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Intorno a Sorella Morte

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2018 @ 01:28 In Cultura,Società | No Comments

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San Gerolamo, Caravaggio, 1605

di Johnny Dotti [*]

Il tema è molto impegnativo, molto affascinante e mi viene da dire anche molto pericoloso. Proverò ad affrontarlo così: con una premessa di metodo, una divisione in alcuni piccoli capitoli che sono la morte come luogo, la morte come relazione, la morte come simbolo e la morte come esperienza, infine una conclusione generale.

La premessa ovvia è che sono un essere mortale come voi. Quindi, essendo molto coinvolto nel tema credo sia possibile affrontarlo soltanto in maniera tangenziale, come è tangenziale tra l’altro l’esperienza, l’esistenza è contingente. Esistere vuol dire passare molto vicino a qualcosa. Quindi provo in qualche modo a fare una piccola riflessione comune sul cosa vuol dire passare vicino ad un tema così potente come quello della morte.

È difficile parlare della morte perché parlare della morte è come parlare dell’amore. Un conto è parlarlo, un conto è viverlo. Nessuna parola è in grado di dare fino in fondo il senso e il significato che poi ha nella nostra vita questa dimensione. Probabilmente non so chi di voi ha già fatto indirettamente l’esperienza della morte, perché gli è morto il papà, la mamma, un fratello, una sorella o un amico; oppure viceversa, da un punto di vista pregiudizialmente positivo, chi di voi ha fatto l’esperienza dell’innamorarsi, del provare una passione profonda per qualcuno o per qualcosa. Insomma, credo che si possa intuire, se fate riferimento a queste cose che avete vissuto, quanto sia devastante o dirompente (oppure usate l’aggettivo che preferite) questo tipo di esperienza. Per cui le parole vocali riescono a dare solo una dimensione limitata del dirompere di questa parola interiore che è molto più forte, che ci fanno fare questo tipo di esperienza. «Forte come la morte è l’amore» si dice nel Cantico dei Cantici, vuol dire che c’è una vicinanza forte tra i due temi.  Un altro grande personaggio che resta sempre vicino almeno a me come riferimento di comportamenti, cioè San Francesco, la chiamava “Sorella Morte”,  è ’esperienza di sangue quella della morte.

Proviamo a balbettare qualcosa sulla morte. Il primo tema per provare ad accompagnarci ad incontrare e a passare attraverso la morte – tra l’altro è molto bello immaginare che quando lo faremo noi non ci saremo più in queste vesti, per dire come è dirompente – è quello della morte come luogo.

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La morte della Vergine, part., Caravaggio, 1605

La morte come luogo

Qual è il luogo della morte? Qual è lo spazio proprio della morte? Penso che lo spazio proprio della morte sia il silenzio. Un saggio avvicinarsi alla morte comprende una sana consapevolezza e un’esperienza reale del silenzio. Perché il silenzio è non solo la grande cosa che succede quando la morte arriva ma è anche l’utero della morte e della vita, è il principio da cui nascono e tornano le cose nella loro estensione cosmica mi viene da dire, ma anche nella loro dimensione quotidiana. Ci sono tante morti quotidiane che possono essere frutto di vita, cioè possono portare vita, o possono a loro volta generare disperante vacuità. In entrambi i casi il silenzio è il luogo in cui esprimono questi passaggi mortali della vita. Quindi l’esperienza del silenzio è un’esperienza importante per prepararsi ad un incontro con la morte, quella degli altri, quella delle cose, quella della natura e alla fine la nostra. Tra l’altro ricordo che è solo il silenzio che fa e dà spazio alla parola che trasforma, altrimenti abbiamo dei termini, abbiamo informazioni più o meno significative, non abbiamo parole che trasformano relazioni. C’è un legame molto stretto tra il silenzio e la morte, tra il silenzio, la morte e la vita. È come se il luogo della morte, che è appunto il silenzio, fosse una sorta di porta, il silenzio è una porta, è un luogo non luogo.

Il secondo gradino, l’affrontiamo un po’ come facevano i medievali o come fanno i buddisti (tra l’altro Il libro tibetano dei morti è un libro di meditazione per i vivi che accompagna l’esperienza della morte; ma molti testi e scritti cristiani medievali e rinascimentali fanno del prendere coscienza dell’esperienza della morte un’esperienza che va fatta fin da vivi), è quello della morte come relazione.

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San Francesco in estasi, Caravaggio, 1594

La morte come relazione

Noi viviamo la morte come relazione nella misura in cui la morte significa abbandono. L’abbandono è un’esperienza di relazione mancata, che non c’è più o che si trasforma. Il lasciare e l’essere lasciati, provare la solitudine, lasciar soli e sentirsi soli. Però se proviamo a guardarla da un altro punto di vista, non solo quello che costa in negativo, l’abbandono è la condizione del ritrovarsi, o del trovare. Non si trova nulla se non si abbandona qualcosa; bisogna sempre lasciare qualcosa per trovare qualcosa. Dobbiamo essere lasciati per poter essere trovati. Se la guardiamo dal punto di vista fisico, occorre svuotare la tazza affinché venga riempita da qualcosa d’altro. Allora, così come prima ho accennato al silenzio, anche la solitudine e l’abbandono fanno molta paura, mentre sia il silenzio che la solitudine/abbandono sono due dimensioni fondamentali appunto della morte e quindi della vita, potremmo dire dal punto di vista filosofico dell’essere. Non ci si compie e non ci si realizza se non si passa dal silenzio e se non si passa dalla solitudine. Queste sono due esperienze importanti per avere un approccio con la morte che non sia solo devastante o che non scateni solo la paura e quindi alla fine la fuga.

Allora la morte come silenzio, come porta, come luogo per cui possa nascere, rinascere la parola; la morte come relazione, abbandono e solitudine per cui possa nascere la ricerca. Nella premessa ho fatto riferimento all’amore, perché sia il silenzio che l’abbandono sono due dimensioni fondamentali anche nella dinamica dell’amore.

Salma di Cristo, Annibale Caracci, 1583.

Salma di Cristo, Annibale Caracci, 1583

La morte come simbolo

Forse qui vale un po’ la pena recuperare l’etimologia. Il simbolo non è il significato. Il significato abita il simbolo ma non ne esaurisce la portata. Il significato ha una sua natura razionale anche se non strettamente logica, ma è riconducibile alla razionalità. Il simbolo, pur non perdendo in ragionevolezza, si riconduce a dimensioni mitiche. È la parola del mito il simbolo, così come il rito è l’azione del mito.

Perché la morte come simbolo? Perché nella misura in cui la morte è trasformazione, al di là delle dimensioni religiose in cui si possa raccontare questa vicenda, se usiamo anche la religione scientista che oggi va così di moda, nulla si crea nulla si distrugge, tutto si trasforma. Se penso alla religione e ai simboli che per me hanno una natura mitica, questo non è sminuire la religione ma è collocarla ad un contenuto più profondo dell’umanità. Certamente la morte è trasformazione, cioè è passaggio. Al di là che ci andiate o non ci andiate più a messa, tutti ricorderanno la Pasqua – tra l’altro nella nostra esperienza religiosa dell’Antico Testamento e poi del Nuovo Testamento si esprime con queste parole e con questa immagine e poi con l’esperienza del Cristo – ma l’esperienza della Pasqua appartiene a tutte le religioni del mondo, cioè la trasformazione è sacrificio, la morte come sacrificio, farsi sacro, recuperando i due gradini di prima, cioè il silenzio e la solitudine, in luogo silenzioso e in un’esperienza di solitudine accade che si entra in una dimensione altra, la morte fa entrare in una dimensione altra, già qui sulla terra. Perché se pensiamo le nostre esperienze quotidiane, l’arte del morire è un’esperienza quotidiana, le nostre esperienze quotidiane sono fatte del potere di trasformazione, del cambiamento di sé stessi, dal sacrificio. Perché il sacrificio è potere, il vero potere è il sacrificio. Non il potere  inteso un po’ banalmente come stare in un ruolo di potere, ma il potere come possibilità di cambiamento di sé stessi e delle cose intorno a sé.

Si trasforma se siamo trasformati. Quindi la morte come simbolo, simbolo di trasformazione ed esperienza di sacrificio. Per citare una cultura che per me è importante, mi appartiene e che al di là delle confessioni religiose credo appartenga a tutti: non si muore per sé, si muore per gli altri. Ma in fondo questo sta anche all’inizio, all’origine della vita. Quando un uomo lascia il proprio spermatozoo nell’ovulo di una donna, fa morire una parte di sé,  nel momento stesso del concepimento della vita c’è la morte; così nel momento stesso della morte c’è la vita. Questa è la trasformazione, questo è il sacrificio, che è sempre il generare un’altra dimensione, relazionata con te ma che ti dilata in altro. Quando si fa l’esperienza di un figlio o si vede il proprio genitore morire, che è un’esperienza simile dal punto di vista personale, cioè il momento della sala da parto o l’ultimo momento quando qualcuno a cui vuoi bene ti saluta, sono due momenti molto simili.

Non è un caso ad esempio che le donne vivano la depressione post partum: fare un figlio è anche perdere un pezzo di sé, un pezzo di libertà, un pezzo di corpo, un pezzo di possibilità; questa perdita è però anche generazione di altro-che ti riguarda.

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Rubens piange la moglie, Van Dyck, 1625 ca

La morte come esperienza della esistenza

L’accenno che facevo prima dell’esistenza contingente (cum-tangere) come essere tangenti a qualcosa è la morte come esperienza dell’esistenza: è la morte come dolore. C’è un rapporto stretto tra la morte e il dolore, non è il solo rapporto. Purtroppo si vede prevalentemente questo e si nega prevalentemente questo. Pensate a quanto il dolore oggi è una cosa sfuggita, da cui si cerca di fuggire costantemente, peccato che poi ce lo ritroviamo sempre più profondamente nelle nostre vite. La morte come sofferenza, come dolore, come ineludibile sofferenza dell’esistenza. C’è una sofferenza nell’esistenza che è non sfuggibile, che va assunta. Questo non significa essere masochisti, significa che devi farci i conti. Non amo ad esempio l’idea fustigatoria della contemplazione o della mistica, sicuramente l’esperienza almeno a me ha insegnato che non si può rimuovere il dolore da sé, che più lo rimuovi più ti torna gigante. Non si può rimuovere il dolore degli altri, che provi nella relazione con gli altri, solo giocando ai buoni e ai cattivi. Tra l’altro credo che questa sia alla base dei princìpi della non violenza. Se uno non fa i conti con il dolore non capisce cosa sia la non violenza, diventa per forza violento, perché la violenza è un modo istintuale di reagire al dolore. Cos’è ad esempio la vendetta?

L’arte del morire comprende anche l’arte del tollerare il dolore, proprio, degli altri, del mondo, degli altri esseri viventi, figurativamente anche quello di Dio. Tollerare vuol dire portare dentro di sé, fare un percorso di compassione con il dolore. Fare un percorso anche nella sua dimensione che vi tocca di più professionalmente: la fatica non è che un dolore diluito, però una fatica vissuta con passione porta a realizzarsi ad essere più se stessi, non meno se stessi.

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Autopsia, Cezanne, 1869

Conclusioni

La morte è dunque un elemento sostanziale dell’essere persone, persone compiute, realizzate, limitate, per questo persone. La morte come esperienza del corpo, la morte come esperienza dell’anima, la morte come esperienza dello spirito. Niente come la morte ci fa incontrare la nostra corporeità. Anche qui similitudine: niente come fare l’amore ci fa incontrare la nostra corporeità, mi verrebbe da dire nell’estensione massima nel fare l’amore, nel limite massimo quando poi un corpo diventa un cadavere. Ma noi siamo corpo, non abbiamo un corpo. Traduco: chi non ama e chi non muore non fa esperienza del corpo. La morte come persona cioè anche come anima. Anima significa respiro. Anche in questo momento dal punto di vista del corpo porto dentro dell’aria ma mando fuori dell’anidride carbonica, in qualche modo uccido qualcuno. Ho bisogno poi di un altro soggetto che sono le piante che dalla mia anidride carbonica rifanno l’ossigeno. Lo stesso cuore contrae e dilata. L’arte della morte comprende di fare l’esperienza della propria anima, che è poi l’esperienza del proprio respiro. Aggiungo che la morte ha a che fare con la capacità di guardare oltre. Così come davanti ad un bambino piccolo, davanti ad un morto voi vi fate domande che generalmente non vi fate, ci facciamo domande che generalmente non ci facciamo. La morte è un grandissimo catalizzatore di intelligenza e un grandissimo catalizzatore di spirito, cioè ci costringe ad aprire altre dimensioni. La morte ha a che fare con lo spirito e con l’intelletto. Una persona integra, cioè che aspira ad essere realizzata, a stare dentro alla realtà, tradizionalmente si direbbe che aspira alla salvezza, fa l’esperienza della morte.

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Sogni di un passeggiatore solitario, Magritte, 1926

L’ultima annotazione la voglio dedicare al tempo di oggi perché il titolo che mi è stato dato  comprende l’arte del morire nell’orizzonte del benessere moderno. Nel tema sono contenute tre parole, orizzonte, benessere e moderno che richiederebbero altri approfondimenti. Brevemente, uno dei problemi dell’oggi è che ci siamo negati l’orizzonte e l’uomo senza orizzonte fa veramente fatica a vivere. L’unica dimensione dell’orizzonte che ci siamo permessi di tenerci è quella del futuro, però il futuro disincarnato da altri elementi di orizzonte che sono disegnati dallo spirito e  che sono disegnati dal vedere l’invisibile, è generalmente una proiezione posticcia, l’aveva già capito Freud, del passato. Infatti noi oggi viviamo in un tempo di grande paura perché l’unico orizzonte che abbiamo è il futuro, un tempo lineare e se ragioniamo linearmente noi proiettiamo quello che stiamo vivendo oggi, cioè situazioni di grande frantumazione, di grande confusione, di non discernimento tra fantasia e realtà, dove le parole si svuotano. Però, questo è il consiglio finale, questo “oggi” va benedetto, perché mai come oggi, seppur in maniera drammatica, abbiamo un accesso al silenzio, alla solitudine, alla trasformazione e all’esperienza di persona. Paradossalmente questo avviene su un crinale quasi di dramma perché si sono frantumati moltissimi riferimenti che ci rassicuravano: la famiglia, i gruppi, le culture, pensate anche a tutto il dibattito religioso.

Paradossalmente questa situazione si porta dentro una possibilità di metanoia, cioè al guardare sopra le nuvole. Credo che questo sia il tempo in cui anche l’attività che facciamo richieda metanoia. Richiede capacità di guardare un po’ sopra le nuvole, non solo di proiettarsi nel futuro. Detta in un altro modo richiede di guardare di più in profondità. Tendenzialmente fa un po’ paura, però poi se si sa accettare o se si sa superare questa paura, se non si ha paura della paura, questa è la possibilità che abbiamo di aprirci a mondi nuovi.

Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
[*] Testo letto in occasione del seminario di Comunità solidali L’arte di morire nell’orizzonte del benessere  moderno, dedicato agli operatori socio-sanitari delle cooperative sociali.
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Johnny Dotti, pedagogista, imprenditore sociale, monaco novizio, è fondatore della Rete CGM, presidente e amministratore delegato di Welfare Italia Servizi srl, società dedicata allo sviluppo dei servizi per le famiglie. È anche amministratore unico di Welfare Italia Impresa Sociale. Docente a contratto presso l’Università Cattolica di Milano, è autore di diversi studi. Ha pubblicato recentemente, con Maurizio Regosa, un saggio dal titolo Buono è giusto (Editore Sossella, 2015); Oratori generatori di speranza (Edizioni Messaggero, 2016); Giuseppe siamo noi (San Paolo, 2017).
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