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La Libia è stata la pompa di benzina dell’Italia. Quali prospettive per il futuro?
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2017 @ 00:47 In Politica,Società | No Comments
di Michela Mercuri
Sarebbe impossibile ripercorrere in poche parole la storia della politica energetica italiana durante il lungo “regno” di Gheddafi [1]. In estrema sintesi po- tremmo dire che i rapporti tra l’Italia e la Libia sono stati contrassegnati dalle “bizze” del rais per il mancato rico- noscimento dei danni causati dagli italiani nel corso della colonizzazione, ma gli interessi economici ed energetici e la minaccia di Gheddafi di influenzare i flussi migratori diretti verso l’Italia hanno impedito ai vari leader che si sono succeduti alla guida del governo di Roma di rifiutare molte delle sue richieste.
Quando il rais, nei primi anni settanta, decise di nazionalizzare tutte le imprese italiane in Libia salvò dalla confisca le proprietà dell’Eni e della Fiat. Questa sarà la “croce e delizia” dell’Italia per tutti gli anni a venire. Nel tempo, infatti, nonostante l’appoggio dei governi e dei servizi segreti italiani al colonnello, e nonostante i miliardi versati dall’Eni nelle casse libiche, i rapporti col rais sono state contrassegnate da molti “rospi da ingoiare” pur di mantenere le necessarie relazioni commerciali. D’altra parte, la Libia è stata la pompa di benzina dell’Italia per mezzo secolo e ha contribuito al suo sviluppo economico, è comprensibile che Roma abbia anteposto la realpolitik dell’interesse nazionale all’orgoglio personale e anche per questo il Cane a sei zampe è divenuto il principale partner del Paese. Ma andiamo per gradi.
La compagnia petrolifera italiana era attiva in Libia già dalla fine degli anni trenta del secolo scorso, e in particolare dal 1939 quando, subito dopo la casuale scoperta del petrolio, l’Agip, in partnership con l’Eni, diede il via alla cosiddetta «operazione Petrolibia» con l’obiettivo di ricavare benzina dalla sintesi chimica. Il primo accordo fu, però, raggiunto solo nel 1959 quando la Compagnia ricerca idrocarburi (Cori) – di proprietà Agip per il 90% e Snam progetti per il 10% – ottenne il permesso di avviare attività nella zona della Cirenaica. Fu l’inizio della collaborazione energetica italiana con Tripoli. L’Eni si aggiudicò importanti concessioni grazie alle royalty molto vantaggiose che offriva ai libici: tra il 1968 e il 1969 la Snam Progetti ottenne varie concessioni e successivamente i tecnici italiani scoprirono l’immenso giacimento di Bu Attifel [2]. Tanto basta per capire che il colpo di Stato del 1969, con cui Gheddafi rovesciò la monarchia di Re Idris, sarebbe potuto essere una catastrofe per l’attività petrolifera dell’Eni e per l’economia italiana.
Il 5 maggio del 1971, poco dopo la cacciata degli italiani dal Paese, l’allora ministro degli esteri italiano Aldo Moro si recò a Tripoli dal colonnello. Si narra che Moro fu costretto a guardare Gheddafi dal basso verso l’alto perché il rais non scese mai da cavallo. Al di là degli aneddoti, secondo le fonti ufficiali, quell’incontro ebbe come oggetto la modernizzazione della Libia a cui l’Italia avrebbe contribuito con manodopera qualificata nel settore petrolchimico, con tecnologia per impianti industriali e con la realizzazione di opere infrastrutturali di notevoli dimensioni. In cambio gli italiani avrebbero avuto vantaggi nell’approvvigionamento petrolifero e anche nella fornitura di armi ed equipaggiamenti militari. D’altra parte era questa la nuova fase mediterranea della politica estera di Roma e Moro ne era ben consapevole [3].
Il nuovo corso della strategia italiana verso i Paesi arabi, specie quelli produttori di petrolio, era segnato anche dall’Eni che con Enrico Mattei cominciò ad attuare una propria politica estera. La compagnia italiana non era ben accetta al tavolo delle grandi compagnie internazionali, in modo particolare di quelle britanniche. Come ricordano Fasanella e Cereghino, era ammessa a sedersi, tutt’al più, su uno strapuntino. Tuttavia l’Italia – e soprat- tutto Mattei – non voleva assolutamente dipendere dal punto di vista energetico dalle policy imposte dalla Gran Bretagna e iniziò, dunque, a cercare autonomamente le fonti di approvvigionamento offrendo ai Paesi produttori di petrolio, che erano quasi tutti controllati dalle compagnie britanniche, condizioni più favorevoli: non più la famosa regola del fifty-fifty imposta dalle sette sorelle – 50% ai produttori e 50% alle compagnie petrolifere straniere – ma il 25% alle compagnie e il 75% ai produttori [4]. Inutile dire che i Paesi esportatori trovarono più conveniente fare affari con l’Italia.
Gli effetti non tardarono a farsi sentire. Fra gli anni sessanta e settanta l’interscambio commerciale italo-libico crebbe di 17 volte. La Snam Progetti costruì la prima grande raffineria a Tripoli seguita dall’accordo per la fornitura di un impianto di produzione di amianto del valore di 150 milioni di dollari. Nel febbraio del 1974 il presidente del consiglio Mariano Rumor e il primo ministro libico Abdessalam Jalloud siglarono un accordo sulla cooperazione economica che permetteva all’Italia di ottenere 7 milioni di tonnellate di petrolio libico in più all’anno, da pagare con costruzioni, infrastrutture e fabbriche [5]. Roma ottenne concessioni petrolifere, costruì impianti, come a Ras Lanuf e a Brega – oggi teatro di scontri tra milizie – edifici, fognature, industrie e infrastrutture. L’Italia divenne il primo partner commerciale della Libia.
Il vero “salto di qualità”, però, si ebbe nel luglio del 1998, quando il ministro degli esteri italiano Lamberto Dini e il suo collega libico al-Muntassar firmarono un comunicato congiunto in cui vennero stabiliti importanti incentivi economici per la Libia che aprì la strada alla costruzione del Greenstream – che dal 2005 trasporta in Italia 8 miliardi di metri cubi di gas l’anno – e al mega accordo dell’ottobre del 2007 con la compagnia petrolifera nazionale libica Noc per il prolungamento, fino al 2042, dei contratti per la produzione di petrolio e al 2047 per il gas, con un investimento di 28 miliardi di dollari. L’accordo, poi, è stato blindato nel 2008 quando Gheddafi e Berlusconi siglarono il Trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione in cui vennero riconosciute le responsabilità coloniali dell’Italia che si impegnò a versare, a titolo di risarcimento, 5 miliardi di dollari alla Libia e a finanziare infrastrutture, realizzate da imprese italiane, per altri 5 miliardi di dollari [6]. Gheddafi, dal canto suo, ribadì la volontà di impegnarsi a combattere l’immigrazione clandestina, problema che ancora oggi sta ancora molto a cuore all’Italia. Poteva essere l’inizio di una partnership ancor più consolidata che avrebbe rafforzato ulteriormente i rapporti energetici se la Francia, nel 2011, non avesse spinto per l’intervento militare della coalizione internazionale per rovesciare il rais.
La rivoluzione del 2011. Tutto da rifare
Verrebbe ora da chiedersi: cosa ne è stato di tanto certosino lavoro dopo la morte di Gheddafi? Una necessaria premessa: prima dell’inizio delle rivolte del 2011, la produzione di petrolio della Libia ammontava a quasi a un milione e 600 mila barili al giorno, circa il 2% della produzione mondiale. Di questi circa il 52% era in mano a 35 aziende internazionali, capeggiate dall’italiana Eni, che nel 2010 aveva primeggiato con i suoi 267 mila barili al giorno sulla tedesca Wintershall e sulla francese Total, ferme, rispettivamente, a 79 mila e a 55 mila barili al giorno. Non stupisce, dunque, che il presidente francese Nicolas Sarkozy, dopo avere sostenuto strenuamente il Consiglio di Transizione (Cnt) [7] nella guerra di “liberazione libica”, si sia ben presto presentato a chiedere il conto sotto l’occhio vigile dell’amministratore delegato del gruppo Total, Christophe de Margerie. Allora il quotidiano francese Libération parlò addirittura di un accordo siglato dal portavoce del Cnt, Mahmoud Shammam, pronto a concedere alla Francia il 35% dei nuovi contratti petroliferi libici: notizia poi smentita dalle parti, ma che per lo meno insinuò un dubbio.
Detta in termini un po’ brutali, la Francia, assieme ad altri attori europei, Regno Unito in testa, non fecero neppure in tempo a seppellire Gheddafi che già “sbracciavano” per andare in Libia a stringere la mano alle nuove leadership politiche – o presunte tali – e per rivedere gli accordi petroliferi. Anche Mario Monti, divenuto presidente del consiglio, non fece eccezione. Più volte si recò nel Paese anche con l’allora amministratore delegato dell’Eni. Paolo Scaroni. D’altra parte cosa avremmo potuto fare se non buon viso a cattivo gioco? C’erano da tutelare interessi e investimenti importanti e una posizione di primacy che nell’ultimo cinquantennio aveva reso il governo italiano l’interlocutore privilegiato della Libia. Troppo avevamo sopportato per mollare tutto ed era vitale far ripartire quanto prima le attività, schivando l’attivismo francese per evitare un nuovo “schiaffo di Tunisi”.
Ci siamo riusciti? I numeri parlano più delle congetture. Oggi l’Eni è l’unica società internazionale ancora in grado di produrre e distribuire petrolio e gas in Libia. Altre aziende, come la francese Total (che tanto aveva ambìto a un regime change per rivedere i suoi contratti petroliferi), la spagnola Repsol e l’americana Marathon Oil, hanno via via annunciato la sospensione delle loro attività a causa del peggioramento della situazione di sicurezza nel Paese. La compagnia petrolifera italiana ha prodotto 240 mila barili di petrolio al giorno nel 2014 e ben 365 mila nel 2015. Se pensiamo che nel 2010 la produzione totale libica di greggio si aggirava intorno al milione e mezzo di barili al giorno e nel 2015 a poco più di 400 mila [8], è facile intuire il ruolo pressoché esclusivo della compagnia italiana nel settore petrolifero del Paese.
Se è vero che subito dopo lo scoppio delle ostilità, e la conseguente crisi di sicurezza, anche l’Eni è dovuta correre ai ripari, è altrettanto vero che è stata poi in grado di mantenere un ruolo predominante nella produzione libica. Nella relazione finanziaria semestrale del luglio 2011 si leggeva: « La produzione di idrocarburi si è ridotta dal livello atteso di circa 280 mila barili al giorno al livello attuale di circa 50 mila» [9]. Tuttavia, Scaroni allora disse: «Entro un anno saremo più forti di prima». Così è stato.
I motivi sono in parte spiegati dalla storia: la compagnia italiana è in Libia dal 1959, da molto più tempo rispetto ad altre società petrolifere europee, ed è facile immaginare che si sia creata quei contatti che ora rendono possibile la coesistenza con alcune delle milizie libiche. Non è certo una condizione ideale poiché, come è oramai noto, i gruppi armati nel Paese cambiano casacca con molta facilità e non sono nuovi ad atti di forza che vedono nella conquista dei pozzi petroliferi l’obiettivo più ambìto. Le poche infrastrutture funzionanti come Mellitah e Wafa, a causa della loro visibilità, sono divenute luoghi simbolo della prepotenza dei gruppi armati. Una evidenza confermata anche dal Dis, il Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, che nella Relazione 2016 sulla politica dell’informazione per la sicurezza, fa notare come:
Infine, da un punto di vista strategico, va notato come le attività del gigante petrolifero italiano, comprese quelle offshore, siano concentrate prevalentemente nell’area occidentale. Qui si trovano, ad esempio, i giacimenti di Bahr Essalam (che attraverso la piattaforma di Sabratha fornisce gas al centro di trattamento di Mellitah, dove viene convogliato nel gasdotto Greenstream per l’esportazione verso l’Italia), di Bouri [12], di Wafa e di Elephant. Anche per questo, molte delle attività si sono salvate dalle violenze e dai disordini in corso nel Paese.
Letta da questa prospettiva appare plausibile la scelta italiana di stare a (e con) Tripoli. I suoi interessi sono qui, dove altro andare? Tuttavia è bene non fossilizzarci troppo su questo mantra. Con la“diplomazia del petrolio”, quella che oggi funziona meglio, possiamo fare ancora molto.
Quali prospettive per il futuro?
Se è vero che – come scriveva Pier Paolo Pasolini – «bisogna essere molto forti per amare la solitudine», guardando la nostra posizione in Libia dovremmo pensare quantomeno di aver fatto un bel training. Al momento siamo i soli a sostenere il Governo di accordo nazionale di Sarraj, quello voluto dall’Onu nel 2015, per intenderci. La nostra ambasciata a Tripoli è stata riaperta da pochi mesi e lì, vicino al lungomare della capitale dilaniata da continui scontri, pare quasi una cattedrale nel deserto. Eppure ci siamo. Non si intende dire che la strategia italiana sia ineccepibile, anzi, presenta una serie di criticità che rischiano di minarne fin da ora le fondamenta. Tuttavia qualcosa andava fatto.
Dalle coste tripoline parte il 90% dei migranti che arrivano in Italia. Il nostro Paese è il maggior importatore di petrolio e l’unico destinatario del gas libico attraverso il Greenstream. Il terminal Eni di Mellitah è a tutt’oggi uno dei pochi ancora funzionanti e sono italiane molte delle attività estrattive offshore realizzate a largo delle coste tripoline. Cos’altro potevamo fare? Forse qualcosa in più. Cerchiamo di capire come. Per farlo è necessario allargare lo sguardo verso altri attori internazionali che stanno “operando” nel teatro libico. In particolare Mosca, storico alleato del generale KhalifaHaftar – “re” della Cirenaica e contrapposto al Governo di accordo nazionale – sembra voler assurgere al ruolo di mediatore nella crisi libica agganciando anche Tripoli. La visita di Sarraj (premier del governo unitario) in Russia di qualche mese fa e i recenti tentativi di mediazione tra Sarraj e Haftar portati avanti da Egitto ed Emirati – ma con la regia russa – fanno presupporre che il Cremlino stia cercando di dialogare direttamente con il governo di Tripoli, saltando inutili intermediari che, in quanto tali, potrebbero chiedere delle laute provvigioni. Per non restare esclusi dalla partita dobbiamo valorizzare il nostro ruolo nel Paese.
L’Italia sta coerentemente lavorando con gli attori tripolini da tanto tempo, grazie alla recente attività politica del governo ma anche – e soprattutto – alla diplomazia energetica dell’Eni che è stata capace di schivare l’interventismo delle fameliche compagnie internazionali nel post-Gheddafi e ricominciare da capo, dialogando con i vari gruppi di potere presenti nel territorio. Inoltre, con la nostra ambasciata rappresentiamo l’unico punto di contatto occidentale a Tripoli e siamo “in confidenza” con le milizie di Misurata, uno dei più importanti e numerosi gruppi (armati) del Paese che stiamo supportando con la missione Ippocrate [13]. Ce n’è abbastanza per bussare alla porta del Cremlino, porci come interlocutori indispensabili per dialogare con Tripoli e tentare di mediare una soluzione politica per la Libia, faccia a faccia, alla pari.
Insomma, l’Italia ha una sola chance: sfruttare il suo capitale di fiducia con alcuni attori tripolini per mediare un accordo intra-libico con Mosca, sfruttando anche la cara vecchia diplomazia energetica. Cerchiamo di capire come. Nel dicembre del 2016 l’Eni ha concordato il passaggio al gigante petrolifero russo Rosneft di una quota del 30% della concessione di Shorouk, nell’offshore dell’Egitto, nella quale si trova il giacimento di Zohr [14]. solo un esempio che, però, ci aiuta a capire come il Cane a sei zampe faccia affari da tempo con la sua omologa russa Rosneft che, tanto quanto l’Eni, va d’amore e d’accordo con la Noc. Il discorso potrebbe iniziare da qui. C’è solo un dubbio. La storia recente – e soprattutto l’intervento internazionale in Libia del 2011 – ci ha dimostrato che l’Italia ha gran talento nella diplomazia ma spesso non riesce a finalizzare il lavoro svolto, regalando la partita ai competitors europei. Detta in altri termini siamo bravissimi a schivare gli avversari fino alla metà campo ma poi non riusciamo a tirare in porta e a segnare un gol della vittoria. Non resta che sperare che le vicende politiche siano diverse da quelle calcistiche e, dunque, di non perdere ai rigori con Francia e Germania.
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