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La lingua e l’aratro. Per una lettura critica dei mutamenti interiori

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2021 @ 00:37 In Cultura,Società | No Comments

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Renato Guttuso, Contadini siciliani, 1951

per l’italiano

di Valerio Cappozzo

In una delle favole di Esopo, un anziano contadino decide in punto di morte di insegnare il segreto dell’agricoltura ai propri figli: «Figlioli, in una delle mie vigne è nascosto un tesoro» (XLII). Dopo la sua morte questi presero aratri e zappe e si misero a scavare per tutto il terreno. Il tesoro non lo trovarono ma la vigna diede loro un raccolto molto più abbondante.

Questa antica parabola greca si adegua bene al concetto stesso di letteratura, dove più si scava nel significato delle parole più frutti si riescono a cogliere. Effettivamente, la lingua italiana comincia a formarsi con una metafora agricola. La prima testimonianza scritta è dell’VIII-IX sec. e si presenta in questo modo:

«separebabouesalbaprataliaarabaetalboversoriotenebaetnegrosemen/seminaba».Un solco dritto e preciso che, versificato, ci mostra un celebre indovinello:

Se pareba boves                                 Preparava i buoi
alba pratalia araba                              arava dei bianchi prati
et albo versorio teneba                       e teneva un aratro bianco
et negro semen seminaba                      e un nero seme seminava

Le dita della mano sono i buoi, le pagine i prati bianchi, la penna d’oca è l’aratro e l’inchiostro il nero seme. La soluzione è la mano che scrive, l’atto di smuovere le idee per renderle fertili e permettere al testo di essere raccolto dal lettore.

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Sopra: Indovinello veronese, Verona, Biblioteca Capitolare, cod. XXXIX, c. 3r (VIII-IX sec.) – Sotto: Placito Capuano (marzo 960)

La metafora tra la scrittura e il più antico strumento agricolo segna il primo sviluppo della nostra lingua che si sta liberando dalle forme complesse del latino a favore di una maggiore comunicabilità e diffusione. Per esempio, nell’indovinello veronese troviamo l’uso di se al posto di sibi, l’eliminazione della t desinenziale nei verbi all’imperfetto, la grafia di negro al posto del corretto nigro, e ancora la -um che diventa -o, come in albo e versorio. Ma oltre a semplificare le forme linguistiche latine, questo indovinello punta sulla prospettiva giocosa e didattica andando contro gli scolastici che invece tenevano a conservare le forme corrette della lingua ecclesiastica. La lingua volgare, in questo caso campana, comincia a normalizzarsi nel X sec. in un contesto giuridico, dove la questione dibattuta sono i confini di alcuni terreni tra il monastero di Montecassino e un feudatario del beneventano: «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti» (Capua, marzo 960 d.C.). Anche in questo caso notiamo che la lingua italiana si continua a formare intorno al tema della terra, dei terreni, di quel lembo – o potremmo dire di quel foglio – sul quale l’uomo si è sempre adoperato per il proprio sostentamento, fisico e intellettuale.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Nel primo esempio poetico in volgare umbro del 1224 circa, Francesco d’Assisi lega l’essere umano al creato, dando alla scrittura una funzione creativa seguendo l’etimologia della parola poesia, quella di fare, produrre, comporre. In questa che viene considerata la prima lirica della letteratura italiana, la terra diventa madre, mentre il sole, la luna, il fuoco e l’acqua, fratelli e sorelle di una famiglia dove ognuno ha la sua funzione naturale. Quella degli esseri umani è di lavorare la terra e di usare il linguaggio; «in principio era il verbo», con il quale è possibile creare un mondo letterario come rappresentazione della natura e dei fatti che ci circondano.

Dante entrerà addirittura nella Terra penetrandone i più profondi recessi prima di trovare nuove parole che lo porteranno a trasumanare, e così a descrivere l’empireo e l’emanazione simbolica del divino. Al suo tempo, il latino era ormai corrotto per cui era urgente perfezionare la nuova lingua dandole eleganza e pregnanza con un lavoro complesso, il De vulgari eloquentia, che ha dovuto accettare compromessi tra i diversi dialetti, delusioni quando un uso viene smarrito – oggi è il caso del congiuntivo – e integrazioni con altre lingue straniere, e così italianizzazioni di termini antico francesi o provenzali, o nella nostra modernità inglesi legati all’informatica. Un arricchimento semantico che in Dante ha significato la creazione dei tanti neologismi presenti nella Commedia e ha permesso di combinare i diversi registri linguistici che, alla luce della struttura narrativa del poema, servono a rendere pregnanti i passaggi fondamentali del viaggio oltremondano che deve discendere nella terra per aspirare al cielo.

Oggigiorno, quindi, più che il dibattito sulla lingua, sull’intromissione di termini stranieri proprio in occasione dei vari lockdown, dovremmo discutere sulla capacità che abbiamo di scavare dentro di noi, e andrebbe benissimo usare gli anglismi per farlo, ma il nodo della questione non sono le parole o la lingua utilizzate, ma la profondità di significato, il lessico che se esageratamente semplificato non potrà arrivare a essere espressione di uno stato d’animo o di una condizione.

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Antonio Ligabue, Aratura con buoi 2, 1950-55

Durante il periodo pandemico ci siamo dovuti abituare alla verità degli eventi osservati dalla reclusione in cui il nostro silenzio è corrisposto all’essenzialità delle parole e dei sentimenti e, una volta tornata la situazione a una timida normalità, subito è ripresa la retorica, le discussioni faziose che rischiano di far svanire anche qual momento di riflessione intima che, volenti o nolenti, abbiamo avuto. Ora c’è bisogno di parole oneste, di quei semi che la mano dello scrittore mette nel campo arato della pagina bianca, o di quel tesoro, come ci dice Esopo, che serve a smuovere le parti brulle e rinsecchite del carattere di ognuno.

Con il distanziamento siamo stati costretti all’impotenza delle reazioni fisiche, dei contatti, del linguaggio corporeo su cui si basava il modo di esprimersi, e tutto è stato introiettato più che mai, coinvolgendo i ragionamenti, i bisogni e le aspettative. Ci siamo visti bloccati in un limbo di suoni domestici, di luminescenze riflesse attraverso le pareti di vetro dell’acquario che abitiamo, e abbiamo cercato le parole giuste nella saggezza degli scrittori antichi per cercare conforto, per ascoltare l’esperienza di chi già ha vissuto situazioni epidemiche simili. Ma in fondo né Boccaccio, né Manzoni o Camus ci hanno potuto consolare mentre ci confrontavamo con la leggerezza del nostro stesso vocabolario interiore che goffamente cerca di integrare mille termini inglesi mal pronunziati e usati spesso impropriamente.

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Fortunato Depero, L’aratura, 1926

Sembra sfuggirci la ricchezza della lingua, le sue caratteristiche determinate dalla scelta dei vocaboli, dal loro ordinamento e posizione che occupano nel sintagma, dalla trasposizione di significato e dalle figure retoriche, dal senso assoluto e relativo delle parole, dal senso letterale, morale, allegorico e allusivo del linguaggio. Sembra ridotta l’importanza della struttura sintattica ai fini di un’espressione corretta e particolarmente incisiva, che può anche contemplare la contaminazione di parole straniere solo quando considerate segnali di nuove idee che hanno bisogno di nuove forme per essere espresse.

Forse dovremmo accogliere il nuovo linguaggio che avanza e intenderlo come naturale evoluzione di una società, pur se formato anche da faccine gialle che sottolineano il modo in cui si vuole dire una cosa senza dirla pienamente perché in fondo sono indice del nostro stesso limite a saper descrivere chi siamo e come ci sentiamo. Siamo noi, non le faccine, a produrre il suono, il senso e i significati delle parole, siamo noi a disporli in una frase e non è il linguaggio a essere manchevole, al contrario è sempre disponibile e non gli importa in quale misura venga usato, ma è lì che aspetta gli venga data una ragione che riesca a scavalcare i termini convenzionali per diventare voce personale, risultato di una nostra lettura critica, cioè interpretativa, dei cambiamenti esteriori come di quelli interiori.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021

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Valerio Cappozzo, Professore di letteratura italiana all’University of Mississippi, è autore del Dizionario dei sogni nel Medioevo. Il Somniale Danielis in manoscritti letterari (Leo S. Olschki 2018). Membro del comitato scientifico di diverse collane e riviste letterarie e filosofiche, è presidente dell’Associazione Amici di Leonardo Sciascia, vice-presidente dell’American Boccaccio Association e  co-direttore della rivista «Annali d’Italianistica».

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