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Joyce e Saverio. Raccontare grandi figure del Novecento

Joyce Lussu

Joyce Lussu

Saverio Tutino

Saverio Tutino

di Pietro Clemente 

Salvadori e Tutino

Joyce Lussu e Saverio Tutino si sono quasi certamente incontrati in qualche luogo e in qualche tempo del Novecento anche se non ne posso produrre prova certa. È facile però che a Roma, dove entrambi vivevano, si siano incontrati e magari abbiano anche litigato, visto che erano due persone di forte carattere. Tutti e due hanno dato molto al Novecento vivendolo controcorrente pur all’interno di grandi ideologie proprie di quel secolo.

Joyce Salvadori (poi Lussu perché scelse il cognome del marito Emilio) era nata a Firenze nel 1912 e veniva da una nobile famiglia di proprietari marchigiani. La madre era inglese e in famiglia erano tutti plurilingue. Alla fine della sua storia Joyce poteva vantare diverse appartenenze: romano-marchigiano-toscano-sarda oltreché del mondo. Sul piano internazionale è stata protagonista della lotta al fascismo sia all’estero sia nell’Italia occupata, e ha partecipato da testimone e militante attiva alle ribellioni e ai movimenti di liberazione in Turchia, nel Kurdistan e nell’Africa lusitofona.

Saverio Tutino era nato a Milano nel 1923 e veniva da una famiglia di ceto medio benestante. Sua madre era milanese, suo padre siciliano. Partecipò alla Resistenza piemontese e valdostana. Abitò a Roma a Trastevere per la maggior parte della vita. Fu giornalista per lavoro e per passione e fu a lungo corrispondente dell’Unità da Cuba e dall’America latina. Dopo la crisi della politica e la perdita del sogno di una Cuba rivoluzionaria, dedicò gran parte della sua vita all’Archivio dei Diari, tra Pieve Santo Stefano e la casa che aveva acquistato ad Anghiari in provincia di Arezzo. Ma ogni tanto l’America latina riemergeva e pubblicava scritti o diari inediti di quella sua esperienza.

Vi erano 11 anni di differenza tra Joyce e Saverio. Sono stati entrambi ‘figure’ forti. icone del Novecento. Joyce non entrò nel nuovo millennio, morì nel 1998 mentre Saverio conobbe 11 anni del nuovo secolo, alla fine in una sorta di vaghezza cognitiva.

Ho pensato di metterli insieme perché li ho conosciuti a fondo entrambi. Joyce, aveva 30 anni più di me, e, oltre ad essere la madre di Giovanni, compagno di scuola di mio fratello Carlo e mio amico, fu per me una sorta di madre severa che pretendeva di suggerirmi che fare della mia vita. La mia prima collaborazione con lei risale al 1963 quando presentammo insieme a Cagliari l’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII e l’ultima fu nel 1998 quando ad Armungia (paese natale di Emilio Lussu) introdusse uno stage di ricerca a giovani studenti antropologi romani.

con l'Autore Giovanni Lussu, Chicco Mura e Joyce, 1961

con l’Autore Giovanni Lussu, Chicco Mura e Joyce, Roma 1963

Saverio lo conobbi più tardi nei primi anni ‘90 a Rovereto durante un Convegno sulla scrittura popolare e poi lo incontrai nel 1994 a Roma al seminario del Dottorato di antropologia sempre su La scrittura popolare. Mi propose di far parte della Giuria nazionale del Premio dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano cui partecipai per tanti anni. Avevo 19 anni meno di lui ma condividevamo lo stesso segno zodiacale. Nel 1995, all’uscita della sua autobiografia L’occhio del barracuda, mi chiese di presentarla a Roma con Simonetta Fiori come co-discussant. Con questa mossa mi fece partecipare subito della sua vita che aveva scritto con ricchezza di particolari e sincerità quasi disorientante. Mi ci sono affezionato così, perché mi aveva fatto entrare con grande naturalezza e trasparenza, nelle sue pagine e nel suo cuore. Per me era davvero scioccante trovare una tale sincerità (forse dovuta anche al ricorso alla psicoanalisi) in un uomo di quella generazione, militante del PCI e appassionato delle rivoluzioni. Talvolta ci vuole più coraggio a scrivere la propria vita che a fare guerriglia in montagna.

E così ci sentimmo un po’ fratelli. Ho amato quel Tutino maturo che ho conosciuto quando aveva 70 anni, ricco delle sue memorie cubane e ribelli, partigiane e comuniste, amaro e dolente nell’autocritica ma caparbiamente impegnato nella fondazione del diritto dell’individuo a testimoniare e ad essere ascoltato. Saverio e Joyce, Joyce e Saverio sono stati dei ‘formidabili’ attori e testimoni del Novecento e dei suoi grandi caratteri: le ideologie, le rivoluzioni, il coraggio di lottare, la fede nelle proprie speranze, il valore dell’individuo e della solidarietà.

Le loro esperienze sono punti di riferimento da trasmettere come eredità alle nuove generazioni. Anche se trasmettere una eredità è diventata cosa difficile perché non la si può imporre ma solo proporre. Joyce ed Emilio Lussu hanno sempre avuto la consapevolezza dell’importanza del parlare ai giovani e del trasmettere, Joyce ha speso anni della propria vita per raccontare nelle scuole le sue idee e la sua storia. Saverio è stato l’ideatore del grande archivio delle scritture popolari di Pieve Santo Stefano e ne ha poggiato le fondamenta sui giovani del Paese e aprendo ai giovani ogni volta che li incontrava.

Sto parlando qui di Joyce e di Saverio insieme non solo perché entrambi hanno fatto parte della mia vita e sono parte di quel che io sono, ma anche perché l’occasione mi viene data dalla recente lettura di due originali libri biografici a loro dedicati: La Sibilla di Silvia Ballestra e La parte della memoria di Stefania Marongiu. 

vitaLa Sibilla

Per Silvia Ballestra (Porto San Giorgio, 1º marzo 1969) e per Stefania Marongiu (Cagliari, 9 gennaio 1987) i protagonisti dei loro libri hanno l’età dei loro nonni o forse dei bisnonni. Nello scrivere di loro hanno portato quel che non era possibile alla mia generazione che li aveva vicini: il sentimento della leggenda. Joyce ha conosciuto due guerre, la lotta al fascismo e la Resistenza, ha cercato, trovato e raccontato le lotte di liberazione dell’Africa, e dei curdi. Saverio è stato partigiano in montagna a 20 anni, si è trovato in mezzo e ha visto crescere le rivoluzioni latino-americane.

Silvia Ballestra è al secondo importante lavoro su Joyce Lussu [1]. La Ballestra è nata a Porto San Giorgio a poca distanza dalla casa di famiglia dei Salvadori ed era una giovane amica di Joyce. Il suo primo libro dava conto di interviste fatte a Joyce e poi trascritte. Ora, ormai lontana dalla voce di lei, la adotta come sua ispiratrice, fondatrice, educatrice, per sé e per le nuove generazioni. Lo fa prendendosi molte libertà narrative, soggettivamente dialogiche, che rendono il libro un racconto in cui l’autore e il narratore si fondono. È un romanzo di tipo nuovo: non è la storia raccontata al passato, ma è la scrittura narrativa proiettata verso il futuro. La soggettività e la immaginazione dell’autore mettono da parte il rigore delle fonti, per raccontare con affetto e con ammirazione questa donna straordinaria che traversa il tempo storico con grandissima forza e coraggio.

Ballestra mostra di essere una ricercatrice motivata e tenace che mette tutta la sua creatività e il suo impegno nel lavoro di scrittura biografica in cui racconta anche di sé che fa la ricerca. Racconta in modo vivo, comunicativo e molto umano, sono stato colpito da piccole tracce: sfiora talora ironicamente il gossip, vuole la verità su alcuni episodi meno noti della vita di Joyce, annota che Joyce cambia talora versione ai suoi racconti nelle diverse occasioni in cui parla di sé. E poi dopo aver letto il libro, vi invito a rivedere il film Casablanca. Sarà più facile capire lo scenario del dramma sentimentale oltre che l’incombere della storia nelle scelte umane e si avrà anche la tentazione di vedere qualche somiglianza tra Joyce e Ingrid Bergman.

whatsapp-image-2021-06-07-at-17-51-32In questo libro è molto importante il lavoro sui diari e le biografie di altri protagonisti del tempo, che conobbero Joyce e la descrivono nelle loro note autobiografiche. Sono soprattutto donne (ma c’è anche Benedetto Croce), donne di grande profilo, di dignità, rigore, coraggio. Dalla mamma di Joyce a Vera Modigliani sono storie di donne che si guardano, si specchiano, si riconoscono, si rafforzano tra loro. Joyce chiedeva di più a tutte/i me compreso, e talora era incombente. La distanza mi aiuta a capire il valore di quella sua insistenza che veniva da una militanza mai spenta che era diventata per lei un habitus e che cercava di contagiare.

Questo libro aiuterà Joyce a “scavalcare il Novecento”. Sono pagine di epica, ricche di un senso leggendario ma anche possibile della vita. Nei primi anni sessanta, il libro di Joyce Fronti e frontiere che raccontava la vita degli antifascisti all’estero, fu per me ispiratore, quasi fondatore della militanza politica. La Sibilla può essere vicino a un nuovo immaginario più aperto ad essere sentito e accolto nel nuovo mondo e a ritrovarsi nelle letture e nei sogni di giovani Zeta e Millennials. Così come può essere per la Sibilla, figura molto amata dalla Joyce marchigiana femminista e protagonista di una nuova storiografia del territorio. Incarnazione novecentesca di donne antiche che gestiscono il potere con saggezza e senza fare guerre. Joyce amava raccontare per leggende ed ora è leggenda.

marongiuIl barracuda [2]

La parte della memoria è il titolo dello scritto di Stefania Marongiu su Tutino. Il sottotitolo è Storia privata di Saverio Tutino. Edizioni Alcatraz, Milano, 2023. Il sottotitolo fa pensare, per via della ‘storia privata’, ma poi sulla copertina si legge ‘romanzo’. Mi domando: “perché romanzo?” Penso che talora chi vuole evitare che vengano messi in luce eventuali anacronismi o errori documentari sul piano della storia si nasconde dietro ‘il romanzo’. Conosco Stefania, e da tempo so che doveva scrivere un libro su Saverio. È stata anche a casa mia, abbiamo parlato, le ho consigliato varie letture, le ho raccontato il ‘mio’ Tutino. Mi ringrazia tra i tanti, alla fine del libro, e c’è anche una dedica a mano per me e per Ida. Guardo l’indice: i capitoli si chiamano uno, due tre, fino a sette. L’indice dei nomi comprende protagonisti degli anni 60 e 70, ci si trovano alcuni brigatisti ma anche personaggi del PCI e amici di Saverio che sono stati da lei intervistati (ma questo lo saprò solo dopo avere letto il libro). Non mi resta che cominciare a leggere:

“HO SOGNATO. HO SENTITO LE MIE MEMBRA DIBATTERSI DENTRO L’OSCURITA’ delle mie palpebre chiuse…..”.  

Disorientato, guardo la quarta di copertina:

Dove sei Saverio? Che anno è?
In quale città ti trovi?
Quanti anni hai? La guerra è finita,
il magma lavico del tempo seguita a rutilare,
tu sei finito da qualche parte.
Una mattina hai aperto gli occhi
Ed eri di nuovo cambiato. 

Leggo gli esergo nella pagina iniziale, uno mi colpisce:

“Abbiamo perso la memoria del ventesimo secolo comunque sia, abbiamo perso…”

Su questo aspetto mi sono concentrato. Nella sua autobiografia Saverio raccontava i suoi sogni e alternava il racconto dei sogni con i fatti del mondo. Tutino usa la parola ‘sogno’ in due accezioni: per riferire visioni notturne ma anche per parlare delle cose che vorrebbe realizzare, raggiungere. Mi torna alla mente una espressione di Shakespeare [3]: ‘siamo fatti della stoffa dei sogni’ [4]. Mi rendo conto che questa è la chiave per leggere il ‘romanzo’ di Marongiu. Scopro che piuttosto che un romanzo è un poema epico moderno, non in versi, denso di letterarietà, di veglia e sogno in una dimensione onirica, molto visiva. Mi fa pensare al film dei Taviani in cui Pirandello visita la sua casa di bambino e incontra in sogno il fantasma di sua madre [5]. Mi fa molto pensare la scelta che ha fatto Stefania, e sono conquistato. La trovo originale, ricca di colori, di immagini, di evocazioni. E al tempo stesso vi è il racconto di Saverio Tutino, certo non come in un libro di storia, ma come la storia di un uomo ricco di vissuti ritraversati in maniera emotiva.

Saverio Tutino con Dondero

Saverio Tutino con Dondero

Come nel libro della Ballestra, appare l’immagine del mito, della leggenda. Un nuovo modo di raccontare il passato: radicale. Un giovane lettore di poesie ne sarebbe affascinato. Ma anche io lo sono. Di tanto in tanto nelle pagine del libro compare Stefania che intervista e compaiono anche i suoi intervistati. Ma questi incontri vengono raccontati come qualcosa di non traducibile in parole descrittive, con la timidezza di poter riferire qualcosa che è sentito parte di un tempo mitico, che lascia solo sfuggenti tracciati. La descrizione di questi personaggi è scavalcata dalla evocazione, come se descrivere li dissacrasse. L’incontro con Dondero [6], ad esempio, che è presentato come una figura da mitologie moderne, come se ci fosse un altro e immanente mondo dove vi sono figure indimenticabili che ci guardano e alle quali guardiamo, simili ai semidei degli antichi, e dove di sicuro ci sarebbe anche Joyce Lussu [7]. E così Stefania al tempo stesso guarda Dondero dalla distanza del tempo, come fosse impossibile raccontarlo e lo presenta in una atmosfera poetica e sognata.

Il libro è stampato con due tipi di scrittura: una scrittura classica da libro e una scrittura da ‘lettera 22’. Anche questo è un codice non esplicito per avvertirci che ci sono diversi registri narrativi. Il primo riguarda la scrittura soggettiva: è Stefania che viaggia, che pensa, che incontra, che racconta sempre di e con Saverio. L’altro, la parte stampata con la lettera 22 è pensata come fosse un diario vero di Saverio. Le pagine sono spesso vicinissime a pagine scritte da Tutino, ma non lo ricalcano mai. è come se fossero rivissute, rianimate da Stefania che scrive. Ha avuto l’audacia di entrare nelle pagine della vita di Saverio. Stefania si è fatta Saverio, è entrata nella sua storia, qualche volta la agisce: si è fatta piccola come un bimbo e vecchia come un nonno per poter raccontare [8].

tutino_barracudaEppure via via che si va avanti si dispiega la storia di Cuba, di Fidel Castro, delle rivoluzioni e delle sconfitte latino-americane, del PCI che gli chiude le porte, di Linus e di Oreste Del Buono, insomma si parla di tutto, fino alla nascita dell’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano. Nell’indice del libro – penso – i numeri ‘secchi’ (uno, due, tre…) dei capitoli sono forse le fasi, i ritmi, le partiture del concerto della vita di Saverio. Solo verso la fine del libro Stefania ci chiarisce e rende esplicite le chiavi di lettura del suo romanzo personale. È come se dicesse: visto che sei arrivato a pagina 136, ho il dovere di spiegarmi e di rivelare qualche segreto del mio scritto. A pagina 136 vi è una nota e a pagina 147 vi è una sorta di rivelazione, in cui l’autrice dichiara il suo intensissimo rapporto personale con Tutino e la sua memoria. Propone inoltre una breve teoria sulla sua generazione che definisce del disorientamento verso un mondo ‘marcescente e feroce’. Dice:

«Ho trattenuto il respiro e mi sono aggrappata perché era l’unica cosa da fare. Avevo delle domande. Ho preteso che la storia desse delle risposte. Non l’ha fatto, si è ribellata al mio sguardo ansioso…Tutto intorno a noi continua a sfaldarsi e confondersi, cosa resiste se non una storia? Che poi non è una. È una che ne contiene molte. Hanno creato il mondo, hanno creato loro stesse raccontandosi [9]. Queste storie sono altro da me, eppure sono me. Sono passate attraverso di me. Si sceglie una storia per se stessi così da passare dall’altra parte, per fendere la propria vita con il colpo di una rivoluzione».

Anche La parte della memoria è un titolo intrigante. In me accende il ricordo di un verso di Raboni

Occhio per occhio, parola per parola/
sto ripassando la parte della vita [10]. 

La parte indica la parzialità o il copione che si recita? Certo per Tutino la ‘parte della memoria’ nella sua vita come in quella di tanti altri, comunque sia, è stata fondamentale. 

Le pagine di Marongiu sono dense e poetiche con una forte riflessività soggettiva e generazionale. Da leggere e rileggere. Passare per Saverio Tutino, attraversare un mondo emotivo, restituirlo nella figura di un uomo coraggioso e fragile, e ‘bello di fama e di sventura’ [11], da portare nel cuore, è un bel dono da trasmettere alle nuove generazioni.

Mi piacerebbe che Ballestra e Marongiu si leggessero a vicenda, e magari si incontrassero in Sardegna, perché questa terra è il luogo di connessione delle loro storie.

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] Joyce L. Una vita contro. Saggio su Joyce Lussu, 1996, Baldini e Castoldi. Una lunga intervista autobiografica
[2] La figura del barracuda è stata scelta da Tutino per il titolo della sua autobiografia. Questo pesce che ha la caratteristica di essere mobile, veloce e ‘curioso’, lo sentiva comune alla sua vita. S. Tutino, L’occhio del barracuda. Autobiografia di un comunista, Milano, Feltrinelli, 1995
[3]Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita” (W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, scena I)
[4] La mia memoria lo prende dal titolo del film di Gianfranco Cabiddu, La stoffa dei sogni, 2016
[5] Nel film Kaos è l’episodio Epilogo: colloquio con la madre, tratto dal racconto Una giornata.
[6] Mario Dondero, nato a Milano nel 1928 e morto nel 2015. Uno dei più importanti fotografi e fotoreporter italiani; ha viaggiato e fotografato molto, dalla Roma degli anni sessanta all’Africa, al Medio Oriente
[7] Qui mi torna alla mente il paradiso laico e lunare del film di Paolo Zucca, L’uomo che comprò la luna 2018
[8] Cito a memoria una frase dallo psichiatra Michele Zappella.
[9] Penso qui ai temi dell’antropologia della narrazione trattati da A. Sobrero, Il cristallo e la fiamma, Roma, Carocci, 2009
[10] da “Canzonette mortali”, (1981-1983), in “Tutte le poesie, 1949-2004”, Einaudi, Torino, 2014
[11] È Foscolo che parla di Ulisse. Entrambi strutturalmente esuli, come in fondo Saverio. E come tali straordinari segna-tempo.

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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); I Musei della Dea, Patron edizioni Bologna 2023). Nel 2018 ha ricevuto il Premio Cocchiara e nel 2022 il Premio Nigra alla carriera.

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