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In tre tempi! L’individuo interconnesso fra spazio e tempo

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2021 @ 02:23 In Cultura,Società | No Comments

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Foto di Concetta Garofalo

di Concetta Garofalo

A volte capita che un’emergenza crei la necessità di ripensare l’organizzazione di una comunità al fine di garantirne la sopravvivenza. Ogni organismo tende all’autoconservazione, ogni sistema complesso attiva fasi di etero- trasformazione per stabilire e ristabilire gli equilibri di scambio fra interno ed esterno. Perseguire i fini per cui la comunità si è costituita implica che i componenti che ne sono parte non perdano la percezione di essere “comunità”.

Esiste un bene supremo, al di sopra, aldilà, alla base di tutto, sostanza e utilità, fine originario e fine ultimo, il bene prezioso: il bene comune.Nelle società moderne il bene comune è talmente parcellizzato, sparso e diffuso, da aver assunto la vaga forma dell’anonimato: ciò che è di tutti non è di nessuno! All’individualizzazione dei diritti corrisponde la socializzazione dei doveri i quali sono declinati in forma di obblighi e adempimenti sempre meno eccezionalmente disattesi rispetto alla norma. Quando la performatività non è performativa; quando la performatività è priva di agentività, le interazioni quotidiane non bastano a dare supporto esistenziale affinché il livello individuale dei soggetti si autoidentifichi nella logica del vivere comune. L’emergenza ci richiama al principio fondamentale del diritto di avere diritti, del dovere di avere doveri.

Purtroppo, sistemi piagati dai disequilibri economici, dalle disuguaglianze sociali, dalle intolleranze ideologiche e dalle sperequazioni politico-amministrative, si configurano in contesti di vita disorientanti, per cui gli individui vengono coinvolti, volenti o nolenti, nei complessi processi di inclusione/esclusione. La ricaduta a cascata sulla dimensione individuale emerge nei preoccupanti livelli e modalità di autopercezione, autorealizzazione, autoregolazione individuale e collettiva.

L’Italia del Duemilaventi ha riscoperto la fragilità dell’essere; ha preso coscienza degli sconfinati orizzonti della ricerca scientifica; ha toccato con mano la differenza sostanziale fra un’economia sana che sorregge un Paese e un Paese che sostiene l’economia. L’Italia che rivendica la corsa, la nuotata, il caffè al bar, il cinema e la pizza. L’Italia che non vende e che non compra. L’Italia che non viaggia e, obbligata in casa, implode e delirante riempie il tempo svuotato delle interazioni con l’esterno. Estia ed Hermes nel ventunesimo secolo non sono bastevoli ad una società che nei decenni si è ridefinita come sistema interconnesso a livello planetario. Abbiamo dovuto ripensare Estia come un sistema chiuso obbligato ed Ermes un sistema aperto vietato.

Una prima riflessione è che dentro e fuori non sono confini chiusi. Il sistema di relazioni determina di volta in volta le modalità e il grado di porosità dell’attraversamento fisico e/o relazionale. L’anno Duemilaventi si è dispiegato nel “nostro tempo” e ci ha obbligati alla sincresi del tempo: il tempo metereologico, il tempo sanitario, il tempo normativo, il tempo collettivo, il tempo sociale, il tempo individuale. Siamo stati chiamati ad agire l’attesa! Una comunità claudicante fra un DPCM e l’altro, fra un’ondata e l’altra, fra una stagione e l’altra: ed è subito estate, ed è subito autunno, ed è subito inverno e ricorre una nuova primavera alle porte.

Questo mio contributo, intende sviluppare delle riflessioni personali in merito, partendo dallo studio delle rappresentazioni del tempo in Hannah Arendt in La vita della mente. Hannah Arendt distingue due diverse rappresentazioni del tempo individuale: il tempo dell’io che pensa e il tempo dell’io immerso nella realtà concreta. Ciò che è presente all’io che pensa, è assente sul piano del mondo reale-concreto-apparente, poiché gli oggetti del pensiero sono essenze di significato, generali e non universali, de-sensibilizzati e de-localizzati in un non-luogo dell’ovunque. Su questo assunto è possibile rintracciare, per via di metafora, il passaggio dalla localizzazione spaziale dell’essere alle coordinate temporali del pensare e del fare.

«E tali rappresentazioni – con le quali rendiamo presente ciò che è fenomenicamente assente – sono, evidentemente, enti di pensiero, cioè esperienze o nozioni che sono passate attraverso l’operazione smaterializzante con cui la mente prepara i propri oggetti e, “generalizzandoli”, li spoglia al tempo stesso delle loro proprietà spaziali. Se il tempo determina il modo in cui queste rappresentazioni sono in rapporto l’una con l’altra, è col costringerle nell’ordine di una serie; queste serie sono ciò che chiamiamo direzioni di pensiero» (Arendt, 2017: 296).
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Fig. 1 L’io che pensa (Arendt, 2027: 303)

Dal continuum fluire del tempo quotidiano, tempo storico e biografico, scaturiscono due forze opposte che, liberate della concretezza del reale, divengono “direzioni di pensiero”: memoria e anticipazione. Le due forze del non-più e del non-ancora non si avvicendano, bensì passato e futuro convergono sul presente, cioè sull’Io che pensa. Hannah Arendt applica il parallelogramma di forze al fine di dimostrarne la diagonale risultante, direzionata verso l’infinito e con origine nel presente dell’Io che pensa. Per meglio comprendere l’assunto riproduco la rappresentazione grafica del parallelogramma delle forze in Figura 1 e riporto un breve passo:

«Questa diagonale, infatti, benché rinvii all’infinito, è limitata, racchiusa, per così dire, dalle forze del passato e del futuro e perciò è protetta contro il vuoto; essa rimane vincolata al presente, radicata in esso – un presente interamente umano, benché attualizzato pienamente solo nel processo di pensiero, incapace di durare più a lungo di quanto duri tale processo» (Arendt, 2017: 304).

Diversamente da come si può fraintendere in prima battuta, nella dimensione dell’Io che pensa, il passato spinge l’individuo in avanti, in forza della speranza, e il futuro lo spinge indietro, per paura dell’incerto. L’Io pensante vive una lotta in sé stesso con sé stesso.

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Fig. 2 L’io del tempo storico e biografico

Invece, nella dimensione della vita quotidiana il tempo scorre lineare fra prima, adesso e dopo; sono le azioni che si succedono una dopo l’altra ad incalzare l’individuo in avanti. Pertanto, il tempo della vita ordinaria può essere rappresentato graficamente come una retta della quale si conosce l’inizio e non si traccia la fine come la semplice rappresentazione in Figura 2.

L’individuo, dunque, è il nucleo generatore di energia pura in movimento nello spazio e nel tempo. L’essenza spirituale e fisica dell’individuo generano rappresentazioni del presente in divenire, rispetto al quale agiscono le forze contrapposte del passato e del futuro. Inoltre, se questo infinito di cui parla Hannah Arendt non è il vuoto e non è l’eternità ne consegue che

«Ogni nuova generazione, ogni nuovo essere umano, non appena acquisti coscienza di trovarsi inserito tra un passato e un futuro infiniti, deve riscoprire e tracciare faticosamente ex novo la via del cammino del pensiero» (Arendt, 2017: 305).

Ebbene, questo tempo così complesso, nel momento in cui scrivo, è un luogo-non luogo spazio-temporale condiviso da almeno cinque generazioni; prendendo in prestito il lessico dai più recenti studi sociologici statunitensi, potremmo sintetizzare dicendo che convivono: in parte i nati della greatest generation, i nati della cosiddetta generazione silenziosa, la coorte del baby boomer, la generazione X, i millennials, la generazione iGen dei nativi digitali e la generazione Alpha la prima del Ventunesimo secolo. Si tratta di generazioni che hanno visto cambiare il mondo scrivendo le pagine di appena centoventi anni di storia contemporanea. Il mondo sociale, politico ed economico lo costruiamo nel tempo e attraverso l’interazione e l’integrazione generazionale. Le intersezioni stanno ponendo le basi di un futuro prossimo.

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Fig. 3 L’io della norma

A tal riguardo, mi propongo uno sviluppo personale in chiave antropologica degli assunti sintetizzati tratti da Hannah Arendt. Per prima cosa, nel periodo storico in cui viviamo, il continuum fluire delle azioni e relazioni umane (lineare come in figura 2) è, piuttosto, parcellizzato dall’avvicendarsi dei provvedimenti normativi recanti misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 (vedi DPCM). Ne deriva la rappresentazione di una dimensione azionale che io definirei “tempo normativo”, la cui rappresentazione grafica è scandita da fratture che segnano inizio e fine, anche in sincope e contrattempo, di segmenti temporali adiacenti come in Figura 3.

Il tempo normativo traccia, organizza e regola uno spazio vitale a porosità contingentata da attributi: ho il cane da uscire per la passeggiata, ho un lavoro che richiede attività necessarie e indifferibili, vado a trovare il congiunto, il parente anziano o disabile ha bisogno della relazione d’aiuto, e così procede il coniugare del “posso”, “devo”, “pretendo” … Lo spazio riservato all’Io dell’azione normata è spazialmente rappresentabile come in Figura 4.

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Fig. 4 L’io nell’azione normata

Il sistema dei colori riporta all’attenzione pubblica i confini territoriali regionali, i confini fra il focolare domestico e il fuori, il confine fra attività commerciale in presenza e da asporto, e quindi lo slegamento fra acquisto e consumazione, il disallineamento fra il camminare e il sostare, la misurazione dello spazio prossemico e il distanziamento fisico-sociale… Questa sorta di ossimori azionali determinano nuovi paradigmi nella linea di attuazione e attualizzazione fra il volere e il fare, fra il pensare e il giudicare, fra il diritto alle libertà individuali e il patto sociale che lega le molteplici individualità al senso collettivo dell’appartenenza e della partecipazione.

Nuove categorie sociali riformulano il panorama sociale, economico e culturale. La definizione degli standard di livello in campo politico, economico e sociologico, la necessità di dare risposte concrete ai diversificati stakeholder, nuovi soggetti sociali individuali e collettivi determinati dalla crisi economica in atto e dalla riconversione delle attività produttive del Paese, i modificati dialoghi a livello nazionale, europeo e internazionale stanno ridisegnando mappe di azione sociale impensabili fino a qualche tempo fa.

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Fig. 5 Il tempo della coscienza collettiva

Pertanto, così come dalla rappresentazione grafica del continuum temporale lineare (Figura 2) ho fatto discendere la rappresentazione segmentata dalla norma e dello spazio dell’Io dell’azione normata (Figura 3), similarmente, dal mio punto di vista di antropologa del mondo contemporaneo, lo schema del parallelogramma di forze della Figura 1, relativa esclusivamente all’Io pensante, si può sviluppare nella rappresentazione di quello che io definirei il “tempo della coscienza collettiva”, come rappresentato in Figura 5.

Cosa emerge da questa prima parte della mia trattazione? È il momento di puntare sul presente per disegnare prospettive, cioè senso di profondità storica proiettata in continuo divenire verso l’uso progettato delle tecnologie innovative, la gestione programmata delle scoperte scientifiche e la valorizzazione orientata della ricerca scientifica senza mai perdere di vista la dimensione individuale. Se l’economia di mercato vive un arresto obbligato del meccanismo di domanda e offerta, un’economia mista mette in campo strumenti di sostegno e di supporto incentivanti. Intendo quanto sia complesso declinare al singolare i grandi macro-sistemi politici, sociali, economici e culturali. A fronte di una vision a lunga gettata, non possiamo non prendere atto di una comunità (intesa in senso lato, geograficamente localizzata nella specificità dei territori e dei sistemi politici e culturali prevalentemente occidentali) claudicante, sorda, intontita, disorientata, impreparata. La disaffezione dei singoli cittadini nei confronti del mondo della politica rende fragile il sistema culturale e sociale e ne mette in discussione le modalità e i processi di partecipazione sociale. Eppure, lo stesso Hermann Hesse, nella sua arguta trattazione in La cura, corregge il tiro quando afferma che il suo iniziale sollievo dovuto alla consapevolezza della «comunità del dolore, socios habere malorum» (Hesse, 2015: 16) non è altro che «ottimistica autosuggestione» e non «obiettiva ricerca» (ivi: 20).

Fino a questo punto del mio contributo ho approfondito le questioni per me cogenti ricorrendo alle metafore del tempo e dello spazio prendendone in prestito anche i linguaggi e le rappresentazioni grafiche; adesso introduco una breve digressione ricorrendo alla metafora della musica, a me sempre cara. In La cura di Hermann Hesse troviamo un simpatico quanto mai ironico bozzetto descrittivo di una sala da caffè. Serve il cuore affinché un fil rouge abbia senso:

«Davanti a una sala semideserta il primo violino di un’orchestrina da caffè sonava la Ciaccona  di Bach, e mentr’egli sonava, il mio orecchio captava, simultaneamente, queste impressioni: due giovani signori pagavano la loro consumazione alla cameriera e si facevano contare degli spiccioli sul tavolo; un’energica signora reclamava ad alta voce, in guardaroba, il suo ombrello; un incantevole bambino di circa quattro anni intratteneva tutta una tavolata col suo acuto cinguettio; inoltre erano in movimento bottiglie e bicchieri, tazze e cucchiaini, e una donna anziana dalla vista debole fece cadere oltre l’orlo del tavolo, con suo grande spavento, un piatto di paste. Ciascuno di questi avvenimenti, considerato in se stesso, era un fatto pienamente giustificabile, degno della mia simpatia e della mia attenzione; il mio spirito, però, non era in grado di accogliere contemporaneamente un tale pressante concorso d’impressioni. E la colpa era soltanto della musica, della Ciaccona di Bach: non c’era che lei a disturbare. – No, con tutto il rispetto per i sonatori del Kursal, devo dire che, a mio giudizio, quel concerto mancava della cosa principale: era privo di senso. Che duecento persone si annoino e non sappiano come trascorrere il pomeriggio non è, a mio avviso, un motivo sufficiente perché alcuni bravi musicisti si mettano a sonare degli adattamenti da opere famose. Ciò che mancava a questo concerto era soltanto il cuore, la ragione più intima: cioè la necessità, il vivo bisogno, la tensione di anime che aspettano di essere liberate dall’arte» (Hesse, 2015: 54-55).

Lo sfondo integratore della musica è utile metafora del rumore assordante causato dal dilagare di notizie amplificato dai social e dai moderni mezzi di comunicazione di massa. Il proliferare incessante di notizie, approfondimenti, webinar, seminari, talk show, interviste, reportage ed anche il susseguirsi spasmodico di decreti ministeriali e dipartimentali, circolari e note, linee guida, regolamenti, protocolli d’intesa, pareri tecnici, bollettini statistici, … costituiscono un sottofondo continuo che a tratti prende il sopravvento sul fluire dell’agire individuale e collettivo, reclamando la pole position nell’attenzione dell’opinione pubblica.

Una breve citazione tratta da Haruki Murakami discorrendo con Ozawa Seiji in Assolutamente musica sembra incalzare in contrappunto. Si tratta di un passaggio del breve discorso che Bernstein rivolse al pubblico intervenuto (nel 1962) al Concerto per piano n. 1 di Brahms eseguito da Glenn Gould, Leonard Bernstein e la New York Philarmonic, al fine di spiegare il perché l’interpretazione cui avrebbero assistito sarebbe stata “diciamo poco ortodossa” rispetto alla dilatazione dei tempi indicata negli spartiti dallo stesso Brahms:

«Rimane però l’eterna domanda: chi comanda, in un concerto? Il solista (risa soffocate) o il direttore d’orchestra? (risa più sonore). La risposta, naturalmente, è «ora l’uno, ora l’altro», dipende dalle persone in questione. Ma nella maggior parte dei casi, il solista e il direttore si mettono d’accordo per giungere ad un’interpretazione coerente, ricorrendo ora alla persuasione, ora alla seduzione, ora alle minacce (risate) […] Allora perché, ripeto, ho accettato di dirigere oggi? Perché non provoco un piccolo scandalo, trovando un solista sostituto o lasciando che un mio assistente diriga? Una ragione è che sono affascinato, e sono felice di avere l’opportunità di un nuovo sguardo su quest’opera tanto spesso interpretata» (Murakami, Ozawa, 2019: 20- 21).
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Foto di Concetta Garofalo

Le culture, i paradigmi disciplinari, i quadri epistemologici della ricerca sono ognuna prospettiva con un punto di fuga, sono sguardo e opportunità, sono ognuna unità di misura, modalità e procedure di osservazione, analisi e sintesi. Fuor di metafora e tornando al momento storico che stiamo attraversando, ogni individuo, adottando il suo posizionamento critico e speculativo, osserva la collettività del sistema culturale e sociale di cui egli stesso fa parte e solo in quanto membro di essa. Non credo si tratti di autoreferenzialità, non credo siano possibili livelli di astrazione nel rischio di estrapolare il soggetto osservante dal contesto sociale di cui è elemento di sistema. È come se si stia delineando una forma di osservazione oggettiva soggettivante! Ogni individuo fa parte di una comunità e, purtroppo, nell’attuale panorama storico, non emergono elementi validi a sostanziare una totale adesione al bene condiviso. L’individuo si riconosce solo in parte nella comunità e ritaglia per sé stesso modalità di partecipazione parcellizzata. Ciò gli permette, in un certo senso, di evitare le fasi e le condizioni del confronto e della condivisione costruttiva, sistemica e strutturale.

Non esiste una sola verità quando gli interessi legittimi sono molteplici e multifattoriali. In una società organizzata gli interessi sono formalmente condivisi e contrattualizzati sotto forma di diritti legittimi riconosciuti e ordinamentati all’interno del complesso sistema normativo. Il contesto sociale inasprito dalle disuguaglianze oppone l’Io (espressione di verità-interesse-diritto) all’Altro. Altrimenti, le due istanze dovrebbero coniugarsi nel Noi, inteso come struttura, come soggetto collettivo costituito non già dall’insieme sommativo di oggetti sociali normati o di soggetti passivanti bensì costituito da soggetti sociali partecipanti alla res pubblica.

Cosa comporta tale posizionamento dei soggetti? I DPCM sono norme che cadono dal vertice di una piramide (top-down), ma la performatività della norma va sostanziata da un processo di formalizzazione di interessi legittimi che emergono dalla base della piramide (bottom-up): il diritto alla salute, il diritto alla sicurezza pubblica, il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione, ecc… L’espressione dei bisogni sociali assume le forme delle richieste di prerogative che emergono dall’attuale mappatura degli stakeholder di diversa natura economica, sociale e culturale, anagrafica e generazionale, ecc…

Da quanto su esposto emerge che il dibattito politico, contraddittorio e instabile, svia l’opinione pubblica dalla natura fondante il sistema sociale stesso. La questione è che gli interessi legittimi per quanto tradotti in diritti soggettivi sono pur sempre condizionati dalla copertura finanziaria dei servizi. Se, in un medio periodo di emergenza sanitaria, la gestione programmata delle risorse deve necessariamente bilanciare gli interessi plurimi, allora al criterio della gerarchizzazione verticale, sarebbe da preferire il criterio dell’orizzontalità di un sistema integrato di organizzazione sociale, politica, amministrativa ed economica dei servizi.

È davvero cosa ardua scrivere di fenomeni sociali e culturali in un periodo in così continuo divenire per poi riscoprirsi sempre fermi al punto di partenza. La prima ondata, la seconda, la terza, apri e chiudi, si può fare non si può! Le curve dei contagi impongono prudenza! Fin da subito, nel marzo 2020, mi si è posto il dubbio: dove situarmi? Da quale punto di focus affrontare lo studio antropologico di una pandemia mondiale? Fra i cronisti antropologi dell’estemporaneità, raccontare del divenire in divenire, fermarsi ad osservare nel nome dell’oggettivazione posposta all’azione, avvalersi della prospettiva del dopo? La complessità della questione impone a tutti noi lo sforzo enorme di spogliarsi dei propri panni e calarsi in una dimensione più empatica dal punto di vista relazionale e sociale: le contraddizioni stanno colorando i social e il dibattito pubblico. Mentre il cittadino lamenta di non potersi dedicare ai propri svaghi, le attività commerciali in crisi denunciano la fragilità del sistema economico del Paese, il lutto della perdita di vite umane fa da contrappunto a chi soffre la fame d’aria e ripone le speranze di avere la vita salva in un sistema sanitario che chiede di essere a sua volta sostenuto dalle politiche di gestione delle risorse economiche, umane e tecnologiche. E due parole le spenderei sul mondo della scuola… in un certo senso, proposto come contesto di applicazione esemplificativa di quanto detto finora.

Le parole del COVID-19: chiudere e riaprire le scuole, formazione a distanza, didattica a distanza e legami educativi a distanza, didattica digitale integrata e didattica in presenza, riaprire il dibattito politico, riprendere la riflessione sulla scuola. L’emergenza sanitaria ha definito il Duemilaventi come l’anno della chiusura e della riapertura! Fra una e l’altra, forse, manca la profondità storica!

Dunque! Proverei a cercare un punto zero da cui ripartire: la Scuola italiana trae la sua legittimazione, prima di tutto, dal punto di vista istituzionale e politico, dal testo fondamentale della Costituzione della Repubblica Italiana nei noti artt. 2, 3, 4, 30, 33, 34. In sintesi: nel momento in cui viene a mancare il luogo fisico deputato all’insegnamento e all’apprendimento, come si fa scuola? Come si realizza il progetto educativo e formativo che deriva dalla funzione sociale e culturale affidata al sistema di istruzione e formazione?

A mio avviso, la cosiddetta riflessione sulla scuola non si è mai aperta e conclusa, né tanto meno va riaperta periodicamente. La funzione di un sistema di istruzione è una questione sempre aperta fin dall’atto della sua costituzione; nello svolgimento delle pratiche educative concorrono serie infinite di interventi di ripensamento e definizione delle accezioni: i bisogni educativi di una comunità, le richieste dell’inserimento lavorativo, il rapporto fra scuola e mondo del lavoro, la valorizzazione delle specificità dei territori, la complessa gestione dei rapporti istituzionali fra pubblico e privato, l’ottimizzazione delle risorse umane e materiali, la definizione dei profili, dei ruoli e delle funzioni, la concertazione delle parti sociali, il rapporto fra educazione e formazione, l’inclusione, le processualità fra insegnamento e apprendimento, le implicazioni derivanti dagli stili cognitivi, dagli stili di insegnamento e di apprendimento, i bisogni educativi e i tempi e i ritmi di apprendimento degli alunni e delle alunne, degli studenti e delle studentesse e in relazione ai macro- e ai micro- sistemi  culturali di appartenenza, il sistema delle aspettative personali e sociali, la coniugazione dei progetti di vita, individuali e collettivi, la declinazione degli impianti epistemologici delle discipline di studio, la ricerca scientifica, il pensiero pedagogico fondante la scelta delle metodologie di insegnamento, le tecnologie, i sussidi e i supporti strutturati e non strutturati alle strategie didattiche, le finalità e gli obiettivi, la coniugazione dell’educazione e dell’apprendimento formale e informale, l’uso progettato e programmato delle tecnologie informatiche, la verifica e la valutazione dei percorsi, la definizione degli esiti, la spendibilità dei titoli e delle competenze, la documentabilità, la pubblicizzazione, la disseminazione e la replicabilità delle esperienze, l’interconnessione fra la dimensione nazionale e il confronto e la partecipazione nei più ampi panorami internazionali e mondiali…

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Foto di Concetta Garofalo

Questa non è una semplice elencazione: io la propongo ai lettori come la sintassi del “fare scuola”! E a questo punto della mia trattazione la domanda intenzionalmente provocatoria è: chi può mai pensare che, prima o poi, si addivenga ad una sola, unica e univoca idea di scuola? Se ciò accadesse, il fare scuola ne sarebbe disconosciuto nella sua essenza fondamentale. “Essere scuola” significa agire un processo di interpretazione in itinere storicamente, culturalmente e socialmente fondata e legittimata. La riflessione storica, sociale, economica, politica e culturale è parte integrante dell’accezione di “scuola” e di “sistema di istruzione e formazione” fondate sul confronto in cammino, sul dialogo, sulla partecipazione e sull’apporto quotidiano di tutti i soggetti in campo. Tutti i cittadini di un Paese ne sono protagonisti a vario titolo.

Affinché questo dialogo in continuo divenire fra valori, ideologie e linee di pensiero sia terreno vivo e fertile capace di vivere e realizzare il cambiamento che vi è insito, serve un sistema di gestione, un sistema integrato di azione politica, economica, amministrativa e contabile efficiente ed efficace. Da qui la necessità di una legislazione scolastica specifica che ottemperi la multidimensionalità della scuola competitiva a livello anche mondiale, di un Paese democratico proiettato verso la dimensione europea e internazionale. Il dibattito sulla riapertura delle scuole si è arenato in un errore epistemologico di base: non esiste dentro e fuori della scuola. Affermando che la scuola è sicura dentro e non lo è fuori si corre il rischio di alzare muri, si incorre nell’errore fallace di definire un’azione educativa e formativa segmentata a settori di intervento separati, relegata in uno spazio fisico le cui pareti divengono confini disciplinari di esperienza e crescita slegati fra il contesto scolastico ed extrascolastico. È quanto mai necessario richiamare l’assunto fondamentale della continuità orizzontale fra le agenzie che ruotano attorno al mondo della scuola, e progettare un’azione integrata fra istituzioni, solo apparentemente distanti per competenza d’ufficio. Rimettere la scuola al centro dell’azione politica vuol dire inaugurare una visione di insieme dei percorsi di valorizzazione della competence istituzionale.

Questo mio contributo mi auguro sia utile, più in generale, a dimostrare in che modo l’espressione più efficace di un sistema integrato sia l’approccio interdisciplinare il cui cardine è il rispetto di ruoli e funzioni specifici dei settori di intervento. Il paradigma multivaloriale che ne emerge si basa sulla trasversalità porosa fra l’espressione del giudizio e le modalità del dovere, potere e volere, fra la verità del dire, l’attribuzione di valore nel disporre e l’agentività dell’agire.

Il dibattito resta, per definizione aperto e in divenire:

«quando sorge la disputa, di regola ciascuno crede di avere la verità dalla propria parte: in seguito entrambi diventano dubbiosi: solo alla fine si vedrà e verrà sancita la verità» (Schopenhauer, 1991: 24).
Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021
Riferimenti bibliografici
Arendt H., La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2017
Hesse H., La cura, Adelphi, Milano, 2015
Murakami H., Ozawa S., Assolutamente musica, Einaudi, Torino, 2019
Schopenhauer A., L’arte di ottenere ragione. Esposta in 38 stratagemmi, Adelphi, Milano, 1991

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Concetta Garofalo, laureata sia in Lettere sia in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli Studi di Palermo, studia i molteplici aspetti teorici e pragmatici della agency, i processi e le modalità di interazione fra soggetti, individuali e collettivi, instaurati nel mondo contemporaneo in relazione ai sistemi culturali di appartenenza, in spazi e tempi configurati soprattutto dai contesti urbani e dai contesti di apprendimento e formazione. La sua prospettiva di ricerca interdisciplinare attinge agli ambiti di studio più specifici dell’etnopragmatica e della sociosemiotica.

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