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La figura del clandestino nella letteratura delle migrazioni in Italia

copertina2di Vittorio Valentino

Per iniziare la nostra analisi non esaustiva, in cui proporremo alcune rappresentazioni letterarie della figura del migrante clandestino, ci sembra utile, prima di concentrarci sulla situazione italiana, partire dal periodo di maggiore turbolenza del contesto mediterraneo, il dopoguerra. In effetti, la decolonizzazione e poi globalizzazione hanno cambiato i legami tra gli Stati, e lo spazio mediterraneo è in preda a nuovi equilibri: tra i nuovi Stati postcoloniali e le ex potenze comincia allora un lento esodo che si scontrerà, a partire dagli anni Ottanta e Novanta, con una politica europea di chiusura. Un protezionismo che si svilupperà intorno a questioni come sicurezza e immigrazione, strategie politiche che, per alcune fazioni che oggi usa chiamare sovraniste, nel corso degli anni, favoriranno nell’immaginario collettivo la sostituzione della figura dell’immigrato con quella tout court del clandestino. Aiutati da un mercato del lavoro saturo e da situazioni di disagio economico, queste idee politiche si confermeranno con forza in diversi Stati europei.

L’avvento della globalizzazione porterà ad una nuova concezione del mercato del lavoro che rispecchia la nuova condizione postmoderna degli individui. La precarietà lavorativa e la flessibilità diventano le caratteristiche del nuovo ordine sociale che il sociologo Zygmunt Bauman chiama “modernità liquida”: una visione delle relazioni umane e lavorative tra gli individui in cui non esiste più una vera stabilità. «Lo slogan dei nostri tempi è la flessibilità: qualsiasi forma deve essere duttile, qualsiasi situazione temporanea, qualsiasi configurazione suscettibile di ri-configurazione» (Bauman, 2006:103). Questo nuovo orizzonte sociale corrisponde ad una perdita di controllo sul proprio presente per il lavoratore e per il cittadino, una condizione che viene accentuata nel momento in cui si sceglie o si è costretti alla migrazione e/o alla clandestinità. Uno degli elementi che legano clandestinità e spostamenti migratori è quindi legato alla ricerca di lavoro, spesso a partire da contesti sociali complessi.

Allora in che modo rappresentare la figura del clandestino?  Non si tratta solo di un individuo che ha attraversato una frontiera illegalmente trovandosi in una posizione illegittima. Si tratta ormai di un soggetto che, una volta cominciato un percorso, si trova di fronte a innumerevoli ostacoli che possono dilatare i tempi del viaggio e renderlo denso di pericoli.

Dalla sua apparizione, l’uomo si è sempre spostato alla ricerca di una condizione migliore di vita lasciando sul suo cammino i segni di un viatico di adattamento, segni caparbi di uno sforzo creativo per la sopravvivenza, che hanno la funzione di narrare una storia, per coloro che verranno dopo. Nell’epoca moderna l’esodo umano non cessa di disseminare tracce drammatiche e pure vitali e la letteratura ne racconta la sua precarietà: la letteratura della migrazione narra il viaggio, l’esilio e spesso la clandestinità di individui senza tempo, popoli di un’umanità in perpetuo spostamento.

Attraverso romanzieri e giornalisti che descrivono un’alterità complessa, dagli anni Ottanta, la letteratura della migrazione presenta ai lettori come narrazione di un’Italia in movimento, un luogo in divenire che si scopre in piena mutazione, passando da Paese di partenza a Paese d’accoglienza. Tuttavia, essere meta di un Sud del mondo non risulterà semplice e non lo è tutt’ora (De Luca 2005), ma la letteratura migrante offre una rappresentazione eticamente nuova con la prospettiva di agire all’interno di una frattura storica tra i blocchi politico-economici (Nord-Sud, Nord e Sud Mediterraneo, Est e Ovest europeo…) in cui il mondo mediterraneo è suddiviso.

1Il racconto della figura del migrante in Italia scorre allora su due binari diversi ma sempre paralleli: in effetti, dalla fine degli anni Ottanta inizia una prima fase in cui alcuni scrittori italiani mostrano interesse di fronte alle nuove dinamiche migratorie che stanno toccando il paese. In Il polacco lavatore di vetri (1989) di Edoardo Albinati, la storia gira intorno alla comunità polacca a Roma; ne Gli sfiorati (1989) di Sandro Veronesi, il coprotagonista del romanzo è Dani, un raffinato immigrato filippino. Nonostante la presenza di alcune immagini esotiche o stereotipate, compaiono per la prima volta tra le preoccupazioni degli autori italiani, le caratteristiche peculiari dell’esistenza di uomini e donne migranti; tra cui la povertà, la marginalizzazione ma anche le paure degli italiani nei confronti di queste nuove comunità, che si affacciano e si insediano in quel tempo (Comberiati, 2010). La loro presenza, qui come personaggi chiave, è un tentativo di attenuare l’immagine stereotipata diffusa nel Paese intorno alla vita dei migranti: l’idea di un legame con la criminalità, di una scelta di vita fatta di espedienti e la convinzione di un enorme ed incolmabile abisso culturale. Questi autori cercano, proprio nelle differenze culturali, di dare lo spessore umano giusto a questi individui bloccati, quanto gli italiani stessi, in un insieme di circostanze nuove, in cui il contatto con l’altro, spesso clandestino, provoca un ventaglio di sensazioni inedite, che passano dall’identificazione al rigetto.

Dalla metà degli anni Novanta, un altro tipo di scrittori italiani comincia ad interessarsi all’immagine del migrante e alle nuove dinamiche migratorie: i giallisti (Comberiati 2010: 24). In effetti, se la presenza dello straniero non può più essere ignorata dagli scrittori in quanto fenomeno importante ed evolutivo, saranno proprio gli esponenti del genere poliziesco, da sempre interessati ai mutamenti della società, ad inserire in questi anni lo straniero, spesso sotto le vesti di un clandestino o di un delinquente, nei propri romanzi gialli.

Noti giallisti, quali Massimo Carlotto, Carlo Lucarelli o Andrea Camilleri aderiranno spesso a questa identificazione tra straniero e delinquente (Le Gouez, 2006), mantenendo vivi alcuni stereotipi utilizzati dalla politica di quegli anni (ma tutt’ora in uso), che avvicinano le cifre della criminalità a quelle dell’aumento della presenza di stranieri sul territorio. Gli immigrati appaiono allora, come membri di gruppi malavitosi orientali, dell’est Europa o nordafricani, perdendo così lo spessore umano attribuito loro nei primi romanzi della migrazione, per aderire ad una categorizzazione sociale negativa, spesso aiutata dai media del tempo, che fa eco a disagi sociali ed economici della popolazione, per i quali i clandestini fungono talvolta da capo espiatorio.

copertinaÈ utile allora concentrarsi sulle rappresentazioni dei migranti e/o clandestini presenti nelle pagine di Andrea Camilleri, le quali acquisiscono, in un largo arco temporale, sempre più consistenza. Prima confinati a criminali, trafficanti di droga o prostitute, le figure dei migranti diventano nel corso delle pubblicazioni spunti fondamentali per l’autore. Una ricerca di giustizia in cui le questioni geopolitiche delle interazioni si intrecciano con le relazioni criminali tra Sud Italia e sponda meridionale del Mediterraneo, attraverso uno dei suoi personaggi più importanti, il Commissario Montalbano, alter ego dell’autore e del suo impegno sociale. Con Il ladro di merendine (1996), Camilleri introduce nella celebre saga poliziesca la figura dell’extracomunitario, inserendo una serie di personaggi negativi, trafficanti o terroristi, provenienti dalla Tunisia. Tuttavia, tra loro si trova un bambino tunisino, François, vittima collaterale di azioni criminose che riapparirà dieci anni dopo in Una lama di luce (2012), quando il ragazzo, ormai divenuto un adulto, conduce una lotta per i diritti del proprio paese d’origine, contro la dittatura in vigore fino alle Primavere arabe. Egli sarà poi eliminato dai servizi segreti italiani: tuttavia, il giovane personaggio ricopre una carica simbolica importante in quanto è il segno di una vera evoluzione compiuta dall’autore all’interno della rappresentazione dei migranti e dei giovani clandestini, non meno che nella crescita del loro ruolo all’interno dei romanzi ma anche, agli occhi del lettore, nel contesto degli equilibri del bacino mediterraneo:

«Dentro quella cassa c’è uno dei tre tunisini. Ho ricevuto l’ordine di spedire il cadavere in Tunisia. Ma prima di farlo ho voluto che tu lo vedessi. Non era un contrabbandiere d’armi, era un patriota. È morto in seguito alla ferita riportata nello scontro a fuoco, del tutto involontario, con i miei uomini» (Camilleri 2012: 257).

7620698Nel 2003, con Il giro di boa, l’autore aveva riaffermato la presenza dei migranti nei suoi romanzi polizieschi, la loro immagine appare sempre meno manichea, ma stavolta essi vengono rappresentati con una doppia valenza, trafficanti di bambini da un lato e vittime dall’altro degli stessi trafficanti. Tutto il romanzo viene ritmato dagli sbarchi a ripetizione di clandestini sulle coste siciliane, alle quali il commissario partecipa attivamente per sopperire ad uno stato d’urgenza permanente: l’arrivo di bambini e i traffici di esseri umani producono una tensione narrativa che è specchio all’attualità di quegli anni e non solo. Il commissario Montalbano diventa allora voce dell’autore e testimone delle condizioni dei migranti e della mancanza di preparazione di fronte ad una situazione che dura ormai da tempo.

Lo stesso retroscena di sbarchi continua ne L’altro capo del filo (2016), centesimo romanzo dell’autore, l’ultimo in cui appare la figura del clandestino, ma dove è presente per la prima volta la parola “migrante”. È ormai trascorso un ventennio dalla prima rappresentazione del clandestino, tuttavia, il commissario si trova ad affrontare, con l’aggravarsi della situazione internazionale, le pericolose operazioni di sbarco, unendo al dramma delle vittime la lotta ai criminali che li sfruttano senza pietà. Camilleri mette al centro del suo discorso un’impressione di spreco di una fetta importante di umanità così lontana ma al contempo vicina. L’immagine di un cimitero-mare che accoglie, a differenza delle coste europee, tutti senza distinzione. Durante uno sbarco, un famoso flautista in fuga dal regime siriano appare tra i migranti, un incontro che provoca una triste evidenza:

«E subito gli pigliò un pinsero: quante, tra ‘sti poviri miserabili, erano pirsone capaci di arricchiri il munno con la loro arti? Quanti tra i tanti cataferi che oramà erano nell’invisibili cimitero marino sarebbiro stati capaci di scriviri ‘na poesia le cui parole avrebbiro consolato, ralligrato, inchiuto il cori di chi stava a liggirla?» (Camilleri 2016: 52-54).

La scrittura dimostra una capacità di avvicinamento tra gli individui che si scontra con le politiche migratorie, sfuggendo alle logiche della geopolitica e agli stereotipi della retorica. Le coste siciliane non solo soffrono per l’arrivo di disperati, senza solidarietà e vero impegno da parte della Comunità Europea, ma anche per la grande emorragia di giovani che, come in tutto il Sud della penisola, emigrano verso altre parti del mondo in cerca di stabilità economica. Una dinamica che contiene in sé contraddizioni e squilibri, che la letteratura coglie e di cui l’autore si fa carico: la figura del clandestino si arricchisce allora di familiarità, avvicinando i giovani migranti agli Italiani in “fuga” dalla mancanza di opportunità: « non ci sono differenze neanche nel fatto che loro sono costretti, nel 2016, per sopravvivere a lasciare le loro case, la loro terra, la loro famiglia così come devono fare i nostri giovani per trovare un lavoro» (Camilleri 2016: 19).

cover-16860Altri importanti autori, come Evelina Santangelo, Erri De Luca o Carmine Abate riprendono la rappresentazione del migrante sempre a partire dal Sud, e ancora in questa convulsa dinamica di arrivi di clandestini e di partenze di giovani italiani verso orizzonti migliori. Nella Sicilia accaldata di Senzaterra (2008) di Evelina Santangelo la terra sembra immobile, schiacciata dal peso della disoccupazione, dove Gaetano e Alì sono due facce della stessa sofferenza. Recidere il proprio legame con la terra, partendo per la Germania o restare e partecipare allo sfruttamento nei campi di altri senza speranza e “senzaterra” come Alì? È il dilemma di Gaetano di fronte al quale c’è la figura quasi mistica di Alì: quest’ultimo, sopravvissuto ad uno sbarco in cui ha perso tutto, corre alla ricerca di un porto nel quale approdare, portando con sé un bagaglio culturale affascinante e antico, che l’autrice sembra condividere con il lettore attraverso una scrittura poetica ed un personaggio senza tempo.

Lo scrittore calabrese Carmine Abate, racconta la sua Calabria come un punto di arrivo antico per la sua comunità arbereshe, una terra per i suoi avi in cui poter riposare dalla fuga e in cui poter rinascere. Questa però si tramuta nel tempo in terra di povertà e di partenza in massa verso il Nord dell’Europa, dove “i germanesi”, emigranti manovali calabresi spendono i loro anni migliori. Al loro ritorno trovano una comunità arricchita dai migranti che, come loro tempo addietro, hanno dovuto lasciare tutto alle spalle: «loro ci ricordavano chi eravamo noi fino all’altro ieri o a ieri e noi volevamo dimenticare con tutte le nostre forze, perché quel ricordo ci faceva ancora male» (Abate 2010). Ora le loro vite si mescolano e si intrecciano senza quasi più poter individuare chi sia l’altro, lo straniero e in quale terra ci si senta tali.

14474266960262-immigrato-jpgL’altra fase di cui parlavamo sopra, inizia anch’essa alla fine degli anni Ottanta, ed è sempre legata alla letteratura della migrazione, si tratta della narrativa detta italofona, cioè scritta da individui immigrati in Italia, non italiani nel senso stretto, la cui scrittura, raccontando il fenomeno della migrazione, arricchisce la letteratura italiana. Questi autori sono di origini diverse e adottano l’italiano come lingua di scrittura ed espressione, aiutati in alcuni casi alla stesura da altri autori e giornalisti. Tra gli altri Pap Khouma (Senegal), Ron Kubati (Albania), Mohamed Bouchane (Marocco), Mohsen Melliti (Tunisia) o Maria Abbebù Viarengo (Etiopia), hanno prodotto romanzi a carattere spesso autobiografico in cui raccontano l’esilio e le speranze, la precarietà del loro vissuto e la ricerca di un futuro.

Già nel 1990 Salah Methnani e Mario Fortunato pubblicano un romanzo pionieristico italiano per il genere, Immigrato, in cui Methnani, all’epoca giovane diplomato tunisino, racconta il proprio viaggio prima verso la Sicilia, poi attraverso tutta la penisola italiana, descrivendo le difficoltà incontrate: i disagi economici, il razzismo degli italiani, gli incontri, la ricerca di se stesso, i sogni e l’incontenibile voglia di scoprire il mondo di tutta una generazione che vive dall’altro lato del mare:

 «In molti ragazzi come me, il mito dell’Occidente era grandissimo. Nei caffé, la sera, si parlava della Francia e dell’Italia. [...] Si pensava che il lavoro ci fosse dappertutto, che le donne ci stavano [...] Tanti amici erano andati via: partiti per l’Occidente. [...] In Occidente non c’era solo il lavoro, c’era anche la libertà. In Tunisia ce n’era sempre meno negli ultimi anni di Bourghiba» (Methnani 1990: 12-14).

Si tratta di un’autorappresentazione nella quale il migrante prende per mano l’immagine di sé e, attraverso l’esercizio dell’autobiografia, riesce a restituire da un’angolazione diversa, quella interna, il volto dell’Italia del tempo di fronte al fenomeno migratorio e alla clandestinità.

Altri autori di origine diverse seguono la scia lasciata da Methnani e da altri scrittori italofoni degli anni Ottanta e Novanta, inserendo definitivamente il tema dell’immigrazione nella letteratura italiana, che perdura fino ad oggi. Come lo spiega uno dei maggiori critici letterari, Armando Gnisci, nel suo Nuovo Planetario Italiano (2006), si tratta di una presa di coscienza generalizzata di fronte al grande esodo che coinvolge tutto il pianeta, anche per coloro che adottano la lingua italiana per scelta o per nascita:

 «Negli scrittori dell’ultima fase del Novecento, la coscienza dell’importanza storica e antropologica della grande migrazione-esodo della parte della specie umana mossa dal disagio, dalla fame e dalla miseria, dalla parte della specie oppressa ed esclusa dalla dignità di vivere una vita irripetibile e da vivere, è diventata sempre più forte e ardita» (Gnisci 2006: 14).

5Gli anni Duemila vedono un’evoluzione nel tipo di narrazione adottata da alcuni autori come Amara Lakhous o Cristina Ali Farah, che hanno approcci nuovi nella loro scrittura: lo stile autobiografico viene accantonato a favore di storie di migranti o di comunità straniere in Italia in cui prevalgono in modo più generale temi di riflessione impegnati quali l’incontro tra le culture ovvero l’arduo percorso per ottenere i documenti, al fine di uscire dalla clandestinità. Lo scrittore algerino Amara Lakhous riscontrerà un notevole successo, rappresentando sotto diversi aspetti la relazione tra italiani e stranieri, il tutto senza limitarsi a scrivere dal punto di vista di un algerino: nelle vesti di numerosi personaggi di diversa provenienza, egli esplora il volto multiculturale del nuovo Paese che si offre al lettore. I migranti vengono descritti nella loro quotidianità, nel tessuto sociale italiano e le figure create dall’autore affrontano con ironia diverse questioni, dalla religione al razzismo, dalla convivenza pacifica al matrimonio o al divorzio, con le numerose implicazioni problematiche relative all’Islam e su come esso viene percepito nella società italiana.

divorzio-all-islamica-a-viale-marconiIn romanzi come Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio (2006) o Divorzio all’islamica a viale Marconi (2010), i personaggi sono uomini e donne di ogni provenienza che accompagnano lo scrittore impegnato ad affrontare le nuove questioni nate dal recente e stabile rapporto tra stranieri e italiani, così da accendere il dibattito che sfida spesso pregiudizi e canoni religiosi e sprona sempre al dialogo tra gli individui. Nonostante la burocrazia per ottenere dei documenti e trovare quindi una stabilità legale in Italia, l’immagine del clandestino non è più rappresentata in modo centrale, segno di una società in cui, nonostante tutto, una parte dei migranti riesce a trovare un punto di approdo legale.

La fine degli anni Novanta e gli anni Duemila non sono solo caratterizzati dalle due “fasi parallele” di cui abbiamo fornito alcuni esempi sopra. Solo un decennio dopo la pubblicazione del primo romanzo della migrazione, Jadelin Mabiala Gangbo, giovane scrittore di origine congolese pubblica, nel 1999, Verso la notte Bakonga, primo di tre romanzi dalla scrittura originale tanto quanto i temi trattati. Si tratta della prima opera di uno dei giovani scrittori stranieri nati in Italia (non è il caso di Gangbo, arrivato però a soli quattro anni) o cresciuti nel Paese; figli di immigrati che hanno spesso conosciuto l’Italia come unico Paese e hanno adottato la lingua italiana naturalmente. I temi trattati riguardano spesso la cultura dei genitori, le proprie origini e lo sguardo che gli italiani portano su di essi. Tuttavia, non costituiscono il fulcro della loro scrittura: l’amore, i traumi adolescenziali e la ricerca di se stessi abitano le opere e le spogliano da qualunque categorizzazione. Non di fronte a seconde generazioni, come afferma ancora Armando Gnisci:

 «Siamo di fronte a una sciocca quasi – comica mossa culturale – mercatante, ma pericolosa. Chi scrive in italiano, pubblica le sue opere, ha 25-30 anni, essendo nato e cresciuto in Italia, e cerca di sfondare nella scena editoriale e mediatica, anche se ha un nome esotico e la pelle nera, non rappresenta una seconda generazione di nulla. [...] Chi, invece, scrive, suona o fa cinema ed è figlio/a di migranti, partecipa direttamente alla incipiente creolizzazione dell’Europa. Fa parte di una nuova e importante storia comune, che comincia appena ad essere narrata» (Gnisci 2006: 30-31).

81vr6lcnpmlNon si tratta quindi, per questi scrittori italiani, di rappresentare la clandestinità in quanto è una condizione che non conoscono direttamente, ma piuttosto di avventurarsi nelle questioni di identità in relazione allo sguardo degli italiani, ma anche alla legislazione in vigore che limita il loro stato in essere, quello di cittadini italiani a tutti gli effetti. Sono molti i temi affrontati, spesso scottanti, come il passato coloniale italiano che ha lasciato segni indelebili nei Paesi che ha toccato e depredato.

La denuncia di un passato mai apertamente condannato, è sicuramente al centro della scrittura di una figura di spicco, di origini somale, Igiaba Scego, scrittrice e giornalista. Attiva dall’inizio degli anni Duemila, Scego lega direttamente la situazione attuale della Somalia e la guerra civile, che imperversa da decenni nel Paese, alla gestione italiana durante il periodo coloniale: prima crudele durante l’occupazione, poi sconsiderata durante l’Amministrazione Fiduciaria. L’autrice, oltretutto, si dedica da anni alla situazione migratoria in Italia, relativa all’arrivo di clandestini e alle tragedie in mare che ne conseguono, denunciando tanto le condizioni inumane quanto le politiche inadatte al fenomeno; già nel 2015 scriveva:

 «Oggi invece per chi viene dal sud del mondo il viaggio è una linea retta. Una linea che ti costringe ad andare avanti e mai indietro. [...] Non ci sono visti, non ci sono corridoi umanitari, sono affari tuoi se nel tuo paese c’è la dittatura o c’è una guerra, l’Europa non ti guarda in faccia, sei solo una seccatura. [...] È dal 1988 che si muore così nel Mediterraneo. Dal 1988 donne e uomini vengono inghiottiti dalle acque. Un anno dopo a Berlino sarebbe caduto il muro, eravamo felici e quasi non ci siamo accorti di quell’altro muro che pian piano cresceva nelle acque del nostro mare» (Scego 2015:..).

7La letteratura italiana della migrazione è disegnata sui passaggi legati alle provenienze e ai transiti dei migranti da tutto il mondo, ma anche sulla scrittura dei figli degli stessi migranti negli ultimi decenni. Un quadro che si compone ogni giorno in quanto non scriviamo queste righe da un presente nuovo o da un futuro scintillante: al contrario, questo umile lavoro di analisi da noi svolto, intende sintetizzare in poche pagine anni di letture e osservazioni del fenomeno migratorio, con un’attenzione rivolta al clandestino quale cittadino del nostro tempo e detentore di diritti e doveri pari, a nostro avviso, a quelli di qualunque altro.

Rappresentare il clandestino potrebbe significare categorizzare il suo essere viaggiatore “illegale” tra coloro che, come dice Erri De Luca, sono “colpevoli di viaggio” (De Luca 2005: 31), monete di scambio del triste esito della decolonizzazione europea. Tuttavia, vista l’attuale mera riproposizione politica in corso della sua immagine, noi intendiamo celebrare il clandestino attraverso la sua presenza letteraria in quanto crediamo che essa, senza false speranze, possa essere una delle vie concrete di avvicinamento e di comprensione delle condizione reali dell’altro, di colui che è nato dal lato “sbagliato” del mondo. Quest’ultimo, uomo o donna che sia, è coinvolto in un esodo senza tempo e la sola azione che questo mondo, in crisi ecologica e etica, può compiere, è imparare la cura (care) della terra e dei suoi abitanti più fragili, per sviluppare in tutti noi quella fiducia, quel coraggio necessari ad un cambiamento globale, conto l’avidità e l’alienazione delle nostre società.

Dialoghi Mediterranei, n. 40, novembre 2019
Riferimenti bibliografici
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Gnisci Armando (dir), Nuovo Planetario Italiano, geografia e antologia della letteratura della migrazione in Italia e in Europa, Città Aperta Edizioni, Troina 2006.
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Melliti Mohsen, Pantanella, canto lungo la strada, Roma, Edizione lavoro, 1993.
Melliti Mohsen, I bambini delle rose, Roma, Edizioni Lavoro, 1995.
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Scego Igiaba, Rhoda, Edizioni Sinnos, Roma 2004.
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Vittorio Valentino, in Francia dalla fine degli anni ’90, si è laureato con una tesi in Letteratura italiana sulla tematica del viaggio nella scrittura di Erri De Luca. Nel 2013 ha conseguito un dottorato di ricerca in lingue romanze, su “Letteratura della migrazione nel Mediterraneo dal 1950 ad oggi, legata alla francofonia e all’italofonia”. I suoi temi letterari di predilezione sono collegati al Sud, ai suoi migranti, scrittori e non, alla letteratura al femminile e al postcolonialismo. Ha dedicato particolare attenzione in diverse pubblicazioni su autori come De Luca, Lakhous, Scego o Abate. Nel 2014 ha ottenuto la qualifica alle funzioni di “Maître de conférences” dal CNU francese. Insegna attualmente letteratura all’università de La Manouba di Tunisi.

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