dalla maschera.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Non credo di poter essere esaustivo, per esempio avevo dimenticato la Maschera di Ferro e alcuni spadaccini dai nomi irrecuperabili della cinematografia anni Quaranta-Cinquanta, e delle letture contemporanee di best seller ora sconosciuti. Il Domino, ossia il travisamento totale, dalla testa ai piedi, un unisex imperscrutabile pronto a qualsiasi insidia che potesse penzolare fra le sorprese del Carnevale. Non so per quale istinto, tolsi rapido la mascherina ad un domino rosso, mi arrivò uno schiaffo velocissimo da ore dieci, posizione da me trascurata: era un donna, e bella; ma c’erano apparenze ingannevoli come quella di P. R. che dopo aver avuto sgonfiato il seno da un ago (micidiale fuoco amico) si tolse la maschera e il marsalese dubitante disse: “Chiedo scusa signorina”.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Forse fa bene pensare a queste maschere oramai sbiadite, molte delle quali erano ricavate dalla retrocopertina dei quaderni di terza quarta e quinta, lisce o “bucciose”, manipolate da mani di fata ma anche da sforbiciatori privi di destrezza.

Forbici e forbicine sono tornate ad un’attività convulsiva per modellare maschere antivirus. Sì, in farmacia si trovano quelle da 5 euro (confezione da 10, prezzo prudente) che per ministri e governanti sono alla portata di tutti. Non è vero. Con 5 euro si può sbarcare di un giorno il lunario della cucina.

C’è gente che si ostina a dire che più nessuno non è in grado di investire 5 euro; così come gli scolastici sostengono che basta aprire il computer ed è come se si fosse in classe: non interessa sapere che l’Istat ribadisce che al Sud il 46% delle famiglie non ha un computer.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

L’arroganza di chi non ha mai camminato per una strada al di fuori del centro città o che sa che la povertà è più diffusa del virus ma che certo non può pretendere da se stesso di “addrizzari li ‘ammi a li cani”. Ecco, “tiremm innaz” come, per altri motivi, disse Amatore Sciesa.

Ma con il virus sempre vivace bisogna fare uso delle mascherine, primo presidio contro il contagio, qualcosa di simile alle maschere antigas dei tempi delle guerre. Difendono se stessi e gli altri se si chiamano FF P2 – non provo nemmeno a sfatare questa sigla – al modico prezzo di 6 euro circa l’una. Ed ecco l’entrata in scena di forbici e forbicine, Internet, supermercati dove fra qualche tempo troveremo anche forniture scontatissime per onoranze funebri. Sono il distintivo del trasloco di significati che la pandemia diffonde.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Per distanza sociale una volta si intendeva «l’indisponibilità e la chiusura relazionale di un soggetto nei confronti di altri, percepiti e riconosciuti come differenti sulla base della loro riconducibilità a categorie sociali». Insomma, una condizione sociale di chi sta sopra a chi sta sotto, e bisognava essere uniti per combattere le discriminazioni soprattutto economiche.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Ora distanza sociale – malamente tradotto dall’inglese – significa distanza personale, fisica l’uno dall’altro, insomma starsene alla larga persino da amici e familiari. Anche se la regina Elisabetta II sostiene che «Insieme stiamo affrontando l’emergenza, se restiamo uniti e risoluti vinceremo noi»

Lavarsi spesso le mani era allarmante sintomo di incipiente mania, ora è consigliato contro il contagio; ma vi sono scienziati che opinano: così si distrugge la flora batterica e si apre la strada all’infiltrazione di germi.

Il principio di contraddizione, fondamentale in filosofia, si installa anche nel combattimento fra luminari che dicono di avere ragione: dilapidazione di parole come un volo di cornacchie dai ponti dell’autostrada e apparizioni alla tv di volti sconosciuti che avrebbero entusiasmato Ezechia Lombroso detto Cesare.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Facciamo finta di niente, crediamo – con riserva – ai numeri e rifugiamoci nell’allegria delle mascherine: tutti i colori dell’arcobaleno, disegni forme geometriche fiorellini e arabeschi scritte pubblicitarie slogan proverbi, patriottiche colorazioni non riesco a ricordare altro. La fantasia dei coatti si sprigiona come un’esplosione pirotecnica, un esorcismo dipinto contro l’angoscia, per accalappiare le speranze.

Foto al ragazzo di un bar con una mascherina degna di un gangster, la vuol vedere, dice che bisogna rifarla: senza gli occhiali viene meglio. Una signora bionda e concitata racconta all’uomo (il marito?) seduto con lei ad un tavolino che un loro conoscente intimo l’aveva incrociata ma senza una parola di saluto, un gesto di riconoscimento. “E tu la mascherina l’avevi messa?” “Certo, sino a sotto gli occhi”.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Presuntuosi saluti a persone che “hanno gli occhi tali e quali”, amici che si incrociano per via senza parole. Ripensamenti e rincorse di sconosciuti scambiati per rispettabili conoscenti: una grande commedia degli equivoci che farebbe sbellicare dalle risa persino Georges Feydeau.

L’eleganza e la disinvoltura sono immuni dal virus, così si è propalata la moda di come portare la mascherina. Banale “a sottogola”, che ricorda la calza piena di “canigghia” calda contro il mal di gola. “Alla capitano”, in alto sull’omero come da regolamento il giocatore “capo” di calcio. “Gomitale”, cioè a protezione del gomito “in guisa” di quella parte snodabile dell’armatura medievale. “Da polso”, modo sbarazzino ma poco igienico perché mani e avambraccio spesso poggiano sul banco del bar, ai tavolini e in molti altri luoghi di aggregazione del virus e tanti altri contagi.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

C’è pure la modalità “orecchino”, la mascherina che pendoleggia dal padiglione auricolare e, spesso, finisce dentro la tazzina del caffè. Rari i casi rivelati “alla playboy”, ossia innalzate sulla testa come i Persol e i Ray-ban dei più irresistibili seduttori.

Insomma, una volta c’era “Lu babbu di la fera” al quale subentrò negli anni bellici “Ma chi ssì, di l’Umpa” con interrogativo retorico – a Messina più esplicitamente si diceva Babbu ‘i l’Umpa – conseguenziale lo “Scemo di guerra”, ora sembra farsi strada lessicale “L’alluccutu di lu virus”.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Seguiamo il millenario andare a zonzo della mascherina, con ascensioni a volte luminose e felici, e con cadute nelle zone d’ombra bacchettona che ci hanno fatto assistere a carnevali smascherati e processioni dei Misteri senza gli incappucciati. Solo la malattia riesce ad avere la meglio sugli ordinamenti di pubblica sicurezza che vogliono il viso scoperto, disarmato di fronte a qualsiasi sguardo, e a volte anche ben rasato e terso.

Ecco, seguendo questa interpretazione della vita troviamo una sentenza d’appello che conferma quella di primo grado: «vietato l’uso del burqa nei luoghi pubblici con elevato numero di persone». Ora il burqa, il chache-nez, lo chador e la mascherina sono obbligatori negli stessi luoghi ad alta densità di presenze. Le leggi di polizia, che interdivano anche il tenersi il casco in testa entrando in un negozio, devono arrendersi. Di fonte alla emergenza sanitaria il poliziotto deve arrangiarsi.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Questione che involve pure Paesi più intransigenti del nostro. Il New York Times ha riportato le opinioni di varie personalità, tra le quali quella di una musulmana inglese che con il divieto di indossare il velo si era sentita “personalmente attaccata”, mentre ora la diffusione di dispositivi per coprire il volto l’ha fatta sentire “vittoriosa”.

Karima Rahmani, a capo di un’associazione di donne che indossano il niqab nei Paesi Bassi (dove la proibizione di indossare il velo è stata introdotta per ragioni di sicurezza) trova “ironica” la situazione, ma dice anche di aver notato «un cambiamento positivo nei suoi confronti quando esce di casa: per anni è stata considerata pericolosa e disconnessa dalla società, ma ora tutti indossano le mascherine». Ma basteranno contro la recrudescenza di contagi che in questi giorni ci avvilisce?

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Forse bisognerà tirare giù dai solai anche i più “tarmati” domino che assicurano una protezione integrale. Così come l’abbigliamento degli “apparitori” che nel quindicesimo secolo erano incaricati dai comuni di preannunziare l’arrivo dei carri dei monatti con il suono di campanelli che tenevano ai piedi o alla cintola. E portavano una maschera con un lungo rostro pieno di paglia e di altre robe filtranti che li facevano apparire come neri uccellacci di sventura più che ambasciatori della prevenzione.

Insomma, la storia può darci una mano mentre gli studiosi del vaccino ne annunciano uno al giorno nei grandi vuoti televisivi – a volte caricandolo di valenze tardo nazionaliste – ma dei quali poi si disperdono le più irrisorie tracce.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020

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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate in occasione del terremoto del 1968 nel Belice.

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