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Intervista sulla questione palestinese a Susanna Sinigaglia e a Wasim Dahmash

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a cura di Francesco Mezzapelle

L’intervista è stata realizzata in occasione della presentazione del libro “Ebrei arabi: terzo incomodo?” Edizioni Zambon. Il libro è una raccolta di saggi sul conflitto israelo-palestinese, curato da Susanna Sinigaglia, ebrea pacifista, scrittrice e traduttrice e con la presentazione di Wasim Dahmash, palestinese, professore di Lingua e Letteratura araba all’Università di Cagliari.

L’iniziativa, svoltasi il 3 novembre 2012, è stata organizzata dall’Istituto Euro Arabo di Studi Superiori, in collaborazione con il Liceo scientifico e classico G. P. Ballatore e col patrocinio dell’Amministrazione Civica di Mazara del Vallo.

F. M. Con Susanna Sinigaglia parleremo del suo ultimo libro intitolato “Ebrei arabi: terzo incomodo?”, che è una raccolta di scritti inediti che cerca di dare una risposta al problema della questione palestinese. Come nasce questo suo volume?

S. S. Questo libro nasce dalla constatazione del fallimento del processo di Oslo, iniziato, soprattutto dopo che è scoppiata la seconda intifada e mi sono chiesto cosa stesse succedendo e perché fosse degenerata la questione palestinese. Mi sono anche chiesto quale fosse la composizione della società israeliana, considerato che fino a ora lo schema prevalente è di considerare gli israeliani come un blocco unico, da una parte e i palestinesi come un blocco unico dall’altra parte. Invece, approfondendo e avvicinandomi più precisamente alla questione, mi sono accorta che, all’interno degli israeliani, vi sono molte divisioni e popolazioni di origini e culture diverse, in particolare le popolazioni di origine araba che sono arrivate dall’inizio della costruzione dello Stato e che hanno avuto un percorso molto diverso dai loro omologhi occidentali, cioè sia da quelli che fondarono lo Stato, la leadership, sia da quelli che vennero dopo che scamparono alla Shoa. Perciò è nato questo libro, perché mi sono accorta che la questione israelo-palestinese fosse molto più complessa di quanto non appaia a prima vista e che la perpetuazione del conflitto è funzionale al mantenimento dello statu quo in Israele e cioè uno strumento di controllo territoriale, di tutto il territorio che costituisce la Palestina storica.

F. M. In questa vicenda che ruolo giocano secondo Lei i mass-media occidentali? Che idea si è fatta di come essi filtrano le vicende che avvengono nella striscia di Gaza? Come stanno effettivamente le cose?

S. S. Ancora c’è una sorta di equiparazione tra Israele e quella che dovrebbe essere l’autonomia palestinese, ma che non può certo essere equiparata a uno Stato. Invece, mentre Israele ha un suo Stato e un suo governo e ha uno degli eserciti più potenti del mondo, l’autonomia palestinese è, tra l’altro, divisa in due, perché la striscia di Gaza è governata da Hamas e la Cisgiordania dall’autorità nazionale palestinese. Ci sono queste due entità, divise tra loro, che non hanno né una struttura statale né un esercito. Però, nel messaggio che passa nei media, si equiparano le due realtà: quella israeliana e quella palestinese. Ciò non ha alcun senso. Anche i missili che, di tanto in tanto, arrivano su Deroche, questa cittadina a sud di Israele, inviati da Hamas, sono razzi rudimentali.  È vero che, talvolta, hanno fatto delle vittime, ma è strano che possano raggiungere l’obiettivo, considerato il sistema sofisticato e tecnologico di controlli che ha Israele, tale che, se volesse, potrebbe fermare questi missili e anche identificare i punti dai quali vengono lanciati. Quindi, mi viene da pensare che potere denunciare ogni volta che da Gaza vengono inviati dei razzi è un’occasione che Israele sfrutta per ricompattare le popolazioni al suo interno, che hanno ben altri problemi.

F. M. Al professore Wasim Dahmash vogliamo chiedere: professore è possibile ancora una soluzione di due popoli, due Stati?

W. D. Chissà, non so rispondere a questa domanda. La pace va costruita. Al momento non esistono elementi che possano fare pensare a una soluzione.

F. M.  È possibile partire dagli accordi di Oslo?

W. D. Gli accordi di Oslo, come ha dichiarato il governo israeliano, sono morti e sepolti, quindi si dovrebbe partire da qualcos’altro, per esempio dalle risoluzioni dell’ONU che obbligano il governo israeliano a fare ritornare i profughi, a ritirarsi entro confini riconosciuti e così via e questo non avviene da 64 anni. Finché questo non avviene, non ci può essere pace.

F. M. Che ruolo giocano gli Stati Uniti in questa vicenda? Sappiamo che gli Stati Uniti sono alleati storici di Israele e sappiamo anche che in America le lobby ebraiche sono potenti.

W. D. Tra gli Stati Uniti e Israele esiste un’alleanza strategica, atta a esercitare un certo dominio in Medio Oriente.  È un dominio non solo politico ma anche militare, quindi strategico. E questo dominio si esercita in varie forme, come per esempio l’intervento avvenuto dopo la rivolta in Egitto dietro le pressioni esercitate da Israele sugli USA e poi degli Stati Uniti sull’esercito egiziano perché intervenisse sulla situazione.  È uno dei tanti esempi d’intreccio d’interessi che portano a formulare una certa politica americana.

Gli Stati Uniti forniscono l’esercito israeliano con armi sofisticate e aiuti militari in generale, la cui cifra supera 11 miliardi di dollari l’anno, quindi una cifra spropositata. Perché lo fanno? Ovviamente per salvaguardare i loro interessi, no? Non certo per amore degli israeliani. E gli israeliani perché lo fanno? Non certo per amore degli americani ma perché les élites politiche israeliane hanno interessi precisi. Nella loro strategia, Israele deve essere uno Stato potente, perché hanno creato l’immagine di un Paese assediato, che deve difendersi verso un ambiente nemico. C’è una strategia di dominio, che non passa in modo diretto ma attraverso forti pressioni o ricatti, se vogliamo anche di accordi con le classi dominanti nel mondo arabo e nel mondo arabo islamico. Gli israeliani hanno grandi interessi in quell’area e anche gli Stati Uniti. Sono interessi intrecciati anche con i gruppi di potere nel mondo arabo. E infatti il titolo del libro spiega molto bene questo intreccio. Già la parola ebrea, già questa espressione, le cose non sono semplici come sembra.

F. M. Lei, da palestinese, come vede la questione siriana? C’è Israele, c’è la Turchia, l’Iran. Qual è il ruolo dell’occidente?

W. D. Ma l’occidente è il protagonista principale nello scacchiere. Cosa s’intende per occidente oggi.  È l’insieme di governi, Stati che hanno interessi precisi nell’area.  È chiaro che se uno Stato ha un interesse in una regione interviene per difendere i propri interessi. L’Occidente, la NATO hanno interessi importanti in M. O. o comunque cercano di dare un certo indirizzo a ciò che avviene in quella regione.

Nella questione siriana è chiaro che vi sono diversi interessi, non solo internazionali ma anche regionali, per esempio il gruppo dei paesi produttori di petrolio, legati all’Arabia Saudita ha interesse a mantenere una situazione di controllo sulle popolazioni, perché non vi sia una possibilità di democratizzazione in quei Paesi e poi ci sono gli interessi della popolazione siriana che si vuole liberare da un regime tirannico. Gli interessi sono molti. Se non ci fossero stati questi interessi, probabilmente, la situazione in Siria avrebbe continuato a essere una protesta pacifica, come è avvenuto in Egitto, Tunisia, Yemen, Barein e in altre situazioni.

F. M. Bene, vorrei concludere con un’ultima domanda alla scrittrice Susanna Sinigaglia. Anna Freud, tra i vari meccanismi di difesa che mette in atto l’individuo, enuclea l’identificazione con l’aggressore per sopportare la violenza e l’angoscia dell’oppressione. In altri termini, c’è chi sostiene che gli ebrei, in particolare la destra ebraica, si è talmente identificata con i propri oppressori nazisti da interiorizzarne la potenza che, a sua volta, scarica sui palestinesi. Questo assunto può essere reale?

S. S. Purtroppo, almeno in parte, è così, nel senso che, diciamo che questo tipo di meccanismo non è stato soltanto scaricato nei confronti dei palestinesi ma, come si cerca di dimostrare nel libro, anche sugli ebrei di origine araba. Diciamo che c’è una gerarchia di repressione e di angherie che vengono distribuite a seconda del livello che deve occupare ogni strato di popolazione. I palestinesi di Gaza, per esempio, purtroppo, occupano il posto più basso nella gerarchia socio-politica di tutta la zona. Però tutte le popolazioni di origine araba subiscono una discriminazione nella società israeliana. Esiste questo tipo di discriminazione e certi meccanismi che vengono messi in atto ricordano tanto, per l’appunto, quelli che venivano utilizzati in tempi molto bui.

Dialoghi Mediterranei, n.1, aprile 2013
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