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La comunità, l’Altro e la distanza

Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2020 @ 00:35 In Attualità,Cultura | No Comments

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Lo sguardo di ritorno, 2020 (ph. Alberto Romano)

dialoghi intorno al virus

di Riccardo Talamo

15 aprile

Tutto scorre, passa. È una certezza. Dopo ogni notte, anche la più buia, sorge sempre il sole. Una luce che tutto perdona, consola, intrisa di generosa, colpevole e necessaria dimenticanza. Secondo Rosberg

«le epidemie esercitano sulle società colpite una forte pressione, che porta alla luce strutture nascoste. Dunque rappresentano un campione per l’analisi sociale, rivelano quali sono le priorità e i valori reali della popolazione. Sono storicamente eventi, non tendenze» (Krastev, 2020: 22).

Un giorno qualunque, tra non molto, scenderemo in strada per rappresentare nuovamente le nostre banali e illegittime urgenze, scottati sì da un nuovo fuoco, ma con la forza dirompente del sacrosanto e umano sminuire. Torneremo a collocare “l’altro” al suo posto, caselle individualiste e stigmatizzanti, indice di diversità patologica. Ci affolleremo, fingendo di non riconoscere i volti dei nostri dirimpettai, confusi e schizzinosi tra scaffali pieni di un’abbondanza liberale e incosciente, consumando l’eccesso, purché sottocosto. I balconi saranno vuoti o al massimo daranno alloggio a stendini arrugginiti e i barconi nuovamente pieni, minacciosi e irresponsabili.

Il futuro ci attende. L’uomo dovrà ripartire da alcune questioni fondamentali: il senso di comunità, l’altro e la distanza. Tre concetti contigui che si incrociano, si attraversano per definire i giorni passati e quelli che verranno.

Sul primo il rischio di uno scivolamento politico, nella più becera accezione del termine, è elevato. Parlare di Europa e strategie d’uscita è un ottimo modo per annacquare ogni analisi concettuale, partire dagli eurobond e ritrovarsi con la maglia di Fabio Grosso, infatti, è un attimo. Dunque è d’uopo accarezzare l’argomento senza affondare nelle sabbie mobili di analisi finanziarie e monetarie controverse e pericolose. Necessario trascurare i rilievi faziosi e insopportabili degli slogan pret a porter per trasporre il senso, tutto, della riflessione sull’analisi di un unico rilievo: il senso di appartenenza e condivisione tra gli abitanti del Vecchio Continente.

Cos’è una comunità? Una comunione di intenti, l’insieme di obiettivi da perseguire, un rapporto di convivenza forzata sospinta da dinamiche economiche, un condominio dove si corre verso l’ascensore per evitare di doverlo condividere, una famiglia che continua a mangiare alla stessa tavola per timore di dirsi la verità. Forse tutto questo, forse no. Giusto o sbagliato che sia, una volta passata la bufera, bisognerà dichiararlo, per onestà e quieto vivere.

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Santa Monica. Muro, 2019 (ph. Bruno Colajanni)

Siamo ormai saturi di slogan e sbandieramenti che inneggiano ad un ritorno necessario al florido passato. Digressioni su nuovi nemici e poteri forti che si traducono nella proposta di una rivoluzione old school col fine ultimo di compiere un giro completo attorno all’ultimo ventennio, generare per magia un nuovo inizio con conseguente boom economico e banconota del vecchio conio in regalo alla prima uscita o exit per meglio dire.

Il Trattato di Maastricht, durante i proclami nazionalpopolari di questi surreali giorni, diventa carta da riciclare sul lato pulito come “coppo” per raccogliere tutte le monetine ramate che non abbiamo saputo spendere. Così, tra una richiesta di restituzione della Gioconda e la pretesa del pagamento dei danni di guerra da parte degli antipatici tedeschi, iniziano le campagne di boicottaggio dei vari Carrefour e Lidl. Forzature che non rimangono inosservate e in qualche modo certificano l’esistenza di volti noti.

L’Europa dovrà indagare tra fitte maglie burocratiche e garantiste per ritrovare, prima di dichiararlo al resto del mondo, i termini e il senso di questo stare insieme. Sarà necessario individuare in scorci, non soltanto economici, un senso di appartenenza che giustifichi vecchi sodalizi, aprendo la strada ad una progettualità semplice, per scongiurare il rischio di un’implosione.

Prima della questione economica, politica, finanziaria, geografica e monetaria, l’Unione dovrà ridefinirsi e convincere la sua popolazione della bontà di questa comune, altrimenti non avrà un facile futuro, rischiando puntualmente di vacillare riempiendo bocche abili nel fomentare odio a prescindere. Un modo di fare propaganda che ha confuso il ruolo di aspirante leader politico con quello del rappresentante d’istituto che attira consenso con la promessa di occupare la scuola a metà novembre. Cavalcare l’onda emotiva con spirito di rinnovata fratellanza spostando la mira sul nemico di turno come strategia d’attacco.

Seconda questione: l’altro. Chi è? Dove si trova? In Africa, in Cina, al confine con la Grecia? Nel corpo martoriato di chi ha significato il proprio movimento in pratiche di resistenza e sopravvivenza. Dove, dunque, siamo noi e come ci muoviamo? Anche sotto quest’aspetto l’emergenza Covid-19 ha prodotto un paradosso: abbiamo scoperto che in Paesi ricchi come il nostro se hai paura, e temi di morire, non devi far altro che rimanere fermo sul divano. La beffa è che queste amabili sedute diventano improvvisamente scomode.

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San Francisco, 2019 (ph. Bruno Colajanni)

Stiamo ancora discutendo sull’utilità dell’immobilismo, spegnendo le velleità capricciose di chi a casa non vuole stare, e pubblichiamo mezzo social lamenti isterici prodotti da convivenze forzate. Ci mostriamo agguerriti nell’elevare con carattere d’urgenza i nostri diritti al punto da ignorare completamente un dramma che si consuma nel silenzio: molta gente la casa non ce l’ha. Molte persone non hanno balconi dove intonare inni nazionali, supermercati dove poter contrarre virus e coniugi da mal sopportare e deridere su Facebook. Una buona parte della popolazione mondiale non ha paura neanche di questo invisibile male e sa per certo che morire all’interno di un ospedale è comunque un lusso al quale ambire.

 «L’imperativo è capire quali sono le coordinate che definiscono il nostro sguardo contemporaneo ma, prima ancora, prendere sul serio le responsabilità di una pratica politica che ha scritto la storia e la geografia della modernità, e ha progettato le Architetture dell’Ostilità che animano il nostro presente. La responsabilità sembra essersi concretizzata in un paesaggio che ha colonizzato l’immaginazione globale, oppure in una sorta di marca temporale, spaziale e politica […] Il titolo di questo paesaggio è una data sul calendario (Bonazzi, 2011: 142-43)

Bonazzi si riferisce all’11 settembre, ma sono convinto che se avesse scritto queste parole appena nove anni dopo, il riferimento storico sarebbe stato diverso.

Derek Gregory, a tal proposito, scrive che l’attacco al World Trade Center ha in qualche modo distrutto l’immunità intellettuale del mondo occidentale e la relativa pigrizia colpevole. Da quella data bisogna inesorabilmente fare i conti con le culture della violenza politica. Oggi siamo nell’epoca in cui le identità si costruiscono per opposizione e in negativo. Così, qualsiasi valutazione rispetto all’ “altro” poggia spesso su petulanti dichiarazioni arroganti e soggettive, mettendo in scacco il fine ultimo di un’onesta narrazione: la ricerca della verità. Roxanne Euben dice che il privilegio del potere sta nel lusso di non riconoscere il proprio status nello sguardo di ritorno. Le conseguenze sono state eticamente catastrofiche, hanno innalzato il proprio dolore mettendo a tacere quello degli altri, hanno creato buchi neri nello spazio morale dell’Occidente (Fletcher, 2004).

La domanda che all’epoca era, perché ci attaccano? Oggi diverrebbe perché sbarcano sulle nostre coste? O peggio, perché non posso andare a correre? Punti di vista che denotano il privilegio di chi, escludendo lo sguardo di ritorno e traducendo la realtà a proprio uso e consumo, diviene immediatamente vittima. Emblematico il termine utilizzato da un ragazzo in partenza su un treno verso il sud, in piena emergenza sanitaria, pochi minuti prima che le misure restrittive divenissero ufficiali ed effettive. Andava comprensibilmente di fretta e, intervistato da Fanpage, dichiarava di sentirsi un profugo (https://www.youtube.com/watch?v=Of6o4AhLRuk&t=17s).

Cosa è un profugo e cosa vuol dire sentirsi tale? È legittimo tornare a casa, essere profughi o pro-fuga? Il dibattito si è aperto nei giorni successivi dividendo colpevolisti e innocentisti. Sul piatto della bilancia le ragioni tmultuose di un erinnico sentire: e se fosse tuo figlio? E se fossi tu? E chi ha parenti giù? Ci risiamo. Questione di punti di vista? No.

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Sezione di tronco, Marco Fasola, 2020

Le catastrofi, in Paesi che si definiscono civili, vanno affrontate con lucida analisi. È innegabile che il sud pagherà il prezzo di queste “leggerezze”. Le colpe ricadono in prima battuta sulla politica, un parafulmine che ama strumentalizzare gaffe o presunte fughe di notizie, ma la vera causa è il mancato senso di responsabilità da parte dei più, il si salvi chi può, la corsa all’ultima scialuppa mentre la nave affonda.

È chiaro, esistono situazioni diverse all’origine di ogni scelta, non si può generalizzare e entrare a gamba tesa su questioni intime e familiari, sarebbe errato. Vi sono circostanze diverse e non spetta a noi definirle negli innumerevoli e specifici casi. Non si può ridurre un evento che abbraccia questioni emotivamente forti in dicotomie valoriali pregiudizievoli, riconoscendo questo movimento di ritorno, tout court, come un capriccio, sempre.

Nel tentativo di dirimere la questione metto in evidenza un aspetto che ritengo fondamentale e dal valore discriminante: la necessità. Molte persone partono per esigenza, di migranti economici la nostra terra ne conosce tanti, sono coloro che hanno lasciato figli, mogli e affetti nel silenzio di freddi vagoni, nella sofferenza di una scelta obbligata. A loro va tutta la stima e la solidarietà di un’Italia storicamente “in partenza” che riconosce i suoi figli, eroi moderni, sfiancati da un’economia di sussistenza che li ha messi sul primo treno con volti rigati da lacrime amare e la bocca piena di promesse quasi sempre tradite. Ovvio che la condizione del buon padre di famiglia (sia esso figlio, madre, fratello o parente prossimo a seconda dei casi), in questo caso, incoraggi ad assumere il rischio di un contagio di ritorno, anche se possibilmente mitigato da nota prassi precauzionale.

Ma non tutti vanno via per gli stessi motivi. Oggi, un buon numero di giovani parte per scelta e per perseguire progetti ambiziosi. Vi sono tanti figli, i nostri, che preferiscono terminare gli studi al nord o partire con un contratto in mano per trovare una vita migliore. Considero giusta e dignitosa questa possibilità, sarà probabilmente il consiglio che darò a mio figlio tra venti anni. Nel settentrione si vive bene, si riacquista dignità e spirito critico, qualità che molti miei conterranei hanno perso nel fallimento di scelte diverse, obbligati da condizioni economiche e familiari spesso disastrose.

Per molti fortunati, invece, la partenza è stata un premio, una promessa mantenuta scritta fin dai tempi delle scuole superiori. Nel frattempo “i meno ambiziosi” intasavano i distruggi documenti di franchising random in centro città, con curriculum mai letti, consegnati brevi manu come biglietti di una lotteria senza estrazione finale.  Ma c’è di peggio: il call center come ultima spiaggia. Batterie in outbound dove digerire gli effetti psicologici di un mondo al contrario. Giovani squattrinati che si affannano, con telefonate a ritmi frenetici, per convincere vecchi pensionati a cambiare modalità di fruizione di servizi che spesso non conoscono. Paradossi. Gesti di disperazione travestiti da buoni propositi che danno il colpo di grazia ad una laurea presa per diletto, tra un turno su Glovo e una fila davanti al centro stampa.

Rimanere al sud, un’azione che sussume princìpi generali diversi, afferenti alle più svariate storie. Quasi mai vincenti. E così negli anni della formazione infinita e della spasmodica ricerca di dignità, i più “virtuosi” avevano già in mano biglietti di sola andata con carta di credito a corredo, un futuro tranquillo senza valigia di cartone. Tra le foto profilo di una Milano da bere il ricordo sbiadito di un’Isola bistrattata, dove si torna d’estate per godersi il mare tra un pomodoro fresco e albicocche staccate dall’albero del giardino.

Non si può generalizzare, lo ripeto, ma neanche ignorare i capricci irresponsabili di chi ha invaso treni e traghetti gettando alle ortiche gli sforzi di un territorio in quarantena senza reale necessità, dichiarando il fallimento totale di un processo educativo incompiuto, nonostante gli sforzi economici di mamma e papà. Il sud, comunque, vi aspetta sempre. Una terra accogliente che vi perdona per averla tradita due volte, quando siete partiti e quando siete tornati.

La distanza è l’ultima questione. In un mondo che si è sforzato di ridurla, quanto meno tra i membri agiati di comunità privilegiate come il grande salotto Europa, ci accorgiamo di doverla improvvisamente riconsiderare, per dilatarla con inattesa e brusca necessità. Allontanarsi come diktat. Dopo decenni di progressivo avvicinamento siamo chiamati letteralmente a prendere le distanze, un metro e mezzo almeno.

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Oltre,di Marco Fasola, 2020

Tutto, ieri, era a portata di mano: voli low cost che rimbalzavano corpi da una capitale all’altra, contatti virtuali da sollecitare con emoticon e chat ingolfate di superfluo, spedizioni evase in un batter d’occhio e treni che promettevano di collegare rapidamente città ora confinate. Abbiamo riorganizzato lo spazio aumentando la velocità e riducendo il tempo, siamo rimasti fermi ad aspettare una vita a domicilio. Evitando le botteghe di quartiere, fino a farne calare le saracinesche, ci siamo ritrovati a non riconoscerne più i proprietari, amici da una vita. Tutto è avvenuto in un attimo, così repentinamente da nascondere il doloroso paradosso e propinarcelo sottoforma di conquista. Un elastico teso che si è spezzato improvvisamente.

Oggi il tempo si è fermato, misuriamo a stento le ore che passano. Lo spazio è vuoto poiché non abitato dai nostri corpi. Siamo scientificamente bloccati in un mondo bidimensionale che propone muri ed esclude orizzonti. Rimane incluso al guardo l’effetto di personalissimi trompe l’oeil da ammirare sui lati esposti della casa. Ma tutto ciò non produce uguaglianza. Di fronte alla pandemia non soffriamo, infatti, gli stessi disagi. ‘A livella’ di Totò funziona solo in caso di dipartita, ma fino ad un attimo prima continuiamo a godere dell’agio prodotto da diverse condizioni economiche. Così chi ha grandi balconi sta meglio di chi non ne ha, chi ha la villa sta benissimo e inquadra distrattamente gli alberi alle spalle durante le videoconferenze. Poi c’è chi non ha nulla e se ne fotte andando ad arrostire sui tetti. Nel mezzo, una moltitudine di condomini spia e denuncia i comportamenti “eversivi” dei propri vicini, mentre aspetta un decreto che li liberi definitivamente dall’immagine fissa di un corridoio vuoto.

Il movimento delle idee, prodotto in pratiche di immobilità, ha snaturato il corpo risignificandolo all’interno dei social. Laddove per rappresentare ci rifugiamo nella sedentarietà, oggi sentiamo il rinnovato bisogno di toccare un citofono. Le odierne necessarie imposizioni isolanti hanno smascherato vecchie abitudini, restituendole ai nostri occhi come realtà borderline, costruite sotto forma di anguste e patologiche esistenze Hikikomori. I veti e le minacce hanno riacceso ataviche esigenze che ci riportano dritti verso il corpo dell’altro, nonostante tutto.

Non è la prima volta che l’umanità assiste a tali cataclismi, è vero. Corsi e ricorsi storici non hanno alcun valore, ciò che accade vive sempre in un contesto nuovo e irripetibile. Siamo inondati da inchieste giornalistiche quantomeno discutibili, report azzardati che tirano in ballo la peste e la Spagnola col fine fuorviante di trasformare l’ignoto in presunta analogia. Un insipido rimando che tenta di legittimare comprensibile ignoranza. Analisi diacroniche utili per definire la storia dell’uomo, ma spesso lontane dall’uomo nella sua storia, nel suo presente. Il nostro, nello specifico, ha assistito all’epocale contrazione del movimento smarrendo tutti i riferimenti. Non sarà per sempre, è un momento transitorio. Sicuro?

 La risposta mi spinge alle conclusioni. Il transitorio è transizione, un passaggio epocale di consegne tra quello che è stato e quello che sarà. I buoni propositi per l’anno nuovo, le prese di coscienza e le promesse per il futuro, sono figli di ragionamenti ridondanti: ritorno a principi ecologici, rispetto per il pianeta e buone azioni in cima alla lista della spesa da dimenticare regolarmente sul tavolo della cucina. Così, leggendo le pagine del National Geographic di marzo, mi imbatto in un articolo di Robert Kunzig che scrive di economia circolare in un mondo senza rifiuti. Per quanto difficile da realizzare, afferma il giornalista, l’idea di un’economia circolare, con meno sprechi e materiali che si riciclano all’infinito, potrebbe convincere sia gli imprenditori che gli ambientalisti. Un articolo così all’avanguardia da sembrare terribilmente vecchio.

Nonostante le proposte come quelle di Kunzig siano lodevoli, analisi da approfondire e dichiarare come urgenti questioni, il mio disilluso e ormai cinico vedere mi porta a non credere come possibili le manifestazioni di intento legate prettamente al buon senso. La decrescita felice di Latouche rappresenta davvero un ossimoro. Ne è dimostrazione l’attuazione immediata di nuovi piani Marshall, con ingenti immissioni di liquidità, per salvare quel capitalismo devastante che ha già ucciso il pianeta. Volete la decrescita? Auguriamoci un altro virus. Le uniche decrescite della storia dell’uomo rimangono legate a guerre e pandemie, altro che felici. Inoltre, ogni blocco economico ha preceduto rapide e degradanti riprese mettendo sotto stress il pianeta per recuperare il terreno perduto.

L’economia è monodirezionale, autofaga e irreversibile, non è circolare e non potrà mai esserlo, se non intesa come movimento rivoluzionario di ritorno. Un cerchio che scommette su se stesso per garantire i privilegi di un ancien regime disposto ad affondare con tutta la nave pur di non mollare il timone.

Ogni evento lascia delle tracce, bassorilievi mai appiattiti del tutto, una memoria con forza centripeta ingloberà il liminare nella nuova dimensione. Quando torneremo a riavvicinarci non dimenticheremo le barriere fisiche e psicologiche che abbiamo costruito nevrastenicamente per proteggerci. Nessuna realtà distopica, ma un movimento di ritorno che produrrà nuova norma e racconti per i nipoti ricchi di espedienti narrativi.

Intanto la primavera esplode bellissima, rimaniamo affacciati ad ammirare colori e sfumature di una stagione che si ripete da sempre, ma che non avevamo notato. Una volta ridotte le distanze dagli altri, in futuro, sarà necessario imparare a prenderle da noi stessi. Fare un passo indietro per misurare la profondità di corpi rinnovati da nuovi spazi e ritrovati movimenti. Ma gli effetti di cotanto sentire spariranno prima dei reduci di guerra.

Così, prima o poi, alla spesa del sabato pomeriggio seguirà l’anticipo di campionato. Saremo liberi di scorrazzare in giro per le strade, nuovamente e gelosamente nostre. Un po’ di quei rider che hanno rischiato la pelle per portare lievito e farina a domicilio sarà licenziato per sovrannumero e partirà per il nord in cerca di fortuna. Ecco compiuto l’ennesimo movimento di rivoluzione. I più fortunati continueranno a giocare a Masterchef, coccolati dal privilegio di non dover mai incrociare gli sguardi di ritorno sotto il sole di una nuova e invisibile primavera.

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Riferimenti bibliografici
Bonazzi, A.
2011    Manuale di geografia culturale, Laterza, Bari.
Fletcher, G.P.
2004    Black hole in Guantanamo Bay, in «Journal of International CriminalJustice», 2.
Gregory, D.
2004    The Colonial Present, Blackwell, Oxford.
Krastev, I.
2020    Il ritorno di uno stato forte, Internazionale n. 1351, 27.
Kunzig, R.
2020    Un mondo senza rifiuti, National Geographic, vol 45, n.3

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Riccardo Talamo, da oltre dieci anni nel mondo della formazione si occupa di antropologia e studi storici. È interessato ai mutamenti cerebrali come riferimenti biologici e culturali. Dallo studio del Triune Brain di Paul MacLean nasce l’esigenza di indagare su caratteristiche evolutive e dipendenze endogene ed esogene afferenti al neocortex, quindi esclusivamente umane. Dall’analisi del fenomeno migratorio, nel 2019, la tesi che studia l’utilizzo strumentale di dispositivi emozionali ad uso e consumo di specifiche narrazioni. Dopo la partecipazione a diversi seminari su realtà distopiche e psicologia evolutiva il lavoro di ricerca si arricchisce di nuovi spunti legati alla sociologia del social network e alla costruzione semantica e culturale di identità per opposizione.

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