In un’epoca in cui la lotta alla mafia e le azioni svolte a difesa della legalità sono sempre più di dominio pubblico, quanti sanno che Pietro Calà Ulloa fu il primo giudice antimafia del Regno delle due Sicilie e d’Italia? Procuratore generale del Re presso la Gran Corte criminale di Trapani e poi alla Gran Corte criminale e civile di Messina, negli anni 1838-1846, «Ulloa fu il primo che fornì una fotografica e plastica enunciazione della mafia ante litteram». Le tante storie che hanno raccontato il fenomeno mafioso siciliano iniziano invece la loro trattazione dall’Unità d’Italia, trascurando i periodi precedenti ad essa.
Da qui parte la ricerca appassionata e complessa condotta per oltre cinque anni dallo scrittore trapanese Salvatore Mugno, e approdata nel marzo di quest’anno, in un corposo volume dal titolo Nascita della mafia. Storie di “uomini d’onore” istruite in Sicilia (1838-1846) da Pietro Calà Ulloa, il Procuratore generale del Re che scoprì la piovra, pubblicata della casa editrice palermitana Navarra.
Si tratta di uno studio accurato, mancante nel panorama saggistico nazionale molto prolifico invece sul fenomeno mafioso – per lo più su quello degli ultimi trenta/quarant’anni che ha fatto anche le fortune di molti – Uno studio che va a ritroso e risale alle origini di un fenomeno che si presentava con un altro nome ma che già dominava in certi contesti e frangenti condizionando la vita politica e sociale della Sicilia. Il saggio è costruito con centellina pazienza «su documenti per lo più inediti e si avvale della ricostruzione dal vero di decine di vicende giudiziarie, anch’esse mai studiate e pubblicate» per arrivare a descrivere con precisione la personalità e l’attività svolta in Sicilia dal Procuratore generale del Re Pietro Calà Ulloa nato a Napoli nel 1801 e morto nel 1879, considerato il primo magistrato antimafia del Regno delle Due Sicilie e d’Italia. Il magistrato campano operò a Trapani per sette anni presso la Gran Corte Criminale e poi, per oltre un anno, a Messina, e in questo lasso di tempo prese coscienza, prima di rientrare nei territori al di qua del Faro – cosa significasse l’organizzazione criminale e come operava nell’Isola.
Ma Ulloa si scopre essere una figura poliedrica, non solo magistrato, anche avvocato, fine letterato e uomo politico napoletano, nato da una famiglia di aristocratici con madre irlandese. Nella sua biografia ufficiale viene dipinto anche come tombeur de femmes negli anni giovanili e anche dopo il matrimonio.
Il vuoto di un’epoca rimasto nell’oblio è adesso colmato grazie a questo voluminoso lavoro che parte dalle origini ma riporta al presente. Non che studiosi di fama non abbiano ricordato la figura del magistrato, e fatto riferimento ai suoi scritti – scrive Mugno – ma quando lo hanno ricordato lo hanno liquidato in poche righe quando addirittura non lo hanno ignorato. Pochi in verità si sono fatti carico di andare al di là delle due più note relazioni inviate nel 1838 al ministro di Giustizia Parisio. Dennis Mark Smith per esempio si è limitato ad una citazione, e se anche Leonardo Sciascia «riconosce la primazia di Ulloa in materia di percezione e definizione del fenomeno mafioso – citandolo più e più volte – non muove significativi passi nell’approfondimento dell’azione e della documentazione giudiziaria prodotta dal solerte pubblico ministero borbonico nei suoi magistrati anni in Sicilia».
Il volume di Mugno scava nei significati, nelle storie e si compone grazie alle indagini e alle lunghe letture di materiali mai analizzati, individuati dopo impegnative ricerche presso gli Archivi di Stato di Napoli, di Palermo, di Messina e di Trapani. È lì che Mugno ricompone i pezzi di un puzzle storico in cui «i futuri mafiosi ancora trovavano ospitalità nell’antenata Setta degli intraprendenti e dei facinorosi». Tra le espressioni precorritrici del termine mafia coniate dal Procuratore c’è quella di colpevoli associazioni intendendo una associazione nella quale «la copertura, la complicità e la connivenza di uomini di poteri pubblici e dei maggiorenti economici e sociali questa si sostanzia».
Chiara in tal senso una lettera del 5 settembre 1838 indirizzata al luogotenente generale di Sicilia, e riguardante soggetti del piccolo Comune di Vita. In alcuni episodi in cui emerge anche la connivenza di prelati e sacerdoti. Nella disamina, i fatti narrati si rincorrono ed è interessante analizzarli nei loro contesti – si parla di abigeato e trattative di accomodo per esempio, di intermediazioni di un uomo d’onore, di un processo a tredici ribaldi operanti in combutta con i boss di Castelvetrano, di animali rubati e sequestri di persona nei territori di Vita, Santa Ninfa e Salemi, o ancora di intrighi dei Caronna di Salaparuta, preti borgesi e facinorosi. Gli episodi sono tanti e disparati e il loro racconto è scorrevole e disvelato a volte come fosse la trama di un romanzo giallo.
Ripercorrendo atti giudiziari, missive, documenti, incartamenti prodotti dal procuratore generale emerge dunque come il giudice avesse senza ombra di dubbio individuato e descritto con precisione il fenomeno criminale già sviluppato nell’isola. Che poi la definizione degli uomini assoldati e dediti all’organizzazione criminale prendesse i nomi di facinorosi, masnadieri, briganti, banditi, malfattori, malandrini, comitive armate, scorridori di campagne e altro ancora era poco rilevante perché ognuna di queste espressioni era in qualche modo riconducibile ad un gruppo organizzato atto a commettere soprusi.
La data che potrebbe segnare lo spartiacque della ricerca consegnata alla lettura di appassionati e di coloro che vogliono prendere conoscenza ab origine di un fenomeno che ha distrutto vite e formato mentalità riprovevoli oltre che condizionato la vita politica, sociale ed economica è il 3 agosto 1838, quando per la prima volta Ulloa delineò la nuova fenomenologia criminale che – scrive Mugno – «si sostanziava in una emergente struttura unitaria associativa, già a livello provinciale e perfino regionale, formata da fratellanze, sette o partiti, come egli li chiamava».
Nelle indagini, che confluirono in molti carteggi consultati dallo scrittore, Ulloa non usò mai i termini mafia e mafioso, «ma quei suoi scritti dipinsero esattamente un fenomeno ancora in nuce, lo stesso che, circa centocinquant’anni dopo, due suoi altrettanto illustri e del pari bistrattati colleghi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, osserva l’autore, dimostreranno esistere, in modo finalmente incontrovertibile, anche giudiziariamente, attraverso il maxiprocesso di Palermo degli anni Ottanta e Novanta del Novecento. «Eppure – insiste Mugno – Ulloa è un personaggio oggi quasi totalmente e ingiustamente obliato». Spiega: «Ulloa manteneva un rapporto stretto e privilegiato col Ministro di Grazia e Giustizia del tempo, Nicola Parisio, a cui indirizzava costantemente delle relazioni riservate».
L’arco temporale su cui Mugno si concentra parte dalle prime settimane in cui il magistrato approda in Sicilia, e, via via tra documentazioni e lettere svela quale fosse la condizione dell’Isola sotto il profilo giudiziario e criminale. Prosegue poi con le tante azioni che lo stesso compie per scoprire e rilevare le dinamiche mafiose che si concludono con successi ma anche amarezze. Scorrendo i capitoli del saggio diviso per anni si scoprono gli affari della mafia e il reticolo delle “famiglie”, le cui prime “collaborazioni” riguardavano il commercio di animali rubati e trasferiti da una provincia ad un’altra e – scrive Mugno – erano moltissimi i casi di coloro che subivano un furto che, piuttosto di denunciare il reato, cercavano una componenda con i ladri, un accordo al di fuori delle leggi per la restituzione dei beni derubati, spesso incaricando della ricerca del maltolto dei campieri o altre ambigue figure “autorevoli” che agivano come mediatori e compositori del “conflitto” e dei contrapposti “interessi”.
In appendice il libro raccoglie comunicazioni e rapporti inediti di Ulloa sulla lotta alla criminalità organizzata e sulla realtà sociale e giudiziaria in Sicilia in quegli anni. «I manuali sulla mafia – conclude Mugno – dovranno adesso essere ampliati e aggiornati».
Il corposo volume (480 pp.) nel quale è confluita la ricerca e il difficile studio arricchisce il percorso dello scrittore abile nell’approfondire e scavare dentro gli archivi regionali e nazionali e scovare documentazione sepolta ma utile a capire certi fatti e certi fenomeni siciliani. Ne sono testimonianze i libri Decollati. Storie di ghigliottinati in Sicilia (2019), Sentenze di ghigliottinati in Sicilia (2019) e I carnefici di Sicilia (2021). Della mafia recente invece Mugno si era già occupato nei saggi Mauro è vivo. L’omicidio Rostagno dieci anni dopo, un delitto impunito (Coppola Editore, 1998), Matteo Messina Denaro, un padrino del nostro tempo (Massari editore, 2011) e Una toga amara. Giangiacomo Ciaccio Montalto, la tenacia e la solitudine di un magistrato scomodo (Di Girolamo Editore, 2013).
Nella città di Trapani, e così nel resto dell’Italia, l’opera di questo elevato magistrato non è ricordata; solo un busto di Pietro Calà Ulloa si trova al Museo Storico della Scuola Militare “Nunziatella” di Napoli ma lo ricorda non per i suoi meriti contro la mafia. Anche Napoli, sua città natale, lo ha dimenticato; da una rapida ricerca on line emerge infatti che solo ad un fratello generale è intitolata una strada del capoluogo campano.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
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Mariza D’Anna, giornalista professionista, lavora al giornale “La Sicilia”. Per anni responsabile della redazione di Trapani, coordina le pagine di cronaca e si occupa di cultura e spettacoli. Ha collaborato con la Rai e altre testate nazionali. Ha vissuto a Tripoli fino al 1970, poi a Roma e Genova dove si è laureata in Giurisprudenza e ha esercitato la professione di avvocato e di insegnante. Ha scritto i romanzi Specchi (Nulla Die), Il ricordo che se ne ha (Margana) e La casa di Shara Band Ong. Tripoli (Margana 2021), memorie familiari ambientate in Libia.
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