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La “libertà restituita”: qualche notazione e qualche proposta

quaderni-satyagraha-43-e1702373576561-765x1024di Caterina Scaccianoce 

Nella Prefazione al volume a più mani Processo al carcere, a cura di A. Donadio (Centro Gandhi Edizioni, Pisa 2023)  Mauro Palma ci invita a una riflessione sulla pena detentiva che investa sia la dimensione interna della penalità, guardando al bisogno di prevedere progetti proiettati al domani, e al fuori, sia la dimensione esterna, che chiama in causa aspetti diversi, come il linguaggio utilizzato dai media e l’attenzione sociale verso temi di marginalità, di assenza di istruzione, di microillegalità che espongono al rischio di commettere reati. In sostanza l’approccio suggerito da Mauro Palma obbliga a chiederci come riannodare i fili recisi dalla commissione del reato e ricostruire quel tessuto relazionale che è alla base della convivenza sociale. Questa domanda, secondo Palma, apre lo spazio per una sanzione penale che si risolve in un “contesto progettuale” in cui sia garantita la piena dignità della persona, in cui la privazione della libertà conservi una funzione residuale, e, soprattutto, in cui la titolarità di diritti della persona non sia messa in discussione.

Accogliendo le sollecitazioni di Mauro Palma, vorrei riportarvi una mia idea che ho maturato col tempo ragionando sulla posta in gioco che si prospetta nella fase dell’esecuzione e che sembra riallacciarsi ai diversi rilievi e alle importanti suggestioni che ci offre questo volume. Ebbene, se nella fase della cognizione la posta in gioco è la libertà della persona, nella fase dell’esecuzione la posta in gioco è quella che io ho definito la “libertà restituita”. Aristide Donadio ci ricorda che, nel volume Le tre libertà, fotogrammi di un’evasione e altri modi di uscita dalla prigione (Sensibili alle foglie, Roma 2019), Beppe Battaglia si sofferma sulla differenza fra la libertà comprata e quella conquistata avendo sullo sfondo quella concessa dalle istituzioni che detengono le vite dei reclusi. Ecco, ne aggiungo una quarta: la libertà restituita come nuovo paradigma di riferimento per una rilettura del sistema carcere, e che, se adottato dagli interpreti, potrebbe aprire proprio al tipo di sanzione cui allude Mauro Palma. È un concetto che, facendo propria una visione ampia di libertà, coniuga la dimensione rieducativa della pena, intesa come necessario recupero del condannato, con il rispetto dei suoi diritti inviolabili.

9788832043143_0_500_0_75Per intenderci, la “libertà restituita” si riferisce non semplicemente alla liberazione fisica del detenuto, ma a un percorso verso la libertà che comprende anche la libertà psichica, intesa come autonomia e indipendenza mentale, quindi capacità di prendere decisioni in modo consapevole e autonomo, nonché la libertà morale, che investe la dignità personale e la possibilità di autodeterminarsi senza subdole incursioni da parte delle autorità. Rappresenta, quindi, il culmine di un processo costruttivo e orientato al futuro. Un progetto di reciproca responsabilità che richiede l’impegno sia di chi, quella libertà, ha il diritto a che gli venga restituita, sia delle istituzioni e della società civile nel cui contesto il detenuto è destinato a rientrare da libero.

In tale visione, affiora, potente, il noto paradosso che attribuisce al penitenziario la funzione di “educare alla libertà pur negandola”, chiedendo all’istituzione carcere di svolgere una funzione punitiva che è al contempo libertaria e rieducativa. Una sfida complessa per le istituzioni penitenziarie, che devono riuscire a coniugare due funzioni apparentemente in contrasto, e cioè la privazione della libertà come punizione e la promozione della libertà come obiettivo ultimo. Perseguire questo obiettivo impone di lasciarsi alle spalle quegli atteggiamenti mistificatori della finalità rieducativa della pena propri delle politiche penitenziarie della certezza e dell’inflessibilità della sanzione.

Come ci ricorda Aristide Donadio, dietro ogni reato c’è una storia e la pena non può non tenere conto di quella storia. Allora pena inflessibile e certa va contro questo approccio. Aspira a una eguaglianza puramente formale, non quella dell’art. 3 della Costituzione. Per di più, le politiche securitarie contribuiscono a “diseducare” la collettività alla diffidenza e alla indifferenza nei confronti delle persone detenute, col risultato di rendere ancora più difficile la sfida del loro reinserimento sociale post-detentivo, per il quale serve invece che la comunità cittadina partecipi ai programmi educativi, formativi e lavorativi; serve una costante sensibilizzazione del cittadino affinché quel ritorno in libertà non venga ostacolato dallo stigma sociale impresso nell’ex detenuto, che, come sappiamo, è difficile da cancellare; servono risorse significative che finanzino i programmi di reinserimento.

Qui entrano in gioco i benefici e le misure alternative alla detenzione che vanno promosse concretamente, secondo il principio costituzionale della progressività trattamentale. Massima apertura all’alternativa al carcere, quindi, e non – lo rimarca bene Rita Romano – come un semplice strumento per alleviare il sovraffollamento carcerario, bensì come valido mezzo di contrasto alla recidiva. È provato che quando il carcere offre formazione e lavoro preparando al progressivo ritorno in società la recidiva è drasticamente ridotta. A proposito risuonano le parole di Alessio Scandurra: le alternative al carcere sono cresciute enormemente, eppure il carcere non è certo sparito per questo, tutt’altro. Ci finiscono coloro che non riescono ad accedere alle alternative alla detenzione, soggetti sempre più marginali, meno stabili psicologicamente e in condizioni sociali sempre più precarie. Allora il sistema – è evidente – va in tutt’altra direzione, va verso la negazione dei diritti. Un sistema che è solo punizione e contenimento. Ma come vi dicevo il paradigma della “libertà restituita” coniuga rieducazione e tutela dei diritti e delle libertà dei detenuti.

A proposito di diritti Viviana Insernia coglie il punto nevralgico quando ci dice: i diritti sono tanti e diversi, lo sappiamo, ma il problema, soprattutto in un ambiente “chiuso” qual è il carcere, è renderli fruibili. Eppure, viene scritto a più livelli che, in un sistema di diritti negati, due sono i valori fondamentali che non possono in alcun modo essere sacrificati: la dignità e la libertà di sviluppare la propria personalità. Intaccare questa libertà residuale significa anche ostacolare il percorso rieducativo che conduce alla “libertà restituita”. Del resto, si sa: un detenuto che vede rispettata la sua dignità e i suoi diritti è più incentivato a intraprendere un percorso di riscatto e reintegrazione nella comunità. Ma, come sottolinea abilmente Anastasia, l’art. 27, comma 3, definendo una pena per ciò che non può essere o per ciò a cui deve tendere contiene un paradosso argomentativo, e cioè che ne viene occultato ciò che essa effettivamente è, nel suo semplice nome, e cioè una sofferenza.

542398Torniamo all’ambivalenza del potere punitivo: il finalismo (la rieducazione) occulta la causa (la punizione). Su tali premesse, Stefano Anastasia si confronta con i due approcci che emergono nei diversi contributi di questo volume, e che rispondono, ora, a come dovrebbe essere il carcere, ora al perché del carcere, se sia proprio necessario e se non se ne possa fare a meno. Ci si muove, quindi, tra speranze di riforma e tendenze abolizioniste. E Anastasia sta con le une e con le altre, non le vede come alternative. Per lui la riforma del carcere può portare a interrogarci radicalmente sulla sua necessità e sulla sua sopravvivenza a due condizioni: uscendo dalla logica premiale, che vede benefici per i migliori e abbandono per gli altri, e assumendo l’idea universalistica dei diritti. Tutela della salute e delle relazioni familiari e sociali, offerta di opportunità di istruzione, formazione e inserimento nel mondo lavorativo, sono tutti “agenti di erosione” del carcere e “fattori di trasformazione” della penalità.

Un percorso di erosione e trasformazione che, però, deve fare i conti con due fattori avversi, sovraffollamento e assenza di risorse, che sono notoriamente causa di abusi sia fisici sia psicologici. Oggi il sistema penitenziario soffre un alto tasso di sovraffollamento, a fronte del quale ancora si esita a intervenire con soluzioni immediate, di certo impopolari, ma non più rinviabili. Dell’anno scorso il decreto “carcere sicuro” del 4 luglio 2024, n. 92. Da ultimo, il “decreto sicurezza” 11 aprile 2025, n. 48 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario). Entrambi, come del resto la legislazione degli ultimi trent’anni, hanno un obiettivo comune: la tutela della sicurezza. Tutela della sicurezza che viene perseguita introducendo nuove figure di reato; inasprendo le pene già esistenti; criminalizzando anche la protesta non violenta dei soggetti ristretti in condizioni disumane; introducendo ulteriori ipotesi di ostatività alla fruizione delle alternative al carcere; ipertutelando le Forze dell’ordine. Su quest’ultimo punto il contributo di Giovanni Mandolfino è eloquente. Insomma, a una collettività sempre più insicura si risponde esibendo la forza della repressione penale. Con quell’anomalia messa bene in evidenza da Donadio: la tendenza a pre-individuare comportamenti devianti e a codificarli. Gli effetti deteriori sono facilmente prevedibili: aumenteranno i suicidi, gli autolesionismi, i tentativi di rivolta, le aggressioni nei confronti degli agenti penitenziari. La verità è che la pena continua a essere narrata e avvertita dalla collettività come necessità sociale e il carcere a essere concepito solo come luogo di sofferenza imposta per fare giustizia.

Ad aggravare il quadro, riprendendo il pensiero di Anastasia, il consolidamento di un’ideologia meritocratica del trattamento, che non riconosce alla persona detenuta diritti sociali universali, ma solo diritti di libertà meritati e, come tali, sacrificabili in nome della sicurezza. In tale scenario, la diade “premialità-rieducazione” è piegata alla logica disciplinare, spostando l’attenzione dall’effettivo cambiamento interiore e sociale del detenuto all’aderenza alle regole carcerarie. Ciò porta a confondere tra adattamento e trasformazione: un detenuto può adattarsi alle norme del carcere senza necessariamente intraprendere un percorso di crescita personale. E, se la concessione dei benefici premiali è legata solo al comportamento osservato all’interno del carcere, e non al progresso effettivo, si perde di vista l’obiettivo costituzionale della pena: preparare il detenuto al fuori e al domani. In sostanza, la sicurezza finisce per assorbire non solo la rieducazione ma anche la tutela di molti dei diritti dei detenuti, al punto da intaccare, in nome di prioritarie esigenze di ordine e disciplina, anche quel nucleo essenziale di diritti, considerato dalla Corte costituzionale inviolabile. Il terreno dove peggio si esprime la sintesi tra istanze securitarie e istanze rieducativo umanitarie è proprio la gestione della delinquenza pericolosa. La definizione degli spazi della pena all’interno degli istituti penitenziari tra circuiti, sezioni e regimi differenziati, peraltro istituiti e regolamentati da circolari disposte dal DAP, è un esempio di quanto la materia della sicurezza sia trattata oltre i confini della legalità, travalicando quel grado di afflittività già insito nello stato detentivo. Ne parla crudamente William Frediani, alludendo alla torsione che il corpo e l’anima dell’individuo subiscono nello spazio e nel tempo carcerari con conseguente annullamento della percezione sensoriale del mondo.

Esperienze teatrali in carcere (ph. Chiara Ferrin)

Esperienze teatrali in carcere (ph. Chiara Ferrin)

Da qui le varie proposte: Donadio propone di prevedere al posto del carcere una comunità affrancata da condizionamenti e meccanismi di oppressione e riservata solo ai casi indispensabili; per il resto, depenalizzazione e misure alternative. Rita Romano propone la c.d. “sorveglianza dinamica” in cui tutti gli spazi diventano, nell’arco della giornata, fruibili dai detenuti, e la “custodia attenuata”, quale valida “alternativa” da replicare su ampia scala. Enrico Beniamino De Notaris ci riporta la testimonianza di come l’esperienza performativa del teatro sia uno strumento formidabile per sovvertire l’ordine costituito, nella misura in cui ripropone la natura del trauma vissuto, nella sua autenticità, attraverso la coesistenza del “lì e allora” e del “qui ed ora”. Maria Luisa Nutini ci racconta dell’incredibile crescita della Comunità “Il Pioppo”.

Ebbene, in tale panorama di alternative al carcere una cosa è certa: per raggiungere un nuovo equilibrio sembra dirimente rivalutare il concetto, all’apparenza contraddittorio, di libertà della persona detenuta: quell’accezione ampia di libertà personale, ispirata al concetto di libertà-dignità, che ho condensato nel paradigma della “libertà restituita”, quale percorso verso la libertà, su cui vorrei tornare, in conclusione, perché ritengo possa essere un utile parametro costituzionale per tentare di superare il rigido meccanismo preclusivo per l’accesso alle misure alternative previsto dall’art. 4-bis ord. pen. che, nonostante la sua recente riscrittura, continua a reggersi sulla collaborazione con la giustizia quale via più facile per potere fruire di spazi di libertà funzionali alla rieducazione. È un tema affrontato da Beppe Battaglia, il quale ci ricorda i numeri: oggi – il dato l’ho aggiornato al febbraio 2025 – si contano 1894 ergastolani, dei quali ben due terzi ostativi. Ma soprattutto è un tema vissuto in prima persona da Carmelo Musumeci, che è riuscito con le sue battaglie a farsi restituire la libertà dopo trenta anni di buio. Egli definisce gli ergastolani ostativi uomini che per gli altri e per la società non esistono più, e chiama il penitenziario «assassino dei sogni», proprio perché tutti i sogni svaniscono per chi si ritrova senza speranza di poter uscire.

Esperienze di lavoro alternative al carcere, scuola di costruzione edile

Esperienze di lavoro alternative al carcere, scuola di costruzione edile

Quello ostativo è un meccanismo basato su equazioni improprie e binomi di convenienza, che mutano profondamente i profili teleologici dell’esecuzione penitenziaria, piegandola a svolgere funzioni che non le sono proprie: quelle funzioni preventive, investigative e repressive che il sistema non è più in grado di svolgere in modo fisiologico. Si passa dal binomio rieducazione-benefici, in cui i benefici sono pensati come strumenti atti a conseguire il fine rieducativo, al binomio collaborazione-benefici, in cui i benefici diventano l’esca per indurre alla collaborazione, sulla base di un falso sinallagma, che equipara la collaborazione al ravvedimento. Eppure, come ricordato dalle Corti, si sa che alla collaborazione non segue necessariamente un ripensamento del proprio vissuto e che, per converso, non può escludersi a priori che chi non collabora non sia orientato verso il ravvedimento. Ne deriva che può esservi rieducazione anche senza collaborazione e che, a causa di tale congegno perverso, il detenuto si ritrova obbligato a scambiare la propria libertà con la collaborazione e, se rifiuta di collaborare, il premio si trasforma in un castigo illegittimo. Insomma, il meccanismo ostativo integra una «impropria forma di coercizione morale», che viola la libertà di autodeterminazione perché la volontà di una delle parti non si forma liberamente.

Da qui il congegno ostativo violerebbe il diritto al silenzio del condannato, nella sua declinazione di diritto a non collaborare, esercizio di autodifesa passiva, che è un valore che attraversa tutta la vicenda punitiva, approdando anche alla fase del trattamento penitenziario, proprio perché espiazione ed emenda sono atti intimi, non coercibili legalmente, e perché la rieducazione è un parametro esteriore, che non necessita di abiure per essere apprezzato. E poiché trova il proprio fondamento nel più ampio diritto alla libertà morale, il diritto a non collaborare può allora annoverarsi tra i diritti inviolabili e non sacrificabili della persona detenuta. Ecco che riconoscere al condannato il diritto a non collaborare significa tutelarlo da previsioni che lo sanzionano per avere scelto di restare in silenzio.

misalterL’auspicio allora è che la categoria della “libertà restituita”, nella quale confluisce la libertà di non collaborare, possa integrare un ragionevole parametro di costituzionalità che, insieme agli altri parametri sino ad oggi invocati per prospettare la non conformità a Costituzione dell’art. 4-bis ord. pen., consenta di superare l’automatismo in forza del quale la condizione della collaborazione con la giustizia continua a funzionare da “ricatto morale”, costringendo il condannato a scegliere tra la sua libertà e quella dei suoi familiari. Ciò perché il diritto al silenzio non tutela soltanto contro l’autoincriminazione, ma è presidio del rispetto della dignità umana, presidio del diritto del condannato alla “libertà restituita”, che, come abbiamo visto, è un valore multidimensionale, appartenente al nucleo essenziale dei diritti e delle libertà della persona detenuta “non sacrificabili”, e soprattutto è un valore servente tanto all’esecuzione di una pena che non sia disumana quanto alla sua finalità rieducativa, come vuole l’art. 27, co. 3, Cost. 

Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025 

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Caterina Scaccianoce, Professoressa Associata di Diritto Processuale Penale presso l’Università di Palermo, abilitata al ruolo di Professoressa Ordinaria, attualmente insegna “Diritto processuale penale” e “Diritto dell’esecuzione penale e diritto penitenziario”. È membro del collegio di dottorato in “Migrazioni, Differenze, Giustizia Sociale” (MI.DI.GI.) dell’Università di Palermo. È autrice di tre monografie e di numerose pubblicazioni scientifiche, e ha partecipato come relatrice a diversi convegni. È membro dell’Associazione Italiana tra gli Studiosi del Processo Penale. I suoi interessi di ricerca includono il sistema penitenziario e i diritti dei detenuti, il principio di obbligatorietà dell’azione penale e la prova scientifica nel processo penale.

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