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La “cosa” di Ettore Guatelli. Spunti di riflessione a cent’anni dalla nascita del Maestro

Il podere Bellafoglia su cui insiste il Museo Guatelli

Il podere Bellafoglia su cui insiste il Museo Guatelli

omaggio a Guatelli

di Emanuela Rossi

È difficile ricondurre il museo di Ettore Guatelli entro la storia dei musei di interesse demo-etno-antropologico. Con la museografia detta “spontanea” condivide certi tratti, ma pure se ne discosta tanto da rappresentare un caso unico in Italia. Questa tipo di museografia nasce alla fine degli anni ‘60 del ‘900 a seguito dell’abbandono delle campagne e del successivo inurbamento degli ormai ex-contadini. Su questo molto è stato scritto a partire dai lavori di Alberto Cirese che teorizza il collezionismo spontaneo e “dal basso” come legato alla consapevolezza dei “prezzi pagati”. 

«Ed alla percezione sempre più viva dei prezzi pagati mi pare si debba, almeno in parte, il recupero che nelle zone più avanzate gli stessi contadini vengono facendo proprio di quegli oggetti tradizionali che magari fino a poco tempo fa rifiutavano (o abbandonavano alla rapina dell’antiquariato speculativo) come simboli della faccia negativa della loro vecchia condizione» (Cirese, 1977: 25). 

Anche l’esperienza di Ettore Guatelli è legata ad un mondo contadino in forte trasformazione e prossimo alla fine, ma pure si discosta dalle decine e decine di musei nati “dal basso” per uno stile allestitivo (successivamente diventato modello per altri musei) e filosofia (del collezionare cose “dall’estremo ieri e all’estremo domani”) peculiari oltre che per l’originalità e la visione del suo artefice, un maestro di scuola, nato in una famiglia di mezzadri.  

Ma l’opera che Guatelli ci ha lasciato è un museo? Questo è un punto che forse merita una riflessione. Lo stesso Ettore non era affatto convinto che la sua “cosa” fosse un museo. Sosteneva che erano gli altri ad avergli attribuito questa etichetta.

Ripercorrendo la storia del processo di patrimonializzazione che ha riguardato l’eredità guatelliana, potremmo forse dire che sono stati principalmente gli antropologi ad averla “fatta propria” (in senso cliffordiano lo affermo) e ad averla introdotta in una cornice di pensabilità che l’ha resa principalmente un museo di interesse demo-etno-antropologico. Gli antropologi, cioè, hanno patrimonializzato questa eredità come una sorta di museo da riconnettere alla fase del collezionismo spontaneo e dal basso di cui si diceva (Lattanzi, Padiglione, D’Aureli, 2015), seppure riconoscendogli delle peculiarità che lo rendono un unicum. Ma se questo processo di “appropriazione” lo avessero condotto ad esempio gli storici dell’arte che pure si sono mossi intorno alla “cosa” guatelliana? Cosa sarebbe diventato: forse una installazione d’arte contemporanea? 

Museo Guatelli

Museo Ettore Guatelli

Cosa sto provando a dire? Guatelli ha prodotto qualcosa che travalica i confini classificatori delle discipline che sappiamo benissimo non essere “naturali”, ma frutto di modi della conoscenza legati a politiche e poetiche dominanti in certi momenti. Un fatto è certo: abbiamo avuto in eredità qualcosa che fa pensare, che stupisce, che fa sognare, che fa litigare. Tutto questo non è poco! Bisogna avere cura di un lascito che continua a produrre questi effetti. Qualunque cosa esso sia. Si è deciso di chiamarlo “museo”, non “opera”, non “installazione”, non “archivio”? Va benissimo, purché se ne abbia cura. Anche a me la “cosa” guatelliana nel corso degli anni ha portato varie suggestioni, a seconda delle cose che studiavo in un certo momento o che incontravo e che mi parevano calzanti. 

Ero piuttosto giovane quando ho visitato per la prima volta il podere di Ozzano Taro. Mi ero da poco laureata e accompagnai Pietro Clemente ed alcuni suoi studenti, non ricordo se dell’università di Roma o di Siena, in una vista. Doveva essere la prima metà degli anni ‘90. Come tutti, rimasi strabiliata da quello che vedevo. Mi colpì come Ettore si muoveva in quel suo spazio, con il quale in un certo senso era tutt’uno. Sembrava conoscere tutte le storie di quella enorme quantità di oggetti che aveva sistemato ovunque nella ex casa contadina.

In quegli anni scrissi (Clemente, Rossi, 1999) che la cosa guatelliana mi ricordava una sorta di “palazzo della memoria”: una mnemotecnica tangibile. Una specie di gigantesco e complesso nodo al fazzoletto, fatto per tenere a mente qualcosa. Ancora continua a piacermi questa suggestione e, per certi versi, mi fa sorridere. Cercai di rintracciare nella “cosa” artifici retorici. Vi ritrovai la figura della ripetizione e il rapporto con quella parte della retorica che si chiama memoria, soprattutto quando questa assume una dimensione palpabile, fisica, di struttura architettonica. Quando Ettore ci accompagnava in visite guidate nel suo “palazzo” si soffermava a raccontare storie, tradizioni, aneddoti che sembravano uscire fuori dagli oggetti. 

Museo Guatelli

Museo Ettore Guatelli

A volte, ora che sono una docente universitaria e dedico sempre una lezione al museo Guatelli, ai miei studenti ancora lo racconto così: un palazzo della memoria. E la collezione di oggetti lì raccolti non avrebbe lo stesso senso se portata in un altro luogo. Anche le lezioni agli studenti sono per me sempre motivo di sorpresa: la visione del museo, attraverso vecchi documentari (mi riferisco ad un lavoro degli anni ‘90 che vede Claudio Rosati intervistare Ettore) sortisce tra gli studenti ogni volta reazioni imprevedibili: commozione, il ricordo del nonno, stupore e la voglia di andarlo a visitare.

In questo periodo mi sto chiedendo se la “cosa” non possa essere letta alla luce del concetto di “artificazione” secondo la definizione che ne hanno dato Shapiro e Heinich (2012). Sto lavorando con questo concetto per tutt’altri motivi. L’artificazione è, a mio avviso, una delle forme che in contesti postcoloniali ha preso la pratica di decolonizzare gli spazi museali e dunque rappresenterebbe una sorta di repatriation simbolica alle comunità indigene. (Rossi, 2018). 

Le due autrici scrivono che: 

«We see artification as a process of processes. We have identified ten constituent processes: displacement, renaming, recategorization, institutional and organisational change, patronage, legal consolidation, redefining time, individualization of labor, dissemination, and intellectualization» (Shapiro, Heinich, 2012: 5). 

Nel caso di Guatelli l’artificazione è da rintracciare nello spostamento degli oggetti da luoghi come discariche, cantine, capannoni e altri  luoghi dello scarto e del non uso ai muri del suo podere dove andavano a comporre forme grafiche. E il podere stesso ne è uscito in conclusione artificato. Tanto che a mio avviso l’opera di Guatelli non può essere da lì spostata, se non causando una perdita di senso a tutto il progetto. 

Anche Christian Boltanski si è soffermato su questa dimensione dello “spostamento” e della “ricreazione”: 

«Le somiglianze tra la mia poetica e quella di Guatelli, geniale maestro elementare con la passione per il tutto può tornare utile, sono tantissime. Ho visto similitudini non solo con il mio lavoro, ma anche con quello di Duchamp e di Spoerri. Perché anche Guatelli come loro estrapola gli oggetti (in questo caso attrezzi da lavoro) dal loro contesto, li reinventa e li trasforma rendendoli mausolei del passato. Strappa alla dimenticanza echi di persone appartenenti ad un mondo minore, che nessuno avrebbe mai raccolto» (Boltanski). 
Museo Guatelli

Museo Ettore Guatelli

L’artificazione è in primo luogo un processo dinamico, che implica mutamento sociale, attraverso il quale emergono nuovi oggetti e nuove pratiche. Per poter comprendere questo processo bisogna in primo luogo descriverlo. Questo in parte è stato fatto, ma in parte mi pare un lavoro ancora da fare. Propongo insomma una riscrittura della storia di quello che ora è il museo Ettore Guatelli per far emergere i processi che ne hanno portato all’esistenza e che in parte sono ancora in atto. Quali sono e sono stati i protagonisti e le istituzioni coinvolte in queste operazioni? Perché la “cosa” che è diventata significativa per molti, al punto da diventare un modello, stenta ad essere riconosciuta come tale dalle istituzioni che dovrebbero prendersene cura?

Vale la pena, io credo, continuare a ragionare su questo perché, come ho provato a mostrare, sono infinite le piste e le suggestioni legate alla “cosa” guatelliana. Dobbiamo averne cura perché possa continuare a produrne.

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022 
Riferimenti bibliografici 
Christian Boltansky in “Cosa si dice del museo”, https://www.museoguatelli.it/museo-del-quotidiano/cosa-si-dice-del-museo/
Alberto Cirese, Oggetti, segni, musei. Sulle tradizioni contadine, Einaudi, Milano, 1977
Pietro Clemente, Emanuela Rossi, Il terzo principio della museografia. Antropologia, contadini, musei, Carocci, Roma, 1999
Vito Lattanzi, Vincenzo Padiglione, Marco D’Aureli, Dieci, cento, mille musei delle culture locali. Cenni storici sui musei regionali demoetnoantropologici italiani
(https://www.treccani.it/enciclopedia/dieci-cento-mille-musei-delle-culture-locali_%28L%27Italia-e-le-sue-Regioni%29/)
Emanuela Rossi, Presenze, assenze, spostamenti in “AM” anno 14, n.40/42, 2018: 121-124

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Emanuela Rossi, docente di discipline DEA all’Università di Firenze dove insegna Antropologia Culturale e dei Patrimoni. Presso la Scuola di Specializzazione in Beni DEA dell’Università di Perugia insegna Antropologia museale. Ha cominciato a lavorare su temi patrimoniali, inizialmente da una prospettiva museale, nel 2003, conducendo la ricerca di dottorato presso il Museum of Anthropology di Vancouver (Canada). Qui ha lavorato sul processo di formazione della collezione di manufatti prodotti dagli indigeni della costa nordoccidentale del Canada. Sempre in Canada fa parte della Great Lakes Research Alliance for the study of Aboriginal Arts and Cultures (GRASAC): un gruppo di lavoro internazionale che sta conducendo un progetto di digital repatriation. Attualmente sta facendo ricerca sui processi di “indigenizzazione” dei musei nazionali canadesi con una ricerca sulla National Gallery of Canada (Ottawa). In Italia, in questo momento, sta lavorando su alcune «comunità di eredità» nella prospettiva dell’antropologia dei processi di patrimonializzazione.

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