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La comparazione come prospettiva di analisi antropologica. Architettura, gastronomia e letteratura

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2019 @ 00:57 In Cultura,Società | No Comments

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E’ notte (ph. Licia Taverna)

di Stefano Montes

È notte. Sono sveglio, sono irrequieto, sono antropologo. Vago sulla soglia instabile delle ore notturne: ne avverto il senso di instabile presenza. Mi piacerebbe dire, alla maniera di Lévi-Strauss, che sono uno per cui conta «soltanto il lavoro del momento» (Lévi-Strauss 1988: 8). Ma il peso del passato preme alle mie spalle: in positivo, in negativo. La pianificazione del futuro assottiglia lo spazio di tranquillità assegnato al lavoro del momento, al mio stato d’animo. C’è uno strano silenzio nell’aria: un silenzio che non si ribella ai miei interrogativi, un silenzio comunque favorevole allo scorrere del tempo. Lo prendo, questo strano stato d’animo, come un segno per pensare per decentramenti: per prendere, ogni tanto, le distanze dalle abitudini, dal solito modo d’essere convenzionale. Devo prendere le distanze dalla prossimità che ho con me stesso. Devo produrmi, col favore dell’imprevisto, in un fruttuoso andirivieni che scuote le sferzanti certezze di una conoscenza che tende a divenire ferreo stereotipo.

L’andirivieni è un presupposto antropologico che vale in ogni situazione, sul campo, a casa propria, a passeggio per strada, mentre si scrive al computer: «l’originalità dell’indagine etnografica consiste in questo va-e-vieni incessante [tra la prossimità e la distanza]» (Lévi-Strauss 1988: 214). L’andirivieni si situa pure tra il sonno e la veglia, tra l’ordine e il disordine, tra un dispositivo dello sguardo (quale potrebbe essere una finestra) e un dispositivo dell’agire (quale potrebbe essere una porta). Io do un’occhiata alla finestra di casa mia, non si vede nessuno in giro, non c’è anima viva. Qualche rara auto sembra slittare sulle luci rosse del semaforo proiettate sull’asfalto. Potrei ascoltare un po’ di musica; potrei mettermi qualcosa addosso in tutta fretta, uscire a passeggiare per strada, nel risuonare ovattato e interiore del silenzio. Esco?

La città, in piena notte, è uno spettacolo per gli occhi e per le orecchie. Si è attratti dalle luci fioche e meno fioche, dai suoni stemperati e dal silenzio pervasivo, ottuso e ottundente. Si è attratti, ne sono consapevole, ne subisco il fascino. Ne varrebbe la pena: andare per le strade cittadine, punzecchiato dai suoni appuntiti e dalle luci tenere. Ne trarrei vantaggio indubbio: girovagando per le viuzze note e meno note di Palermo. Ogni volta, tra l’altro, mi pare l’occasione buona per mettere veramente in pratica quello che dice Benjamin in Infanzia berlinese: «Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare» (Benjamin 1973: 9). Smarrirsi non è un fondo di pura negatività; ci si smarrisce a volte e ci si ritrova in una nuova veste, rigenerati, rinati. La notte è favorevole allo smarrimento, se non altro perché i sensi sono esacerbati dal contraltare del silenzio e tutto sembra di una novità insperata. Le frontiere tra l’interiorità e l’esteriorità – il dentro e il fuori, l’io e gli altri – sembrano sgretolarsi e una strana, nuova consapevolezza irrompe dal nulla.

Io non riesco a smarrirmi del tutto, come vorrei: all’infinito, senza siepi che fanno da ostacolo alla vista. La bussola cognitiva mi riporta infine a me stesso, alle direzioni note, a uno spazio fin troppo familiare. Sono un essere umano, con tante imperfezioni e so che la dialettica penetrante del dentro e del fuori – che mi pervade in questo momento e in altri ancora della mia esistenza – è quella base esplosiva di «immagini che dominano tutti i pensieri del positivo e del negativo» (Bachelard 1975: 233). Sì e no, questo e quello, entro o esco, lo faccio o non lo faccio, cosa ho e cosa mi riserva il mondo, sono tutto imbacuccato al mio interno e tendo invece a versarmi nel mondo, al suo esterno! Questa dialettica ha sovente il sapore dell’eccesso, difficilmente controllabile dal singolo individuo. Nonostante tutto, non mi tiro indietro allorché mi capita di trovarmi – come succede ora – in queste situazioni-limite in cui sento di essere su una sorta di frontiera di facile non risoluzione sul cui spazio si sovrappongono forze contrastanti.

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Border Situation (ph. Licia Taverna)

Jackson, facendo esplicito riferimento a Jaspers, definisce questi strani – talvolta rivelatori – momenti dell’essere “situazioni-frontiera”: «critical situations in life where we come up against the limits of language, the limits of our strength, the limits of our knowledge, yet are sometimes thrown open to new ways of understanding our being-in-the-world, new ways of connecting with others» (Jackson 2009: XI-XII). Nel volume da cui è tratto questo brano, Jackson descrive, con cura e senza inutili convenzioni formali, questi momenti particolari della liminarità in cui sacro e profano si confondono, in cui contemplazione e azione si mescolano, in cui ordinario e straordinario si toccano e si guardano talvolta in cagnesco provocando sommovimenti interiori ed esteriori. Parlandone, vivendoli in prima persona, Jackson non disdegna di prendere in conto quei momenti dell’esistenza che di primo acchito potrebbero apparire consuetudinari, normalizzati. Il quotidiano è talvolta solo apparentemente insignificante. Io non mi tiro indietro solitamente, lascio che qualcosa avvenga, prenda piega anche nella consuetudine: se non altro per esplorare quella sottile, impercettibile alterità che è in noi, in me.

Sto appiccicato ai miei pensieri e li osservo da vicino, senza smontare e rimontare troppo la loro magica fluidità; sto attento alle sensazioni che si presentano sotto forma di routine, dando loro lo spazio necessario a mostrarmi la pregnanza della frontiera in cui mi trovo talvolta senza nemmeno saperlo. Mi allontano dalla finestra, tuttavia. Adesso non voglio cedere alla tentazione che mi risucchia verso l’esterno, verso gli spazi aperti, oltre la frontiera. So bene che la finestra è un dispositivo spaziale al cui potere lo sguardo deve sottomettersi: non c’è scampo. È un vortice. È cornice tirannica di pensieri ed emozioni: li ingabbia, li centrifuga. È topos letterario ed esistenziale al contempo. Come ricorda Hamon, in «Zola la comparsa di una finestra è il segnale di una demarcazione, la luce di soglia e la soglia di un disinnesto, il posto in cui il testo artistico invia al suo lettore una scheda descrittivo-informativa […] la finestra, di volta in volta giustifica la descrizione agli occhi del lettore e suggerisce allo scrittore di scrivere di più» (Hamon 1996: 27). La descrizione è demarcazione spaziale e giustificazione della parola che si vorrebbe, nella prospettiva realista, adesione isomorfa allo spettacolo dello sguardo sull’esterno, sul mondo.

La finestra è spazio e parola: dispositivo dello sguardo e dell’enunciazione. La finestra è questo e tanto altro ancora. Per esempio? La finestra ha a che fare con la memoria e con l’esistenza nella sua interezza: ricorda a ognuno di noi quanto difficile sia lasciare andare lo sguardo sul mondo, senza impedimento o cornici che lo delimitano. Siamo proiettati nel mondo attraverso un passato che fa da cornice alle nostre stesse proiezioni, odierne e future. Siamo ineludibilmente proiettati nel mondo attraverso le varie cornici che lo inquadrano: una finestra, un angolo di un palazzo, un’auto in movimento, la sagoma di un individuo, un tavolo, lo schermo del computer. È praticamente impossibile strapparsi al mondo e alla sue articolazioni spaziali: da fermo o in movimento ne dobbiamo tenere conto. Ci muoviamo nello spazio ricavando una sintassi delle azioni che è al contempo riquadro del vedere e degli ostacoli materiali che si presentano sul nostro cammino: lo spazio è un percorso in cui si distribuiscono variamente le inquadrature e gli spostamenti dell’individuo. In qualche modo, l’individuo è una sorta di cinepresa in movimento e le articolazioni dello spazio sono elementi di costruzione di una narrazione paragonabile a uno scritto.

Come afferma Barthes, «la città è una scrittura, chiunque si sposti nella città [...] è una sorta di lettore che, a seconda delle proprie obbligazioni e dei propri spostamenti, preleva alcuni frammenti dell’enunciato per attualizzarli in segreto» (Barthes 1970-1971: 57). La comparazione tra scrittura-narrazione e percorso urbano è densa di conseguenze. Quali che siano i risultati, l’intreccio tra spazio e individuo è ineludibile, coercitivo. Persino quegli spazi immensi dei romantici, pensati come illimitati dagli scrittori e pittori, venivano incorniciati da un ostacolo – si ricordi la siepe di Leopardi o l’albero di Friedrich – che ne impediva uno sguardo potenzialmente libero da costrizioni. E non è tutto. Proprio perché cornice di un frammento di mondo sul quale converge lo sguardo, la finestra ha una sua funzione agentiva. È un vero e proprio campo magnetico rivolto al destinatario: una forza che spinge a proiettarsi fuori con lo sguardo e con il corpo. Io oscillo ma non cedo comunque. Cerco di sottrarmi. Domani è un giorno pieno, non posso consentirmi di trascorrere una notte in subbuglio. Siedo allora sul divano, dandole le spalle; incrocio le braccia come a volere indicare a me stesso una frontiera cognitiva e somatica da superare. Domani sarà una giornata frenetica. Devo mettere qualche ora di sonno nella saccoccia vuota del riposo acciaccato dai giorni trascorsi freneticamente.

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La città è una scrittura (ph. Licia Taverna)

Devo provarci, superare le perplessità. L’occhio, intanto, cade distrattamente sull’invito che mi è arrivato oggi da una università inglese. Dovrei presentare a maggio qualcosa sulla strada, sulla valenza della strada in antropologia. Potrei, per scherzo, mandargli la bella poesia di Rimbaud, Sensazione, dicendo loro che è quello che penso anch’io della nozione e pratica della strada, specialmente nella notte: una sorta di natura capovolta eppure incantevole. Corro il rischio di essere preso fin troppo sul serio o di rimanere del tutto incompreso! Soprattutto, se leggono i versi in cui il poeta, abbandonato alla natura e ebbro di sensazioni, chiude le porte al primato della ‘cognizione in sé’ e dice: «Io non parlerò, non penserò più a nulla:/ma l’amore infinito mi salirà nell’anima». Sarebbe mai possibile presentarsi a una conferenza e chiudersi nel primato delle sensazioni? No, la parola è essenziale in quel caso. Le sensazioni, per quanto importanti, hanno bisogno di essere comunicate per essere comprese e condivise con altri. Loro, in questa università inglese, mi chiedono di vedere le cose dal punto di vista dell’antropologo del linguaggio. Io, come sempre, mi dibatto tra antropologia del quotidiano e antropologia dei linguaggi rigorosamente al plurale. D’altronde, perché separare la lingua orale o scritta dagli altri linguaggi, soprattutto quelli spaziali? Non sono, i diversi linguaggi, il risultato di una produzione e ricezione congiunta, intrecciata? Non è esattamente antropologia urbana quello che mi si chiede di fare in Gran Bretagna, comunque.

Dovrei cercare di spiegare, semmai, in che modo l’antropologia dei linguaggi ha qualcosa da dire sulla nozione e pratica di strada, sulle manifestazioni che vi si attuano, pianificate o liberamente, dai passanti o dai turisti, da musicisti o altri ancora. Per strada, si chiacchiera, si canta, si suona, si osserva, si decide cosa fare, di andare da una parte o dall’altra, si cammina. Come scrive de Certeau, «la strada geograficamente definita da un’urbanistica è trasformata in spazio dai camminatori» (de Certeau 2001: 176). La strada è un linguaggio a tutti gli effetti. Anzi, per meglio dire, è un intreccio di linguaggi non facilmente districabili, in torsione stessa tra sistema e processo. Lo mostrano gli studi di quegli antropologi che adottano come unità di analisi la strada. Hall, per esempio, prende in conto una strada di Londra focalizzando l’attenzione soprattutto sui negozi e sulle interazioni che si svolgono tra gestori e clientela. Consapevole del fatto che opera un ritaglio da un continuum potenzialmente infinito qual è la strada, Hall ci tiene a precisare che, la sua, non è «neither an ethnography of shopping nor of consumerism as a pleasurable and readily purchasable mode of cultural exchange. It is a scrutiny of multilingual forms of communication on a multi-ethnic street» (Hall 2012: 7). Qualcosa di simile si può dire della bella etnografia di una strada di Londra concepita da Miller (Miller 2014): più che di strada in sé – come sembrerebbe apparire al lettore ignaro – si tratta di vere e proprie storie di vita riguardanti gli abitanti gli appartamenti di una stessa strada. Il ritaglio, in questo caso, è dato dal rapporto che gli individui intrattengono con gli oggetti che hanno scelto per le loro case e dal rapporto che intrattengono con le case stesse. Ma, mi chiedo, sarebbe mai possibile prendere qualcosa in sé – che sia un concetto o una pratica poco importa – astraendolo dal tessuto di relazioni in cui si trova immerso? Ambedue studi prendono le distanze dagli studi di strade – un esempio ne sono Liebow (1967) e Duneier (1999) – considerate spazi marginali in cui alcune etnie sono ‘rinchiuse’, talvolta segregate. In ambedue studi, quello di Hall e di Miller, le formazioni di confini etnici sono più labili e richiedono categorie di analisi più eterogenee, un diverso metalinguaggio.

Insomma, al di là della strada, quello che voglio dire è che qualsiasi ricerca sul campo richiede un preliminare ritaglio d’ordine semiotico che consente di enucleare un ordine di analisi e un oggetto di osservazione a partire dal quale un metalinguaggio può essere ricavato. Qualsiasi ricerca sul campo – che siano le interazioni in un negozio, i racconti di vita o l’assemblaggio di un metalinguaggio specialistico – ha a che vedere con l’antropologia del linguaggio. Sono di parte? Io, per la conferenza in Gran Bretagna, avrei in mente una strada di Palermo, in pieno centro, dove succede di tutto: si mangia, si beve, si canta e si suona, ci sono locali per giovani e meno giovani, ristoranti e pizzerie, cucina di strada locale ed etnica. Sarebbe, questa conferenza, l’occasione per mostrare l’importanza di questo intreccio di linguaggi anche laddove si dovrebbe prendere come elemento di partenza un ritaglio spaziale, qual è la strada a mio avviso, da ritagliare nuovamente e poi nuovamente fino a mostrare il proprio posizionamento e la presa di parola del ricercatore stesso. Sarebbe un’occasione di più per mettere avanti la nozione di cultura posizionandosi, rivelando a se stessi e agli altri i movimenti del pensare e dell’agire: «culture is not something we talk about but a position we speak from» (Hastrup 1995: 51).

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Ritagli spaziali (ph. Licia Taverna)

La nozione di cultura può essere definita, in vari modi, come succede nei diversi orientamenti antropologici. Meglio ancora, la nozione di cultura può essere ricavata da una pratica costante che ne mostra gli aspetti più prossimi alle situazioni in cui ci si trova e alle prospettive che si adottano. È quello che faccio io qui, a modo mio, attraversando un bricolage di concetti che sono legati tra loro da una interconnessione comparativa che ne tesse similitudini e differenze. Sono situato e comparo concetti e pratiche. Essere consapevoli del tessuto di similitudini e differenze è importante: per capire la posizione che adottiamo interagendo con noi stessi e con gli altri e, eventualmente, modificarla. E, mentre ci penso, mentre penso alla cucina e alla strada e alla tessitura dei concetti in una attuazione pratica, mi vengono in mente un paio di articoli che ho scritto, tanti anni fa, quando, con Patrice, discutevamo accanitamente sul senso da dare all’architettura, alla progettazione degli spazi. Lui era ossessionato dalla morfogenesi del senso. Io avevo una maggiore inclinazione per i risultati prodotti dalla comparazione. La mia idea era che si doveva lavorare sulla comparazione dei vari linguaggi, più che rinchiudersi all’interno di una sola disciplina o metalinguaggio. Pensavo, all’epoca, ai saggi di Jakobson sulle serie culturali, più in particolare al “Luccio alla polacca” in cui l’autore comparava serie architettoniche e serie culinarie.

Si potrebbe dire qui: cosa hanno a che vedere le tecniche e arti culinarie con le tecniche e arti architettoniche? A che pro comparare gastronomia e architettura? È effettivamente utile compararle o è meglio lasciarle andare alla loro specificità disciplinare? Secondo Jakobson è effettivamente utile comparare, è meglio andare oltre la compartimentazione disciplinare! Jakobson, nel bell’articolo del 1971, compara il sistema architettonico e quello gastronomico, lasciando presupporre l’idea che esistano processi di intersemiosi correlabili (e, ovviamente, possibilità di incremento conoscitivo per una disciplina che ne evidenzi i meccanismi di traduzione) la cui esplicitazione in chiave formale potrebbe preludere a regole di natura più generale da mettere a fronte delle diverse pratiche. L’esempio che fa Jakobson, per illustrare questo modo di procedere analitico fondato sulla comparazione, riguarda due pietanze e due stili architettonici. Le due diverse pietanze sono il luccio alla polacca e il luccio ripieno ceco; i due stili architettonici sono il romanico e il gotico. Il luccio alla polacca è comparabile, per la sua semplicità, al romanico; il luccio ripieno ceco è comparabile, per elaborazione, al gotico. Insomma, due diverse pietanze (il “luccio semplice alla polacca” e l’elaborato “luccio ripieno ceco”) si rivelano riflesso di tratti estetici di due diversi movimenti della cultura medievale: l’estrema semplicità del romanico (polacco) e i contrasti sorprendenti del gotico (ceco).

Ciò che rende interessante, per antropologi e per semiologi e altri ancora, l’ipotesi di Jakobson è il principio secondo cui le diverse serie culturali sono comparabili – devono essere comparate – al fine di trarne maggiore profitto teorico e illuminazione conoscitiva in senso ampio: per capire meglio come stanno le cose, in sostanza, è necessario avere uno sguardo comparativo e non rinchiudersi invece all’interno del proprio metalinguaggio specialistico. Come direbbe Lévi-Strauss: guardare lontano, per vedere meglio vicino. La distanza e la prossimità, nel loro alternarsi, sono metro di comprensione. Ma non è tutto. Il presupposto, ugualmente forte, del saggio di Jakobson è che le diverse serie culturali s’incontrano e si traducono vicendevolmente, nel tempo, tenendo conto delle diverse tipologie di segni e semiosfere. Un’importante conseguenza riguarda la nozione di traduzione e le sue pratiche: non si attuerebbe – nell’idea di Jakobson – soltanto tra testi scritti ma, anche, tenendo conto delle altre tipologie semiotiche fondate su gesti, movimenti, organizzazioni spaziali e temporali di vario ordine. Per fare qualche esempio: da una parola a una foto o da un romanzo a un film, da un fatto politico o sociale a una vignetta umoristica, così come da una pubblicità a un disegno, e viceversa.

Su questa ampia base comparativa, si può inoltre dire che la traduzione è un processo fondamentale delle culture che avanzano concettualmente – al loro interno e al loro esterno – trasponendo alcuni tratti che eleggono e altri tratti che scartano; in questi termini, più che un passaggio inerte caratterizzante esclusivamente la trasposizione da un testo scritto all’altro, la traduzione acquisirebbe lo spessore di un trasferimento che arricchisce e produce incremento conoscitivo all’interno di una cultura e nel confronto con le altre. Per tutte queste ragioni, è dunque vantaggioso adottare una prospettiva interdisciplinare – ‘traduttologica’, si potrebbe dire in modo pertinente – perché consente uno sguardo più scaltrito sugli oggetti di studio presi in conto e sugli stessi tratti utilizzati o scartati. Nel caso di Jakobson, si trattava di elementi quali la semplicità o l’elaborazione. E questo punto non è irrilevante per quanto riguarda il valore attribuito ai tratti selezionati dalle singole culture: in effetti, la semplicità in alcuni casi può divenire un valore; in altri casi è invece l’elaborazione a essere considerata un valore che configura un vero e proprio stile. Per dirla in breve, non c’è niente di veramente prestabilito in ambito culturale. In alcuni contesti, parlare di semplicità è un valore, in altri contesti culturali lo è l’elaborazione. Ciò che conta, più in generale, è che i tratti estetici sono profondamente radicati nell’organizzazione culturale che attribuisce, nel tempo, valore a un tratto o l’altro. E, di conseguenza, sempre nello stesso ordine di idee, l’arte culinaria vede attribuirsi anch’essa un suo stile, non meno importante di quello architettonico o letterario.

Il corollario non meno importante è che, esplorando lo stile di un’arte, si possono trovare risposte anche per quanto riguarda altre arti. Comparando, comparando si approfondisce insomma la conoscenza dell’una e dell’altra. Comparando, comparando si affina inoltre lo sguardo sui tratti selettivi implicitamente utilizzati nella propria ricerca e si corregge l’impostazione metodologica, se necessario. La comparazione, in fondo, non è fine a se stessa o fonte di informazione sui soli oggetti di studio comparati: «S’interroger sur la stratégie comparative, c’est donc plus généralement rester vigilant sur les modalités de construction d’une recherche rigoureuse en sciences sociales» (Vigour 2005: 300). Questo aspetto metodologico chiarisce anche il motivo per cui la comparazione è uno strumento generalmente adottato dalla gran parte delle scuole antropologiche. La comparazione mette in mostra il carattere costruito della ricerca e consente, strada facendo, di reimpostare la ricerca se si rende necessario. E non solo. Mettendo in valore esplicito la comparazione si mette in atto una fondamentale operazione di decentramento poiché, al fine di individuare analogie e differenze tra almeno due entità, si autorizza un punto di vista dialogico che si sottrae al rigido monologismo di alcuni orientamenti.

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Distanza e prossimità (ph. Licia Taverna)

La comparazione è una porta aperta verso l’altro: dalla differenza, conduce alla spiegazione. Questo presupposto metodologico decentrante vale per il rapporto che si crea tra gastronomia e architettura, come già proposto da Jakobson; vale pure per altre arti (e comparazioni) quali la letteratura e l’architettura. Un esempio tratto dalla mia personale esperienza, giusto per continuare a mantenermi nell’ambito del mio vissuto situato nell’oscillazione tra presente e passato? Per diverso tempo ho frequentato, indietro nel tempo, i corsi di Philippe Hamon all’università di Parigi che consistevano precisamente nel comparare i modi attraverso cui gli architetti dell’Ottocento pensavano lo spazio (ricorrendo a tipologie narrative specifiche, necessarie a ‘dire’ lo spazio) con i modi attraverso cui i narratori dell’Ottocento – mettiamo, Balzac o Maupassant – organizzavano la narrazione sulla base di dispositivi spaziali. In altri termini, Hamon comparava le narrazioni degli architetti e le narrazioni degli scrittori, nonché le organizzazioni spaziali concepite dagli architetti e quelle concepite dagli scrittori nei loro romanzi al fine di cercare forme simili e dissimili.

Il presupposto forte, antropologicamente affascinante, era che per ‘dire lo spazio’ – quale che fosse la specialità (architettura o letteratura) – si deve ricorrere ad almeno una minima, ma fondamentale, narrazione il cui valore di configurazione è determinante per il modo di intendere lo spazio stesso; l’altro presupposto, ugualmente forte, delle sue lezioni era che la narrazione (degli architetti e degli scrittori) contiene ‘moduli spaziali’ che ne giustificano i procedimenti relativi all’enunciazione e all’enunciato. Per esempio, in alcune narrazioni dell’Ottocento, una finestra rappresentava un dispositivo che giustificava in molti casi la descrizione del narratore e la forza del suo sguardo, senza per questo sminuire il valore di realtà del mondo proposto; allo stesso tempo, la finestra era quel dispositivo che dava maggiore garanzia di neutralità dal punto di vista di una letteratura che voleva essere realista come quella dell’Ottocento in cui si tendeva ad annullare l’intermediazione soggettivante del narratore-spettatore. Quest’ultima osservazione – mi rendo conto – aprirebbe una lunga parentesi teorica sui modi in cui si vuole fare passare la realtà per tale (l’effetto di realtà) e sull’evoluzione, nel tempo, di alcuni dispositivi spaziali utilizzati in questo senso. Non lo farò perché voglio rimanere il più possibile connesso, empiricamente, alla mia esperienza di insonnia e a quegli elementi che caratterizzano il mio momento vissuto anch’esso visto in chiave comparativa. Continuerò a comparare a partire dalla mia situazione concreta in cui flussi di pensieri e azioni smussate dalla mia insonnia si mescolano. Ciò che però conta ribadire qui è che, alla base dell’effetto realista, si situa un’apparente autonomia del referente: «la carenza del significato a vantaggio del solo referente diventa il significante stesso del realismo» (Barthes 1988: 158). Si prenda l’esempio di Sarrasine di Balzac. Il racconto inizia con un incipit che pone già, fin dall’inizio, oltre il problema del realismo letterario, anche quello del posizionamento delle frontiere semantiche e della loro articolazione narrativa:

«J’étais plongé dans une de ces rêveries profondes qui saisissent tout le monde, même un homme frivole, au sein des fêtes les plus tumultueuses […] Assis dans l’embrasure d’une fenêtre, et caché sous les plis onduleux d’un rideau de moire, je pouvais contempler à mon aise le jardin de l’hôtel où je passais la soirée. Les arbres […] ressemblaient vaguement à des spectres mal enveloppés de leurs linceuls, image gigantesque de la fameuse danse des morts. Puis, en me retournant de l’autre côté, je pouvais admirer la danse des vivants ! un salon splendide, aux parois d’argent et d’or, aux lustres étincelants, brillant de bougies. Là, fourmillaient, s’agitaient et papillonnaient les plus jolies femmes de Paris […] Ainsi, à ma droite, la sombre et silencieuse image de la mort ; à ma gauche, les décentes bacchanales de la vie : ici, la nature froide, morne, en deuil ; là, les hommes en joie. Moi, sur la frontière de ces deux tableaux si disparates» (Balzac 1989: 9-10).

Il narratore-spettatore viene collocato proprio nel vano di una finestra e osserva ciò che succede sia all’esterno sia all’interno di questo spazio liminale. La posizione che occupa gli consente di descrivere – ‘naturalmente’, senza apparente ‘invenzione’ personale, come se il mondo si presentasse da sé – gli spazi esterni e interni passando dagli uni agli altri, dal giardino al salone. La sua descrizione, giustificata dal sito in cui si trova, diventa figura della contemplazione attenta degli avvenimenti che si svolgono da una parte e dall’altra della finestra. L’atmosfera notturna, la luna e la neve contribuiscono a fargli apparire gli alberi del giardino come spettri del male: una sorta di danza dei morti. In contrappunto, il salone gli appare come una danza della vita, con tante belle donne e altrettanti uomini che le corteggiano. Un solo movimento è sufficiente al fine di mostrare, in rapida successione, questi due luoghi in antitesi: al narratore-spettatore basta volgere lo sguardo alla sua sinistra, passando dal giardino al salone, per dare un resoconto contrastante dei due spazi limitrofi ma semanticamente contrapposti. Vengono a trovarsi, così, in posizione contrastiva, non soltanto due luoghi, ma tutta una serie di categorie importanti quali la morte e la vita, il freddo e il calore, l’atmosfera cupa e quella gioiosa, il giardino e il salone, la natura e la cultura. La descrizione fitta degli spazi risulta essere, in questo modo, fortemente realista negli intenti: viene introdotta da un personaggio che non sembrerebbe inventare nulla e descrivere neutralmente ciò che vede con i propri occhi, sottraendosi, in qualche modo, a elementi di fantasia personale, contrapponendo ambienti e situazioni, nella loro duplice articolazione. La retorica del realismo si mette così in opera.

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Effetto di realtà (ph. Licia Taverna)

La finestra svolge un ruolo centrale nella composizione di questo meccanismo: non soltanto ritaglia spazi del mondo, consentendone una descrizione minuziosa, ma, di più, introduce, in modo quasi inavvertito, le due categorie semantiche che reggeranno il racconto (la vita e la morte) e la loro trasgressione (il personaggio che sta sulla frontiera). Barthes fa opportunamente notare quanto importante sia, in termini retorici, questa suddivisione dello spazio in forma di antitesi. Scrive, infatti, che tutte le figure retoriche costituiscono da sempre un’attività classificatrice il cui fine è proprio quello di dare un nome al mondo, fondandolo. Ma, di tutte le figure retoriche, «l’une des plus stables est l’Antithèse; elle a pour fonction apparente de consacrer (et d’apprivoiser) par un nom, par un objet métalinguistique, la division des contraires et, dans cette division, son irréductibilité même» (Barthes 1970: 33). L’antitesi dà senso alle distinzioni spaziali e allo stesso tempo le addomestica in un’ottica precisa: quella che sarebbe un’opposizione paradigmatica – il dentro e il fuori – diviene una rappresentazione spaziale in praesentia.

Più in generale, dunque, è come se il lettore fosse portato a dire spontaneamente: cos’altro può fare un individuo sito su una finestra, se non osservare e descrivere gli spazi che si propongono al suo sguardo in modo così naturale? Cosa passa sottobanco, però, è l’operazione retorica di addomesticamento dello spazio avvenuto per opera di un soggetto che descrive in un modo che è finalizzato a effetti specifici: l’articolazione del mondo in due nette categorie quali la danza dei vivi e la danza dei morti, la vita e la morte. Su questo effetto retorico – che, da una parte, enuncia senza apparenti nascondimenti lo spettacolo dello sguardo e, dall’altra, seleziona e camuffa – si basa il presupposto realista di gran parte della letteratura naturalista francese dell’Ottocento. Nella prospettiva comparativa da me assunta, si può trarre una conseguenza di rilievo, anche più generale, riguardante il senso degli spazi e del racconto: l’architettura del senso sviluppato dal racconto si costituisce isomorfa all’architettura degli spazi e alla sua osservazione. Ciò porta a riflettere anche sul senso attribuito all’atto di osservare non solo nell’Ottocento ma più in generale e persino nelle stesse pratiche antropologiche che lo eleggono strumento di conoscenza essenziale.

L’osservazione è, di fatto, un processo che va visto in relazione ai modelli culturali e alle pratiche descrittive che lo instaurano in un modo o nell’altro. L’atto di osservare non può, quindi, essere relegato alla sola capacità della vista o alla sola riposta ‘mentale’ che sembrerebbe conseguirne: bisogna, in ogni caso, tenere conto sia dell’impatto culturale sia dei contesti d’uso specifici in cui si situa l’atto dell’osservare. L’assunzione di questo presupposto comporta un’altra conseguenza: l’osservazione, al pari delle altre modalità, è un’attività situata, riconfigurativa di categorie che in apparenza diamo per scontate nella loro generale formulazione. Insomma, in questa prospettiva si capovolge la direzione comune della conoscenza che andrebbe dal concetto all’uso: è il concetto che trae invece la sua ragion d’essere da un’attività che lo ridefinisce contestualmente. La riconfigurazione concettuale viene prodotta dalle effettive pratiche d’uso. Osservare, insomma, è una pratica culturale mediata dall’interazione che si produce nell’incontro tra lo sguardo e l’articolazione dello spazio specifico: finestre, porte, ponti, sagome di oggetti, etc. Più particolarmente, in quanto spazio liminale, la finestra assolve una funzione determinante perché aiuta ad esporre (alla vista) e a ritagliare (ciò che va selezionato per la descrizione) allo stesso tempo. Nell’Ottocento, l’‘esposizione’ – va detto – diventa un vero e proprio ‘luogo culturale’ attraverso cui si mette in scena la forza della rappresentazione, così come la sua capacità di mostrare o negare. Hamon insiste particolarmente sul rapporto stretto instaurato nell’Ottocento tra narrazione e architettura, accomunate più precisamente dallo stesso desiderio di mostrare e esporre lo spettacolo del mondo. Hamon scrive:

«Chi dice esposizione dice preminenza dello sguardo, dei suoi specifici piaceri e dispiaceri, dice spazio architettonico pianificato leggibilmente per un percorso più o meno vincolante, dice presentazione razionale di collezioni di oggetti, dice pratiche istituzionali e sociali ritualizzate, e dice anche ostentazione di un sapere e quindi esercizio accompagnatorio di un linguaggio esplicativo, da una parte (l’esposizione spiega), designativo e descrittivo dall’altra (l’esposizione mette in mostra oggetti etichettati e designati)» (Hamon 1995: 15).
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Antitesi (ph. Licia Taverna)

Qualcosa del genere succede in antropologia, più in generale, e non solo nell’Ottocento ovviamente. Gli antropologi devono dire ciò che fanno sul campo senza nascondimenti, raccontare oggettivamente le interazioni che avvengono sul luogo delle ricerche e lo devono fare efficacemente: ‘mostrando’ il rapporto che esiste tra il loro ‘essere lì’ sul posto e la verità dei loro enunciati. L’essere sul posto, direttamente e di prima mano, facendo leva sull’esperienza, diviene in qualche modo una garanzia di veridicità che le etnografie – i testi scritti – devono comunque veicolare con efficacia retorica. Lo ‘sguardo oggettivante’ diviene dunque preminente perché è sinonimo di presenza e controllo diretto. L’antropologo, per essere tale, deve di conseguenza esporsi ed esporre gli altri al proprio sguardo. Si potrebbe dire, per rimanere in linea con quanto detto da Hamon, che l’‘architettura delle etnografie’, al fine di essere efficace, deve dare spazio al gioco di esposizione degli sguardi che oggettivano il sapere. In antropologia, ciò avviene soprattutto a partire dal funzionalismo e dal dettato malinowskiano, sintetizzato dall’osservazione-partecipante. L’‘elemento espositivo’, va ribadito, non riguarda soltanto l’osservazione-partecipante sul campo, ma anche i dispositivi spaziali e le loro valenze teoriche più in generale.

Di fatto, finestre e porte hanno in antropologia un valore importante, interno alla disciplina e al suo metalinguaggio, perché sono – stati – utilizzati come elementi di configurazione simbolica di tratti concettuali: basti pensare al valore attribuito alla porta da Van Gennep nel celebre testo I riti di passaggio in cui la trasformazione iniziatica veniva assimilata al superamento di soglie spaziali. Detto questo, affermato in antropologia il valore retorico dello sguardo e dell’esposizione, va comunque sottolineato il fatto che i dispositivi spaziali assumono funzione diverse in epoche diverse. Ciò vale per l’antropologia, ma anche per le diverse arti e persino per la vita comune di ognuno di noi. Si è detto, per esempio, del ruolo giustificatore dello sguardo dell’osservatore svolto dalla finestra nella letteratura dell’Ottocento francese soprattutto di stampo naturalista; in altri periodi e in altre arti, questo ruolo muta e acquisisce ruoli semantici diversi, ma ugualmente importanti dal punto di vista della costruzione di categorie semantiche e valori culturali. Giusto per fare un rapido esempio qui appartenente a un secolo diverso e dare equo valore alla comparazione in senso diacronico, nella trasposizione cinematografica del romanzo di Duras, La douleur, a un certo punto la narratrice-protagonista della storia si trova davanti una finestra, volge lo sguardo verso l’esterno finché, a poco a poco, la scena incomincia a sfumare e la narrazione si trasferisce in un’epoca diversa da quella della storia che sta raccontando: in questo caso, la finestra diventa un vero e proprio operatore temporale che consente di passare – in modo graduale, senza scosse per lo spettatore – da un tempo della storia all’altro e di fare da collante tra una scena e l’altra. È come se la finestra mettesse in scena un soggetto cognitivo il cui pensiero ondivago trasporta lo spettatore qui e lì nel tempo dell’azione e ne giustifica gli spostamenti temporali. Anche in questo singolo caso, comunque sia, la comparazione è utile per capire quali funzioni culturali svolgono oggetti e dispositivi spaziali nel tempo e nelle diverse epoche. E, con questo, credo che sia tempo di chiudere questa parentesi sul valore culturale delle soglie e tornare alla comparazione tra gastronomia e architettura.

Chiudo questa parentesi momentaneamente, meglio dirlo subito: non intendo pensare e scrivere in modo lineare, come se tutto fosse già dato d’anticipo e io non debba far altro che trascrivere l’evento conosciuto. Io non conosco un bel niente! Io sono un soggetto, nel bel mezzo di un processo, che non riesce a cogliere in tutta la sua portata. Io sono un soggetto che dà giusto peso all’oggettività e alla soggettività e pensa che siano due elementi da cogliere, entrambi, più come processi che come risultati definiti una volta per tutte da alcuni dispositivi generali staticamente intesi. Io sono un soggetto nel bel mezzo di un processo – reso attraverso flussi di coscienza, sapere antropologico e tipi di comparazione – di oggettivazione di quello che gli sta succedendo. Io sono sulla soglia del sonno e della veglia, sulla soglia delle mie intenzioni (stare in casa o uscire), sulla soglia dei dispositivi spaziali che animano lo spirito del mio appartamento (la finestra, la porta) e intendo lasciare libero corso agli eventi aprendo e chiudendo parentesi liberamente, proprio per accentuare il valore della soglia in cui mi trovo. Non si tratta soltanto di un modo di concepire l’autorità etnografica (dialogica e plurivocale), ma di affermare tutto il valore positivo di soglia – ivi compresa la sospensione a essa connessa – che possiede l’antropologia.

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Atto di osservare (ph. Licia Taverna)

Di fatto, in quanto antropologi, noi «operiamo sempre in uno ‘spazio’ sospeso tra due o più culture, tra due o più modi di conoscere il mondo» (Crapanzano 2007: 15-16). Tanto vale assumerne tutte le conseguenze, persino in quei casi in cui non si sta lavorando in un luogo esotico, con un’altra lingua e i nativi del posto. Un altro modo di vedere le cose, dunque, è proprio quello di eliminare lo iato tradizionalmente posto tra casa e ricerca sul campo, tra la vita svolta nel proprio paese e la ricerca svolta in un luogo lontano. Casa propria e il proprio paese possono, diventando fieldwork, essere un modo radicale per ripensare l’attraversamento degli spazi di cui parlava Clifford: «quando il viaggiare […] diventa una sorta di norma, il risiedere richiede una spiegazione» (Clifford 1999: 14). Se gli attraversamenti sono giustamente diventati importanti in antropologia, lo sono anche perché esistono dei luoghi – materiali e immaginari – che rappresentano delle soglie da attraversare, da smussare o ricomporre. E la spiegazione che richiede il risiedere passa per la riflessione sulle diverse soglie che animano la nostra vita, le nostre pratiche dell’entrare e uscire da un luogo all’altro, ivi compreso casa nostra e le strade stesse da noi percorse in città o altrove. Non si tratta quindi di tornare ingenuamente a Van Gennep e accettare quietamente il valore simbolico – staticamente inteso – della sola porta nei riti di passaggio; piuttosto, si tratta di mettere sotto le lenti antropologiche la nozione e pratica di esistenza al fine di rivalutarla in quanto attività di disaggregazione e reintegrazione: «vivere significa disaggregarsi e reintegrarsi di continuo, mutare stato e forma, morire e rinascere» (Van Gennep 1981: 166).

Per mettere sotto le lenti dell’antropologia la nozione e pratica di esistenza al meglio, è allora necessario vedere in che modo questi mutamenti, grandi o piccoli che siano, sono determinanti e determinati dai vari tipi di soglie che le culture propongono o elidono. Sottolineato il punto, chiusa momentaneamente la parentesi, torno alla questione della comparazione, non senza manifestare qualche segno di irrequietudine. Sono infatti passato dal divano all’uscio della porta. Mi sono piazzato di fronte alla porta di casa mia e non mi decido. Non so cosa fare. Esco o rimango in casa? Potrei provare a varcare la soglia di casa per qualche minuto e vedere cosa succede al mio stato d’animo: solo un minuto, giusto per mettermi alla prova. Sono infatti nella strana posizione di chi si osserva e non sa determinarsi. D’altronde, sarebbe mai possibile ordinare a se stessi di mettere da parte l’irrequietudine e mettersi a letto senza problemi di sorta? Allo stato d’animo non si comanda! Forse, sarebbe più opportuno fare qualcosa che, so per certo, mi rilassa: passeggiare a lungo in centro città. Ma non sempre funziona. Se non altro perché, talvolta, mi metto a parlare con gli homeless e trascorro la notte in bianco. Forse, funziona; forse, no. Mi rassegno. Mi accontento di dare uno sguardo dalla finestra. Mi rallegra la sua ambivalenza.

Una finestra consente di guardare fuori ma anche di essere visto e di essere riconosciuto; una finestra consente di guardare e descrivere ciò che si è visto operando una selezione rispetto a ciò che si è osservato, valorizzando alcune cose e tralasciandone altre. Una finestra contiene in sé due direzioni del vedere (verso l’interno o verso l’esterno) e due modi del rivelare (mostrando o obliterando). Le cose vanno in modo simile per la porta. Una porta contiene un fondo di ambivalenza interessante semanticamente e culturalmente: consente di entrare e uscire, ponendo il soggetto di fronte a una scelta e a un’intenzione non sempre stabili. È noto il paragone che Simmel fa tra il ponte e la porta intesi come operatori di connessione e separazione di intenzioni e luoghi. Più del ponte, dice però Simmel, la porta mostra in modo «netto come separazione e congiunzione non siano altro che le due facce di una medesima azione» (Simmel 2011: 3). E, ancora sulla porta, Simmel scrive pertinentemente: «Se è indifferente superare il ponte in una direzione o nell’altra, la porta indica al contrario una completa differenza di intenzione a seconda che si voglia entrare o uscire» (Simmel 2011: 4). Entrare o uscire? Aprire o chiudere? Beh, nell’indecisione, tra una cosa e l’altra, ammetto di avere aperto ancora una parentesi, senza chiudere quella precedente, rimasta in transito, su ricette e stili architettonici. L’ho fatto senza volerlo, comunque. Non era mia esplicita intenzione. Ma non è forse l’esistenza stessa che va in questo senso sfaccettato, non sempre intenzionalmente dato?

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Soglie emotive (ph. Licia Taverna)

Aprendo e chiudendo parentesi, aprendone alcune e chiudendone soltanto altre. Mi chiedo inoltre: aprire e chiudere non sono forse nozioni parenti dell’entrare e uscire? Per uscire, è infatti necessario aprire; una volta entrati in casa, invece, è necessario richiudere la porta. È così, lo ammetto, sono caduto nella tentazione di aprire un’altra parentesi. Ma l’ho fatto a fin di bene: pensando di prendere tempo, pensando che potesse aiutarmi a decidere cosa fare e superare la soglia d’incertezza che caratterizza il mio stato. Un’incertezza è una soglia? Beh, sì, dal momento che l’incertezza sottolinea il passaggio da uno stato emotivo all’altro, una sorta di oscillazione che tiene comunque in bilico. La parentesi che ho aperto è dunque una sottile forma di discontinuità: non situa una soglia d’ordine spaziale, ma emotiva. E, comunque sia, io non faccio che aprire e chiudere parentesi, dall’inizio, come pratica di scrittura non lineare: proprio come lo è la vita. Un genere di scrittura lineare, invece, sarebbe pura finzione: un ingegnarsi del soggetto che tiene conto di alcuni risultati della ricerca e non di altri, seguendo una convenzione dettata dalla disciplina. La scrittura può essere usata, più proficuamente, come strategia di scoperta e di messa in forma di un processo antidisciplinare. Mi consola qui, di più, il fatto che aprire e chiudere sono comunque modi di costruire orizzonti dell’immaginario determinanti la nostra esperienza e i modi stessi di produrla. Un’occasione di più, dunque, per rifletterci. Come scrive Crapanzano, «la dialettica tra apertura e chiusura è, credo, una dimensione importante dell’esperienza umana che è di certo degna di riflessione antropologica» (Crapanzano 2007: 11).

Detto questo, rassicurato me stesso e il lettore sul mio stato di salute mentale, ne approfitto per tornare alle ricette e agli stili architettonici, alla loro comparazione, sottolineando un punto giustamente relativo al processo di cui parlavo prima: non è detto che la comparazione debba riguardare soltanto l’elemento finito, a cose fatte o risultativo (come direbbero alcuni linguisti, tirando in ballo la nozione di aspetto) quale sarebbe una ricetta bell’e realizzata o un’architettura terminata. La comparazione può rivelarsi utile anche nel caso in cui si prendano in conto i processi che portano al prodotto finito, prima ancora che il prodotto sia effettivamente portato a termine o concluso. Di fatto, l’oggetto architettonico (comparabile a una pietanza o altro) è il risultato di un complicato lavoro di produzione: dall’idea ai primi schizzi, alla riformulazione concettuale, alla rappresentazione grafica (prospettive, assonometrie, ecc.) e, ancora, alla ridefinizione concettuale, al plastico, fino alla costruzione dell’artefatto vero e proprio. E ciò vale pure per la ‘trasformazione’ della ricetta in cibo vero e proprio: sono necessari diversi passaggi affinché un testo scritto in forma di ricetta diventi qualcosa da mangiare, accettato culturalmente. Per esempio, è necessario bollire, friggere, tagliare, mescolare, etc. Ognuno di questi passaggi – sia per l’arte culinaria sia per l’arte architettonica – può essere considerato un processo di traduzione intersemiotica. Ogni passaggio è l’effetto di un tipo di discontinuità che è, in effetti, una soglia potenziale. Il cerchio, in questo modo, si chiude.

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Soglie e discontinuità (ph. Licia Taverna)

Io mi ritrovo di nuovo sul divano, con la musica in sottofondo, un po’ meno perplesso di prima. Per quanto mi sforzi, però, non mi viene in mente nient’altro del saggio di Jakobson. Questo è quanto ricordavo del saggio di Jakobson e del mio stesso saggio – scritto ormai tanti anni fa, sulla scorta delle belle idee di Jakobson – sui sistemi e processi della cultura, nonché sul valore della comparazione. Come mi è venuto in mente tutto questo, a quest’ora della notte? Com’è potuto tornarmi in mente il saggio di Jakobson quando le idee cominciano ad annebbiarsi in una così tarda ora? Mi arrendo, non ne ho idea, non mi importa. La musica di sottofondo mi aiuta a pensare ad altro, mi aiuta a prendere una decisione importante: devo trasformare questi appunti in un testo vero e proprio in cui mostro chiaramente – per esposizioni graduali allo sguardo del lettore e a me stesso – che procedo per comparazioni. Il mio, non dovrebbe essere tanto il tentativo di rappresentazione di alcuni elementi culturali in modo statico, quanto la trasposizione su carta di uno slittamento costante da un tema all’altro, mettendo soprattutto a fuoco su gastronomia e architettura e, poi, eventualmente, su architettura e letteratura, passando in rassegna i vari stati d’animo. Certo, nel dinamismo della rappresentazione bisognerebbe introdurre le piccole prese di coscienza che riguardano il modo in cui questo processo ha avuto luogo. Se non altro perché «By producing a cultural representation one perhaps earns the right to confess and tell how the representation came into being» (Van Maanen 1988: 140). Rimane un quesito: com’è possibile che siano venute a galla questioni del passato di cui non mi occupo più adesso nelle mie ricerche attuali? Semplice, molto semplice, niente di elaborato: si tratta di libere associazioni d’idee. Ho rivisto una foto in cui io e la mia famiglia, dopo una ‘dura’ giornata di turismo in Canada, ci siamo messi a sedere, in un ristorante, per mangiare tante cose buone. Ho rivisto la foto e mi è venuta in mente la comparazione e la traduzione, l’arte culinaria e l’arte architettonica, i miei anni da studente a Parigi e quelli da docente a Tartu. Per dirla in breve, l’esperienza di vita e le questioni teoriche sono venute a mescolarsi in fitto intreccio. E ciò non è fuori luogo, rispetto a quello che ho detto nel campo della traduzione. Oltre che intertestuale, intersemiotica o interculturale, la traduzione è un processo che riguarda da vicino la vita stessa degli individui nel suo svolgersi in apparenza continuo, in realtà realizzato attraverso tante soglie e discontinuità di tipo diverso. Quale insegnamento ricavarne, soprattutto per coloro i quali non ne vogliono sapere di mescolamenti antropologici e semiotici, di arte culinaria e architettura, di traduzione e comparazione, di forme di continuità e di discontinuità esistenziale?

Questo breve saggio può essere considerato una riflessione sull’articolarsi, incrociarsi, sovente anche sovrapporsi, del dentro e del fuori, dell’interno e dell’esterno, del sentimento di identità proprio e del proporsi del senso di alterità nell’arco della notte. Questo saggio è un’incursione nel mescolarsi di questi concetti nel corso di un’esperienza di vita, singola e fugace, breve e concentrata: la mia, in un momento di insonnia. Non mi interessava prendere in conto questi concetti dall’esterno soltanto (il fuori) e oggettivarli, simulando un tipo di finzione usuale nelle scienze sociali: come se il soggetto non fosse presente, come se il vissuto fosse qualcosa di già noto a chi lo vive e decide di raccontarlo in terza persona, dall’esterno, a cose fatte. Sono invece partito da me stesso, da un evento quotidiano in qualche modo comune, benché liminale, e al contempo poco esplorato antropologicamente: un colpo di insonnia avvenuto nel pieno della notte. Sono partito da me stesso e ho raccontato l’accaduto in prima persona. Cosa succede se, durante la notte, ci si alza e ci si mette a pensare, a guardare intorno, indecisi se uscire a passeggiare per ‘far passare il tempo’ oppure aspettare in casa che torni il sonno? I medici possono in qualche modo spiegare l’insonnia, come fenomeno fisiologico, e le probabili cause che l’accompagnano o le soluzioni che si prospettano. A me interessava, al contrario, ‘sprofondare’ fenomenologicamente nel momento che stavo vivendo, mettendo a nudo, per quanto possibile, i miei pensieri e le dipendenze con ciò che mi circondava, mi rendeva vivo, agente e agito: quindi gli incessanti flussi di pensiero relativo all’episodio accadutomi, gli ordini di relazione intrattenuti tra me stesso con lo spazio intorno a me, le riflessioni teoriche che mi si facevano strada sul momento e le azioni spicciole e inconsulte che motivavano o enucleavano i miei comportamenti di insonne. Partire da me stesso non significa che mi interessa risalire a un soggetto originario: la mia è semplicemente una postura adottata, tra le tante possibili, che mette fruttuosamente in scena il processo da vicino e le stesse dipendenze del soggetto con altri soggetti e oggetti nel corso dell’evento.

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Prospettiva soggettivante (ph. Licia Taverna)

Questo aspetto processuale è fondamentale qui e nelle mie ricerche degli ultimi anni. Da antropologo, infatti, mi interessa spostare l’asse dalla nozione di cultura (omogenea e oggettivata) alle pratiche individuali (un individuo che bagna nella cultura e prende posizione al suo interno e, talvolta, pure al suo esterno). Per fare questo, mi sono posto una sola domanda: quali sono i modi di esistenza del soggetto e quali tipi di discorso li accompagnano quotidianamente? Prendere in conto il soggetto in quanto dipendenza significa esplorare alcune nozioni che sembrano essergli consustanziali: determinanti e determinate, costruite e spontanee. L’ho fatto, qui, focalizzando variamente l’attenzione sul dentro e fuori, su apertura e chiusura, su identità e alterità. Questi concetti mostrano tutta la loro valenza negli spazi abitativi, quale che essi siano, nonché nella configurazione dei comportamenti individuali e collettivi. Gli spazi abitativi e cittadini, oltre che contenere (il dentro) e delimitare (il fuori), sono anche elementi di segmentazione del percorso degli individui nei loro spostamenti: sia in città sia in casa. In questa prospettiva, alcuni dispositivi spaziali (la finestra, la porta) più di altri acquisiscono un valore particolare, quotidianamente, sia per quanto riguarda il configurarsi dello sguardo del soggetto sia per quanto riguarda il camminare e lo spostarsi in spazi diversi. Un altro punto importante relativo a questo saggio riguarda il tipo di scrittura.

Questo saggio è stato scritto in una prospettiva soggettivante, a partire da un evento effettivamente accaduto: un paio d’ore d’insonnia. Ho deciso di non renderlo in terza persona e di non oggettivarlo come se non fossi stato io ad avere l’insonnia o a vivere l’accaduto. Questo atteggiamento può sembrare un vezzo da scrittore letterario. Ma non è così. La prospettiva soggettivante, più che essere una chiusura all’ambito dell’accaduto di un soggetto singolo, è uno strumento efficace per mettere a fuoco sul rapporto esistente tra soggetto e spazio, tra soggetto e prospettive teoriche prese in conto (qui soprattutto nel campo dell’arte culinaria, dell’architettura e della letteratura). Più in generale, il mio è un tentativo di fare un’antropologia del quotidiano in cui si intrecciano, smussandosi in termini di opposizioni, i flussi di coscienza e gli spostamenti spaziali di un individuo, i moduli dell’osservazione singolare e le articolazioni spaziali. L’ambizione sarebbe quella di fare un’antropologia dell’esistenza tenendo conto anche di quei momenti di apparente insignificanza che prendono piega nel vissuto quotidiano di un individuo, raccontandoli in prima persona, esplicitando il proprio posizionamento al fine di arrivare a moduli più generali della cultura in cui si vive, in cui io vivo. La prospettiva soggettivante non è che una postura, tra tante altre possibili, da me adottata al fine di meglio esplorare la mia condizione di nativo e le mie stesse percezioni in quanto essere profondamente sociale. Non ha niente a che vedere con una prospettiva prossima alla psicologia individuale. Come scrive Goodwin, «è possibile considerare la percezione non come un processo riconducibile alla psicologia individuale o situato all’interno di una mente cartesiana isolata dal mondo in cui vive, ma come un fenomeno intrinsecamente sociale e legato all’azione nel mondo» (Goodwin 2003: 224).

Ci sono, ovviamente, modi molteplici di affrontare un’analisi culturale. Uno di questi è, per esempio, quello prospettato da Lévi-Strauss nell’analisi dei miti. Egli spiega che la sua metodologia è consistita proprio nel mettersi in disparte e lasciarsi penetrare dalla lunga analisi dei miti che, negli anni, ha reso inconsistente il suo stesso ‘io’. Scrive Lévi-Strauss:

«il noi da cui l’autore non si è mai voluto allontanare non era soltanto un noi ‘di modestia’, ma traduceva anche la preoccupazione più profonda di riportare il soggetto a quello che doveva cercare di essere […]: cioè quello spazio insostanziale messo a disposizione di un pensiero anonimo affinché esso vi si dispieghi, prenda le distanze nei confronti di se stesso, ritrovi e realizzi le sue più vere possibilità» (Lévi-Strauss 1974: 589).
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Altre tracce (ph. Licia Taverna)

Pur avendo in simpatia questo approccio, credo che sia ugualmente produttivo adottare la strategia opposta: sprofondare nel soggetto in piena, analizzandolo, come se il soggetto fosse un altro, afferrando punti di convergenza e divergenza, connessioni e disconnessioni con se stesso e con altri soggetti e oggetti. Questa è, più esattamente, la prospettiva che ho adottato io. Per finire, un punto va ancora chiarito. Ho detto di essere un nativo e questo, forse, disorienta alcuni studiosi che penseranno agli indiani d’America o agli aborigeni australiani. No, non sono un nativo d’America, né un aborigeno australiano. Sono italiano. Nonostante abbia passato oltre metà della mia vita in varie parti del mondo, sono nato a Palermo. E allora? Per chiarire meglio la questione parto da una bella definizione di antropologia, quella di Engelke: «La differenza, per il puro piacere della differenza, tuttavia, non è il punto essenziale dell’antropologia. Se lo fosse, saremmo davvero abbagliati, perfino accecati. Anche se l’antropologia si propone di documentare la differenza – e spesso offrirne una testimonianza diretta – essa intende altresì dare un senso a quelle differenze. L’antropologia cerca di offrire delle spiegazioni. Il ‘punto di vista dell’indigeno’ non è un semplice problema di prospettiva; esso rappresenta questioni di logica e modi di ragionare, rivelandoci almeno in parte ‘come pensano gli indigeni’» (Engelke 2018: 232-233). Una bella definizione dell’antropologia! Lo ammetto. Devo pure dire, però, che il presupposto implicito sembrerebbe essere che gli indigeni sono sempre gli altri e che l’antropologo è colui il quale applica il suo sguardo a una realtà locale che non è la sua realtà di appartenenza.

Dal mio punto di vista, questa separazione non dovrebbe più esistere oggigiorno in antropologia. Anch’io sono un nativo: un nativo della mia stessa cultura. Sono un nativo e un antropologo che può applicare uno sguardo antropologico a se stesso e alla propria cultura. Se riprendiamo il titolo di Engelke e riproponiamo la questione in chiave interrogativa – come pensa un antropologo? – allora possiamo dire che un antropologo pensa anche a partire da se stesso e su stesso, tenendo conto di tutte le soglie possibili, persino quelle che una volta erano di sola pertinenza psicologica: le soglie della coscienza. L’ipotesi di Cohen è che «the opposition of individual to society may well be a figment of the anthropological imagination, rather than the consequence of their irreconcilability» (Cohen 1994: 54). Credo, al pari di Cohen, che questa opposizione individuo/società debba essere smontata. Come? Uno dei modi è proprio quello che ho inteso fare qui, in questo breve saggio, sprofondando con tutto me stesso in un episodio della mia vita e ‘svolgendolo’ facendo appello a teoria e pratica. Che ho fatto, dunque, per sintetizzare? Mi sono avvalso di un colpo di insonnia per cercare di tradurre in termini antropologici la nozione di processo e spazio. Insomma, non ho fatto altro che vivere e comparare. Non ho fatto altro che vivere e trasporre in testo scritto un episodio esperito in prima persona. Tutto qui? Altro non posso dire perché ho esaurito lo spazio a mia disposizione. Al lettore spetta il compito di cercare altre tracce, disseminate nella mia etnografia del vivere l’insonnia: sulla soglia, sul comparare, sul camminare, sull’osservare, sul vivere in quanto fatto antropologico.

Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Etnoantropologia all’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.

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