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Jamil Holway: un siro-americano in dialogo con il diavolo
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2020 @ 01:39 In Letture,Migrazioni | No Comments
di Francesco Medici
Il 5 gennaio 1929, presso l’hotel McAlpin di New York, fu organizzata una cena di gala per festeggiare i venticinque anni di carriera artistico-letteraria di Kahlil Gibran (Ğubrān Ḫalīl Ğubrān, 1883-1931) cui presero parte circa duecento invitati. L’ospite d’onore – che nella fotografia ufficiale compare in fondo alla sala, proprio sotto il dipinto appeso alla parete, seduto a destra della bandiera a stelle e strisce – ascoltò commosso i discorsi di encomio di molti illustri esponenti della comunità siro-americana. Il numero di febbraio 1929 del mensile «The Syrian World», nel riferire dell’importante evento, annovera tra gli oratori di quella memorabile serata anche un certo ‘Jamil P. Holway’ [1], un nome oggi pressoché dimenticato, ma assai noto all’epoca ai lettori di quotidiani e periodici in lingua araba pubblicati negli Stati Uniti. Alcune fonti lo citano addirittura come uno dei più eminenti letterati siriani d’emigrazione, benché egli abbia operato al di fuori del ristretto circolo poetico gibraniano [2].
Ǧamīl Buṭrus Ḥulwah nacque a Damasco il 15 agosto 1883. Nel 1903, dopo essersi laureato in legge a Beirut presso il Syrian Protestant College (l’attuale American University of Beirut), raggiunse a Chicago, nell’Illinois, i genitori Buṭrus Līūn Ḥulwah e Zaynah Ḥaǧǧār, già emigrati tempo prima negli Stati Uniti, dove il suo nome venne registrato come Jamil Boutros (Peter) Holway. Negli anni seguenti viaggiò attraverso diversi Stati del sud quali Missouri, Texas, Louisiana, Tennessee. Nel 1907 venne assunto dal Governo federale statunitense come interprete e ispettore per l’Ufficio Immigrazione. Intanto le sue collaborazioni sempre più frequenti con la stampa arabo-americana gli fecero guadagnare una popolarità crescente tra i suoi compatrioti residenti in America. Nonostante la formazione giuridica, la passione letteraria di Holway è testimoniata da molti suoi articoli, in uno dei quali si legge:
Nel 1918, rassegnate le dimissioni dal suo impiego presso l’Ufficio Immigrazione, Holway iniziò ad esercitare la professione di avvocato e il 23 dicembre dello stesso anno sposò la conterranea Mary Hakim (Mārī Ḥakīm, 1893-1974), da cui ebbe quattro figli: Josephine, Edmund, Floyd e Theodore. Nel 1928, insieme alla famiglia, si trasferì a Brooklyn, New York, dove trascorse il resto della sua vita. Durante il secondo conflitto mondiale lavorò alla campagna di propaganda “Fight for Freedom” per conto dell’U.S. Office of War Information. Si spense a Brooklyn il 14 febbraio 1946 e le sue spoglie furono tumulate presso il Green-Wood Cemetery.
Non avendo mai dato alle stampe alcuna raccolta poetica, i versi di Holway sono andati in larga parte probabilmente perduti. Tra le altre, due delle sue liriche si sono preservate grazie alle traduzioni dall’originale arabo in inglese di George Dimitri Selim incluse nell’antologia di poeti siro-americani Grape Leaves. Del più suggestivo di tali componimenti, dal titolo al-Šayṭān (Satana) [4] – un’amara riflessione sulla follia della guerra e sulla barbarie umana –, si fornisce di seguito un’inedita traduzione in italiano:
La fama di Holway come autore non è tuttavia ascrivibile né alle sue poesie né ai suoi contributi giornalistici, bensì alla sua unica opera edita in volume, al-Muhāǧir al-Sūrī (Il migrante siriano), un opuscolo in arabo pubblicato nel 1909 a New York recante come eloquente sottotitolo: «Cosa deve sapere e cosa deve fare» [5]. Si tratta di un vero e proprio manuale pratico, redatto a beneficio di tutti coloro che, provenienti dalla provincia ottomana della Grande Siria (in particolare dai territori di Monte Libano, Siria e Palestina), salpavano per l’America. Lo scopo del libriccino era quello di informare i lettori circa i loro diritti in terra straniera, dispensare loro una serie di utili consigli e fornire nozioni specifiche sugli usi e costumi americani.
Le leggi degli Stati Uniti in materia di immigrazione, allora come oggi, erano molto restrittive. Sbarcati sull’isolotto di Ellis Island, nella baia di New York, i migranti erano sottoposti a severi controlli. La selezione si atteneva a rigidi criteri concernenti soprattutto l’afferenza etnico-razziale e la confessione religiosa dei neoarrivati. A tale proposito Holway ammoniva i siriani di affermare con risolutezza dinanzi ai funzionari americani le proprie origini semitiche, se non addirittura fenicie, al fine di essere identificati come appartenenti alla privilegiata «razza bianca». Secondo l’autore, molti respingimenti che si verificavano presso la famigerata ‘Isola delle Lacrime’ erano infatti dovuti sia alla sprovvedutezza degli stessi migranti siriani, inconsapevoli tanto del loro lignaggio quanto delle prescrizioni da osservare, sia all’ignoranza degli impiegati locali, spesso totalmente incapaci di distinguere, ad esempio, un arabo da un turco (poiché in entrambi i casi risultanti come sudditi della Sublime Porta), un musulmano da un cristiano.
Nel suo opuscolo Holway consiglia ai siriani di imbarcarsi a Beirut, raccomandando loro di procurarsi tutti i documenti necessari insieme a una somma di denaro sufficiente a pagare ogni sorta di dazi, tasse e permessi, nonché per ottenere l’esonero dalla coscrizione – pena il sequestro del passaporto e in alcuni casi perfino l’arresto, ancor prima della partenza. I migranti dovevano poi guardarsi da truffatori, imbroglioni e sciacalli, sempre in agguato ad ogni scalo (Napoli, Marsiglia, Boulogne-sur-Mer, Rotterdam…) e durante le traversate, del Mediterraneo prima e dell’Atlantico poi: approdare negli Stati Uniti a corto di quattrini avrebbe significato essere bollati come «parassiti» e di conseguenza essere immediatamente rispediti indietro a spese delle stesse compagnie navali, le quali, naturalmente, dettavano a loro volta norme ferree ai passeggeri di terza classe, richiedendo a questi ultimi, come garanzia, salate caparre e cauzioni fin dall’acquisto dei titoli di viaggio.
Anche la prevenzione sanitaria costituiva una condizione necessaria per gli sbarchi, ed era il personale dei piroscafi, per ovvie ragioni, ad occuparsi di sottoporre i migranti a costanti fumigazioni nel corso dell’intera tratta marittima. Holway descrive nel dettaglio le visite mediche che essi dovevano subire non appena giunti a Ellis Island e stila un elenco accurato di quelle patologie e infezioni in merito alle quali le leggi statunitensi sull’immigrazione erano più intransigenti, soffermandosi in particolare sul tracoma dell’occhio, malattia infiammatoria allora assai diffusa in Africa e in Medio Oriente ed estremamente contagiosa.
Agli inizi del XX secolo, ottenere l’ingresso negli Stati Uniti – avvertiva Holway – non era però che l’inizio di una fase ancora più dura per i migranti, cioè il difficile ambientamento in terra americana e il complicato iter per l’acquisizione della cittadinanza. Ma come dimostrarsi ‘degni’ immigrati? L’autore narra alcuni aneddoti esemplificativi di cui era venuto a conoscenza, menzionando sia i casi più fortunati sia quelli più infausti, e concludendo che chi intendeva naturalizzarsi doveva costruirsi oltreoceano un’identità specchiata soprattutto attraverso una condotta limpida e virtuosa. Era consigliabile disporre di contatti fidati con aziende e potenziali datori di lavoro già prima di imbarcarsi per il Nuovo Mondo. Presentarsi alle autorità statunitensi muniti di una lettera di referenze rappresentava senza dubbio uno degli espedienti più efficaci per passare i controlli. Ciò spiega perché al-Muhāǧir al-Sūrī includa anche una nutrita sezione di recapiti e numeri telefonici delle più svariate ditte, fabbriche e imprese allora attive a New York.
Gli immigrati di lingua araba, come tutti gli altri, nei primi tre anni di soggiorno, dovevano sempre essere pronti a ricevere le visite di funzionari incaricati di ispezionare i loro alloggi e verificare le loro condizioni di vita e di lavoro. Trascorso tale ‘periodo di prova’, altri cinque anni di sorveglianza governativa erano previsti per i richiedenti la cittadinanza statunitense. Attenzione particolare era inoltre riservata ai bambini, il cui stato di buona salute e la regolare frequenza a scuola erano oggetto di sistematici accertamenti. Gli adulti, dal canto loro, erano caldamente invitati ad iscriversi a corsi serali di alfabetizzazione alla lingua inglese e di avviamento professionale. Holway, che ben conosceva certa mentalità puritana statunitense, non si esime nell’opuscolo dal fornire alcune ulteriori avvertenze affinché i siriani potessero dimostrare di essere individui onesti, rispettabili e affidabili: evitare locali e club malfamati e attività immorali; non dimenticare che le numerose associazioni siro-americane, benché nella stragrande maggioranza di natura caritatevole e assistenziale, erano poste anch’esse sotto costante sorveglianza; considerare che effettuare frequenti viaggi di ritorno in patria avrebbe certamente insospettito le autorità competenti.
Meno di vent’anni dopo, nella sua accorata lettera aperta indirizzata alla seconda generazione di siro-americani, Gibran avrebbe espresso, seppure in forma di poesia in prosa, gli stessi sentimenti di fierezza per le proprie origini e di fiducia nel proprio popolo manifestati da Holway in al-Muhāǧir al-Sūrī. Il messaggio Ai giovani americani di origine siriana [6] resta uno degli scritti gibraniani più celebri e ancora attuali, considerato oggi quasi alla stregua di un manifesto identitario da parte della colonia arabo-cristiana negli Stati Uniti:
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