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La cultura dell’antico e del riuso in architettura

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La cattedrale di Siracusa (ph. Olimpia Niglio)

di Olimpia Niglio [*]

Nel mondo occidentale, con particolare riferimento a quello denominato “mondo classico”, la continuità di un bene ereditato era garantita dai contributi scritti e dalle opere letterarie che analizzavano minuziosamente il patrimonio ereditato. Questa dimensione della continuità e dell’eternità se riferita poi all’architettura e alle opere d’arte trovava riscontri fondamentali anche nell’uso dei materiali, la cui scelta e le cui opportunità erano strettamente vincolate anche al luogo in cui l’opera veniva realizzata. Certamente una scelta oculata del materiale nonché una perfetta esecuzione e una costante manutenzione non potevano che essere tutte componenti essenziali per garantire continuità all’opera.

Gli antichi Greci e Romani conoscevano molto bene tecniche e metodi per conservare e garantire lunga vita al loro patrimonio costruito ed artistico. In Occidente si è discusso molto sul significato che in particolare i Romani attribuivano al verbo instaurare o ancora renovare, per indicare un’operazione finalizzata a rifare ciò che era andato perduto e quindi non tanto al significato che poi il verbo restaurare ha assunto soprattutto a partire dalla metà del XIX secolo. Un esempio è il caso dell’imperatore romano Adriano (76-138 d.C.) che aveva previsto un importante piano di manutenzione dei monumenti della Grecia e dell’Asia Minore al fine di ricostruire tutto quanto nel tempo era andato perduto. Ovviamente questo tipo di operazione oggi solleverebbe le ire di tutte le società di archeologia anche se operazioni finalizzate alla ricostruzione avvengono ancora oggi e in molti casi sono anche auspicate e controllate dalle stesse istituzioni statali.

Nel passato l’atteggiamento nei confronti del patrimonio ereditato era più di ordine culturale ma anche religioso perché si avvertiva una certa riverenza nei confronti dell’oggetto ereditato. A questo comportamento ha fatto poi seguito quello che ha visto un accentuarsi del reimpiego materiale del patrimonio ereditato e quindi al riuso o anche alla demolizione per recuperare questi materiali per altre costruzioni e spesso anche in altri luoghi.

In realtà in Occidente con l’avvento del cristianesimo l’interesse per l’eredità del passato assunse un valore differente. L’imperatore Costantino (274-337 d.C.) con la legge del 326 ordinava di terminare gli edifici imperiali fatta eccezione per i templi che invece dovevano essere distrutti e i materiali essere riusati per costruzioni nuove. Altra opportunità che veniva proposta era quello di trasformare i templi pagani in chiese cristiane. Sono numerosi i casi che è possibile analizzare ancora oggi soprattutto sul bacino mediterraneo dove resti di antichi templi sono stati incorporati in costruzioni destinate al culto cristiano. Un esempio tra numerosi il caso della Cattedrale di Ortigia, a Siracusa in Sicilia, una chiesa rinnovata in età Barocca ma la cui costruzione ingloba proprio un tempio di età classica e quindi le antiche colonne divengono elementi strutturali della nuova costruzione.

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Siracusa, prospetto laterale della Cattedrale (ph. Niglio)

Differentemente con il Codex Theodosianus in sedici libri (438d.C.) dell’imperatore Teodosio II (408-450 d.C.) si assiste ad un cambiamento di atteggiamento nei confronti dell’opera antica. Era infatti vietato demolire o anche solo spoliare gli antichi templi ma differentemente era fondamentale mantenerli, restaurarli e tramandarli alle generazioni future. Dopo Teodosio II anche l’imperatore Giustiniano (482-565) incentivò provvedimenti legislativi per restaurare i monumenti antichi e non per distruggerli. Possiamo certamente affermare che sono queste le prime importanti politiche culturali finalizzate alla gestione del patrimonio archeologico.

 Il significato della parola spolia

Il termine spolia è il nominativo plurale neutro del sostantivo latino spolium, spolii la cui definizione ha un’accezione negativa, ossia sta ad indicare bottino, spoglie del nemico ma anche rapina. Letteralmente quindi il termine indica quell’insieme di beni che durante uno scontro bellico sono sottratti con violenza agli avversari.

Un esempio della negatività della definizione è fornito anche dalla raccolta delle costituzioni imperiali dell’Imperatore Romano d’Oriente Giustiniano, corpo legislativo del 534 d.C., noto con il nome di Codex Iustinianus. Il contenuto di quanto dichiarato nel Codex Iustinianus è ripreso successivamente da Procopio in De aedificiis (560 d.C.) nella lettera di Belisario a Totila in cui si legge:

«[…] Gli uomini savi e che apprezzano giustamente le leggi del vivere civile abbelliscono con le opere d’arte le città che ne sono ancora prive, gli uomini stolti invece le spogliano del loro ornamento e così senza vergogna tramandano ai posteri il ricordo della loro indole malvagità».

Tuttavia sono numerosi i documenti di epoca tardo-imperiale ma anche di epoca medievale in cui l’uso del termine spolium sta proprio ad indicare una definizione negativa. Questa realtà inizia a cambiare nel momento in cui la cultura del cristianesimo ha necessità di «dotarsi di un patrimonio culturale» che individua proprio all’interno di una realtà già disponibile e culturalmente autorevole. Si tratta infatti della tradizione ellenistica e di quella romana. Si viene così ad abbattere una importante barriera tra la cultura profana e quella sacra e si rivaluta anche il grande patrimonio letterario e filosofico dell’antichità pagana.

Infatti già nel V secolo d.C. l’atteggiamento nei confronti del «tempo de li dèi falsi e bugiardi» (Dante, Inferno, I 72) riprende con voci piuttosto discordanti in un famoso passo del De doctrina Christiana di Sant’Agostino (354 d.C.-430)

«[…] Riguardo ai cosiddetti filosofi, massimamente ai platonici, nell’ipotesi che abbiano detto cose vere e consone con la nostra fede, non soltanto non le si deve temere ma le si deve loro sottrarre come da possessori abusivi e adibirle all’uso nostro. […] Lo stesso si deve dire di tutte le scienze dei pagani».

Questo interesse più positivo nei confronti dell’antico trova un riscontro importante anche nel settore dell’arte e dell’architettura. L’auctoritas che la cultura del cristianesimo riconosce nella storia passata trova importanti riscontri sia nella rivalutazione delle fonti letterarie quanto dei beni artistici. Inoltre il patrimonio ereditato dal passato non è più visto come un bottino che il nemico ha sottratto alla memoria dei posteri, ma piuttosto come testimonianza di un documento di una epoca passata da usare e valorizzare. Ecco che il termine spolia assume un significato differente, con un’accezione più positiva, intendendo con questo termine un oggetto che si può riutilizzare e rivalutare.

Tale forma di “riuso” nella maggioranza dei casi è strettamente connessa a differenti funzioni che possiamo individuare in tre specifiche classi. Una funzione strutturale essendo questi reperti spesso di forme che si adattano ad essere riusati nelle costruzioni; una funzione decorativa in quanto si tratta di materiali che hanno anche una valenza estetica; ed infine una funzione culturale in cui all’elemento di riuso è riconosciuta una dignità storica e quindi di «memoria del passato» e come tale è reinterpretata.

Questa è una pratica molto comune in epoca medievale nel continente europeo ma poco più tardi, a partire dal XVI secolo, dopo la conquista del continente americano, si diffonderà anche nelle nuove terre d’oltreoceano dove molto forte è stato il ruolo culturale svolto soprattutto dalle compagnie religiose in particolare in Messico. 

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Roma, Arco di Costantino (ph. Niglio)

Il reimpiego dei materiali storici in Occidente. Alcuni esempi

In Italia le ricerche basate sul costante dialogo tra archeologia e fonti archivistico-letterarie hanno evidenziato mutamenti di metodi nel reimpiego dei materiali antichi tra l’età tardo-repubblicana e imperiale nonché l’età tardo-antica. Studiosi del settore, tra cui ricordiamo Patrizio Pensabene, professore di Archeologia Classica presso l’Università di Roma “La Sapienza”, hanno osservato che il riutilizzo di materiali provenienti da altre costruzioni in epoca romana era una prassi molto poco eseguita, soprattutto se riferita ad edifici pubblici. Infatti questi ultimi, per motivi anche di propaganda politica, erano realizzati con materiali pregiati e non di riuso. Questa pratica del “riuso” era inoltre controllata da atti legislativi che cercavano anche di ostacolare il mercato di elementi architettonici e quindi di evitare spesso demolizioni non necessarie.

Differentemente il reimpiego di materiali provenienti da antiche costruzioni inizia a diffondersi intorno al III secolo d.C. Questa pratica è ampiamente documentata nell’attuale area archeologica del Foro Romano ed ancora presso le terme di Diocleziano dove nel XVI secolo interverrà Michelangelo Buonarroti con la costruzione della chiesa di Santa Maria degli Angeli. La politica del “reimpiego” trova anche una sua valida giustificazione nel fatto che risultava sempre più difficile il reperimento di materiali pregiati, in particolare i marmi. Ancora Pensabene annota che è proprio in epoca costantiniana che l’uso delle spoglie diventa una prassi molto comune. In questo ambito l’Arco di Costantino nel Foro romano rappresenta un esempio emblematico della pratica del “riuso”; infatti in questo Arco il riutilizzo di rilievi storici, che rappresentano Traiano, Adriano e Marco Aurelio, risponde ad un chiaro programma di collegamento ideale del nuovo imperatore Costantino alla politica di buon governo in accordo con il senato adottata dai suoi predecessori.

Questa politica gestionale e «conservativa» risponde soprattutto all’esigenza di dar vita ad uno stretto legame con la storia passata, una sorta di continuità ideologica finalizzata a legittimare o anche a sminuire i profondi mutamenti storici e strutturali che si erano verificati principalmente nel tardo-impero.

Nel settore dell’architettura, soprattutto a partire al III secolo d.C. gli interventi confermano una chiara volontà di elaborare forme di riadattamento delle strutture antiche. In quella ininterrotta linea di continuità con il passato emergeva una chiara intenzione: trasformare la preesistenza frazionandola, smembrandola ed inglobandola nei nuovi contesti edilizi. In quest’ultimo caso il riuso induceva anche un’opera di reinterpretazione delle forme antiche che venivano così ad adattarsi alle nuove destinazioni.

Ancor di più in epoca medievale si assiste a numerose opere di riadattamento soprattutto degli edifici ecclesiastici edificati su preesistenti basiliche paleocristiane o antichi templi pagani. Fino a tutto il XVIII secolo gli interventi sulle preesistenze e sui ruderi archeologici erano guidati soprattutto dalla chiara consapevolezza di dover operare in continuità con il passato, ossia senza distinzione alcuna tra passato e presente. L’azione del nuovo che si innestava sull’esistente avveniva mediante strumenti, tecniche e metodi uguali a quelli che avevano prodotto il manufatto architettonico originario. Scopo era quello di tendere a realizzare un’opera nuova, che rispondeva nel modo migliore alle moderne esigenze ma che allo stesso tempo doveva essere congeniale con il passato. L’intervento sulla preesistenza era volto a modificare e trasformare il manufatto per esaudire le necessità moderne piuttosto che a conservare i valori propri del suo passato.

Le ragioni di tali azioni vanno però ricercate nella pluralità dei differenti atteggiamenti culturali, politici e religiosi che necessariamente intervenivano nella trasformazione della città e quindi dei suoi monumenti. Si trattava di operazioni che dimostravano chiaramente la finalità di modificare piuttosto che conservare le strutture preesistenti e ciò trovava testimonianza sia a livello del singolo manufatto che a scala urbana. Infatti il patrimonio ereditato dal passato non era percepito come evento storico ma come “monumento aperto” ossia destinato a recepire trasformazioni. L’opera così assumeva un valore sempre più connesso all’attualità più che alla sua storia, ossia appartenente ad un eterno presente piuttosto che ad un momento storico ben definito.

La preesistenza storica non aveva un valore di singolarità ma piuttosto di riproducibilità e l’azione rivolta su di essa doveva garantire un’adeguata capacità di riadattamento alle nuove funzioni per le quali questa veniva trasformata. L’intervento doveva soddisfare la contemporaneità attraverso l’adeguamento delle strutture edificate in tempi passati, quindi adattando questi a nuovi usi. Il più delle volte la volontà di intervenire sulle preesistenze era indipendente dalle condizioni conservative delle opere oggetto di intervento ma certamente dettate da motivazioni sociali ed economiche.

In ogni epoca storica si sono registrati interventi realizzati su edifici del passato per adeguarli a nuovi usi ed esigenze, ma la lettura stratigrafica e morfologica, eseguita sia a scala urbana che sul singolo manufatto, ci ha consentito in molti casi di risalire alle strutture originarie. Ovviamente gli esempi che la storia ci ha trasmesso sono numerosissimi e trovano applicazione in diversi ambiti: dagli edifici religiosi, ai palazzi privati e pubblici, alla rifunzionalizzazione degli spazi urbani, tutti interventi che si manifestano con propri valori e specifiche peculiarità che non è possibile generalizzare. Se il tutto è determinato principalmente da ragioni pratiche ed economiche è anche vero che le origini di tali atteggiamenti possono essere ricercati nel desiderio, come scriveva lo storico Rosario Assunto, di «far rifluire nelle nuove costruzioni la forza e la gloria di quelle antiche». In realtà fino a tutto il XIX secolo il restauro era stato inteso soprattutto come un’operazione rivolta quasi esclusivamente a riattivare antichi edifici però con il solo scopo di riutilizzarli piuttosto che valorizzarli.

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Oaxaca, Monte Albán, nuova area archeologica (ph. Niglio)

La cultura del «riuso» nei Paesi Latino Americani

A partire dalla metà del XVI secolo, dopo la conquista del Nuovo Continente da parte della Corona di Spagna, gli interessi espansionistici furono così incisivi da far programmare a Filippo II, re di Spagna, una organica pianificazione della conquista dei nuovi territori oltre oceano.

Subito dopo la conquista un contributo incisivo da un punto di vista culturale fu assicurato dalle Compagnie religiose ed in particolare dai Domenicani che si insediarono principalmente nelle zone dell’America Centrale ed dai Francescani e Gesuiti che invece occuparono soprattutto i territori dell’America Meridionale. I confini giuridici non erano quelli odierni tuttavia gli insediamenti religiosi tuttora esistenti rappresentano una importante testimonianza della cultura occidentale in America.

Durante la conquista prima di tutto si assiste ad una imposizione di forme e regole organizzative proprie della cultura europea che per prima si manifestano nella fondazione delle nuove città sui modelli rinascimentali ma a loro volta di derivazione culturale greco-romana. Questo è quanto si riscontra ancora oggi nella struttura urbana di Città del Messico o anche in contesti urbani più piccoli come Puebla, Morelia e Oaxaca, se prendiamo in esame soprattutto il Messico. Questa imposizione culturale è chiaramente manifesta anche nella pianificazione delle opere di fortificazione che si rifanno fortemente all’architettura militare rinascimentale europea e di cui si conservano degli esempi molto interessanti soprattutto sulla costa atlantica dove erano intervenuti, sin dalla fine del XVI secolo ingegneri militari anche di origine italiana, come gli ingegneri Giovanni Battista e Battista Antonelli.

In questa fase storica tuttavia mancano apporti scientifici che possano descrivere l’attenzione alla conservazione nella cultura indigena. Infatti non ci sono molte tracce di studi e ricerche, condotte anche in ambito archeologico, che abbiano messo in luce aspetti legati al riutilizzo di materiali di epoca pre-coloniale nelle opere realizzate poi durante la conquista. Come sappiamo dai testi di storia americana e spagnola non sempre gli eventi legati all’occupazione dei nuovi territori sono stati esemplari nel rispettare la cultura locale, anzi piuttosto sono stati invasivi e distruttivi in modo del tutto irreversibile.

Gli studi archeologici che soprattutto in questi ultimi anni hanno prodotto interessanti risultati, principalmente in Messico e lungo tutta l’area mesoamericana, hanno dimostrato piuttosto che durante la conquista spagnola sono stati spesso riutilizzati antichi insediamenti indigeni ma molte delle loro tracce culturali e materiali sono state estirpate violentemente o del tutto cancellate.

In Messico, così come in tutto il continente latino-americano, la cultura pre-coloniale ha costituito un vero e proprio bottino di guerra; qui il termine spolia ha assunto quella denominazione negativa propria del sostantivo latino. Le popolazioni indigene infatti sono state spogliate di tutto e spesso anche annientate. Questa politica di espoliazione soprattutto nelle colonie spagnole del continente Americano è continuata anche dopo la nascita delle singole repubbliche e purtroppo, pur consapevoli del ricco patrimonio ereditato dalle culture pre-indigene, i nuovi Stati non si sono occupati sin da subito di preservare i propri patrimoni culturali ma differentemente sono stati oggetto di importanti mercificazioni. Si sono così sviluppati molti mercati illegali di esportazione soprattutto dei beni archeologici le cui aree, non ancora interessate da un flusso di interesse turistico, sono ancora oggi vere e proprie cave da cui ricavare bottini. Un esempio proprio in Messico la nuova area archeologica di Monte Alban, Oaxaca, di recente istituzione dove sono in corso opere di ricostruzione degli antichi templi proprio a causa di fenomeni di spoliazione.

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Oaxaca, Monte Albán, area sacra azteca (ph. Niglio)

In Europa già a partire della seconda metà del XVIII secolo, presso lo Stato Pontificio, a seguito delle prime importanti scoperte archeologiche, erano stati emanati decreti per la salvaguardia soprattutto del patrimonio artistico e scultoreo e poi successivamente anche norme per evitare vendite di questi beni nonché proibire mercati illegali e anche di esportazione. Erano state queste occasioni anche per l’istituzione delle prime forme di musealizzazione dei beni recuperati e quindi l’istituzione dei musei.

Purtroppo le politiche culturali dei singoli Paesi, nel corso della loro evoluzione storica e amministrativa, non sempre hanno prestato particolare attenzione al tema della conservazione dei beni provenienti dalle aree archeologiche né tanto meno si sono occupati di sviluppare programmi di gestione e di valorizzazione del patrimonio culturale se non per fini esclusivamente monetari e quindi turistici. Riflettiamo, ad esempio, sulla mancanza totale di musei dove custodire, ma anche restaurare, i numerosi reperti archeologici; luoghi espositivi, di ricerca e di conoscenza da far nascere sugli stessi luoghi dei ritrovamenti in modo da creare una corretta contestualizzazione tra il bene ritrovato e il luogo che in futuro lo custodirà. Tutto questo non esiste se non in quei luoghi che sono diventati strumenti del turismo di massa.

È quanto si rileva soprattutto nei Paesi latino americani che più di altri sono stati oggetto di depredamento e di distruzione. Tuttavia il Messico è uno di quei Paesi che sin dalla liberazione dalla Spagna ha subito iniziato ad attivare programmi e progetti di tutela del proprio patrimonio, anche indigeno e archeologico nonostante i depredamenti avvenuti con la dominazione spagnola ma purtroppo adesso anche da parte degli stessi cittadini messicani.

Nel 1825 in Messico nasce il Museo Nacional Mexicano, un’istituzione seguita, un secolo dopo, nel 1939, dall’Instituto Nacional de Antropología e Historia (INAH) le cui azioni sono finalizzate alla ricerca, ai programmi di tutela e protezione del patrimonio culturale in tutte le sue forme e manifestazioni. Ma in Messico è soltanto del 1972 la legge federale sopra i monumenti, zone archeologiche e beni artistici e storici (6 maggio 1972) in cui sin dai primi articoli si chiariscono le principali definizioni e si delineano le azioni da intraprendere per tutelare e conservare il patrimonio della nazione. Il capitolo III della legge approfondisce il tema in merito ai monumenti e ai siti archeologici e rimanda poi ai trattati e alle convenzioni internazionali per tutte le tematiche non trattate nel documento.

Ovviamente essendo il Messico una federazione di Stati ognuno al proprio interno legifera e stabilisce regolamenti attuativi anche rispetto al patrimonio della nazione presente sul proprio territorio; le innumerevoli risoluzioni e piani di gestione ovviamente non sempre sono rispondenti alle reali esigenze dei beni culturali nonché dei luoghi che li ospitano, tanto da determinare situazioni di scarso controllo e di cattiva gestione. Tutto questo è ovviamente il risultato di una totale assenza di politiche culturali che invece dovrebbero aiutare a definire un costruttivo dialogo tra i principali attori che intervengono nella gestione del territorio. Differentemente gli interessi di pochi prevalgono su quelli della comunità e da qui la perdita irreversibile del patrimonio culturale e le difficoltà di procedere secondi princìpi etici e di responsabilità comune.

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México, Cancún Yamil Lu-’m, rovine di epoca Maya (ph. Andrew Coyne, 2012)

Verso una gestione legale del patrimonio archeologico in Messico

Quanto fin qui analizzato si è reso necessario al fine di strutturare una base culturale e così aiutare anche un lettore che non conosce il Messico e il suo patrimonio, ad entrare di più nel merito di quelle che sono le ragioni che hanno spinto l’autrice Lilia Lucía Lizama Aranda ad occuparsi di un tema importante ma soprattutto di estrema attualità non solo in Messico.

Il lavoro di ricerca, molto puntale ed organico, sul tema della gestione delle aree archeologiche nel municipio Benito Juárez nello stato di Quintana Roo in Messico, costituisce infatti una guida anche per altre realtà archeologiche ma soprattutto apre una importante riflessione sul tema delle politiche culturali e di gestione dei luoghi di interesse patrimoniale la cui strutturazione ancora rientra nelle prerogative amministrative dei differenti territori. In realtà in Messico, ancora oggi, mancano chiari riferimenti legislativi in merito alle politiche culturali e alla gestione dei territori e del paesaggio.

Lilia Lucía Lizama Aranda, nello sviluppo del lavoro di ricerca, fa numerosi riferimenti a modelli di studio, definizioni, piani e diagrammi esplicativi di situazioni che necessariamente richiedono anche una formazione di base da parte di chi deve mettere poi in atto tutto quanto viene programmato e previsto. Quindi parlare di piani di gestione culturale implica mettere in gioco la scuola, l’università e quindi la formazione, unico e valido strumento per poter affrontare in maniera costruttiva la tutela e la valorizzazione del patrimonio nazionale. Questo aspetto emerge chiaramente anche dalla lettura delle numerose interviste realizzate sul territorio di studio e che mettono in evidenza proprio una critica situazione soprattutto per la scarsa consapevolezza e conoscenza del patrimonio da tutelare. Così è inutile prevedere piani e programmi gestionali se poi non ci sono le competenze adatte in grado di poter capire e gestire quanto viene progettato e proposto.

In realtà è proprio questa necessità finalizzata a migliorare la formazione di base e il coinvolgimento ad una politica partecipata delle scelte pubbliche che può aiutare non solo la comunità Benito Juárez nello Stato di Quintana Roo ma molte altre realtà territoriali e non solo in Messico. Infatti solo una forte e consapevole formazione può contribuire a programmi di gestione legale del territorio e del suo patrimonio anche archeologico. L’augurio è che nel prossimo futuro le vestigia archeologiche non siano solo strumento di spoliazione ma differentemente di valorizzazione legale di un territorio la cui storia merita di essere raccontata e vissuta in tutte le sue stratificate componenti e quindi nel rispetto del passato (preesistenza), nella tutela del presente (esistenza) e nella determinazione del futuro (coesistenza).

Dialoghi Mediterranei, n. 35, gennaio 2019
[*] Prefazione al volume di Lilia Lucía Lizama Aranda, La gestión legal de los espacios arqueológicos en el municipio de benito juárez, Quintana Roo, México (Aracne editrice, Roma, dicembre 2018). Pubblicata in lingua spagnola è qui proposta per il pubblico italiano nella lingua originale dell’autrice.
Riferimenti bibliografici
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Zappella, Luciano (2005), Le due città. Paganesimo e Cristianesimo e in Sant’Agostino, Jaka Book, Milano.
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Olimpia Niglio, architetto, PhD e Post PhD in Conservazione dei Beni Architettonici, è docente titolare di Storia e Restauro dell’Architettura comparata all’Universidad de Bogotá Jorge Tadeo Lozano (Colombia). È Follower researcher presso la Kyoto University, Graduate School of Human and Environmental Studies in Giappone. Dal 2016 in qualità di docente incaricato svolge i corsi di Architettura sacra e valorizzazione presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Santa Maria di Monte Berico” della Pontificia Facoltà Teologica Marianum con sede in Vicenza, Italia.
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