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In fondo al mare: la storia del nuoto nel Regno di Napoli in età moderna

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2021 @ 02:05 In Cultura,Società | No Comments

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Paestum, Museo Archeologico, Tomba del tuffatore, 480-470 circa a. C.

di Maria Sirago

Introduzione

Epoca antica

Il nuoto in epoca antica era una pratica molto importante in ambito militare, come sottolineavano Erodoto e Pausania. Durante la battaglia di Salamina quando una nave greca era affondata i marinai riuscivano a salvarsi raggiungendo a nuoto la costa. Anche in epoca romana Cesare raccontava che durante lo sbarco in Britannia i suoi soldati si erano dovuti tuffare dalle navi e raggiungere la riva per combattere contro la popolazione locale (Maniscalco, 1995; 1999:146-147). Tra il IV ed il V secolo d.C. secondo la testimonianza di Flavio Vegezio (2003, I,10) fu creata una scuola militare in cui si prescriveva l’attività del nuoto nei mesi estivi a tutte le reclute.

Il nuoto, specie quello in apnea, ebbe notevole importanza per i paesi rivieraschi in cui i pescatori ricercavano ostriche, coralli, perle, spugne ma anche oggetti di navi affondate in guerra. Una delle immagini più famose è quella del tuffatore dipinta sulla lastra di chiusura di una tomba conservata nel museo di Paestum, anche se si ipotizza una immagine metaforica del defunto che si tuffa nell’ignoto verso il mondo ultraterreno che sta per raggiungere.

In guerra ci si serviva degli urinatores (simili ai moderni sommozzatori), che si occupavano dell’attività portuaria, sia quella marittima, come il porto di Ostia, sia quella fluviale, lungo il Tevere, dove si svolgeva un intenso commercio, per rimuovere gli ostacoli o recuperare le merci cadute in acqua.  Sono state ritrovate due epigrafi, una ad Ostia ed una a Roma, da cui si evince che gli urinatores avevano avuto il permesso di associarsi in un collegium, creando un loro corpus, costituito insieme ai pescatori (Nardi, 1984-1985; Maniscalco, 1992: 11-20 e 1995).

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Pompei, Casa di Menandro, mosaico con nuotatori e pescatori

Gli antichi romani amavano nuotare, una attività che apprendevano da bambini, come si evince da una poesia didattica di Ovidio, in cui è citato un libro sull’arte del nuoto (Tristia, II: 485). La pratica del nuoto doveva essere insegnata in famiglia: secondo la testimonianza di Plutarco, Catone il vecchio insegnò al figlio a nuotare; e secondo Svetonio lo stesso fece Augusto coi nipoti (Maniscalco, 1999: 149). Il Tevere, secondo molte fonti, era una vera e propria palestra per i nuotatori. Molte erano le gare di nuoto durante alcune festività, ma non si sviluppò mai un nuoto agonistico. Due rappresentazioni di nuoto sono conservate nei mosaici in bianco e nero di Ostia antica che adornano le Terme di Nettuno, costruite dall’Imperatore Adriano e Antonino Pio nel 139 d.C. e in quelle, datate tra il I e gli inizi del II sec. d.C., della corporazione dei Cisiarii.

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Ostia antica, terme, mosaico principale, scena marina con nuotatori

Il nuoto, come gli altri sport, era salutare per il fisico e rientrava nell’istruzione e nella formazione personale dei giovani e delle giovinette, come si evince dai mosaici della Villa del Casale di Piazza Armerina, dove sono raffigurate diverse attività sportive praticate dalle fanciulle, di solito alle terme, dove indossavano dei “costumi” antesignani degli odierni “bikini”.

I romani nuotavano nel mare, nei fiumi e nelle piscine delle terme pubbliche e private per lo più a stile libero, ma anche “a rana”, “di fianco” e sul dorso. Per i principianti si utilizzava il prototipo del nostro salvagente, di corteccia di sughero, galleggiante, o con una specie di cintura di giunchi intrecciati o con degli otri rigonfi di aria (Maniscalco, 1999: 150; Venditti, 2006).

 Il Medioevo

Dopo la caduta di Roma l’acqua a poco a poco perse il suo fascino lungi dall’essere ritenuta “chiara, limpida, preziosa, desiderabile”, i suoi effetti cominciarono a venir considerati dannosi per la salute e la sua influenza diabolica piuttosto che divina, terreno di coltura di ratti, fonte di pestilenze e malattie. Con l’avvento del Cristianesimo l’Occidente cominciò a perdere il suo interesse per il nuoto, anche perché la Chiesa popolò il mare di mostri immaginari e fantastici. L’antica civiltà marittima si trasformò in una civiltà dedita alla terra, mentre la civiltà islamica occupava il Mediterraneo, conservando le tradizioni della civiltà ellenistica, di cui era erede, soprattutto quelle dei bagni.

Verso l’anno Mille Costantino l’Arabo e il monaco benedettino Alfano, abate di Cava, diedero vita alla Scuola Medica Salernitana (Gallo, 2008) dove venne ripreso l’uso della balneoterapia, praticata per curare alcune malattie, come si evince nel De balneis puteolanis (Maddalo), un trattato scritto probabilmente da Pietro da Eboli, che ricordava le proprietà medicamentose delle acque termali di Pozzuoli, l’antica Puteoli, conosciute fin dall’epoca romana. Nella poesia 16 si fa esplicito riferimento ai «Balnea que corpora putrida sanant» (i bagni che risanano i corpi infetti). Anche Federico II nel 1227, mentre era ad Otranto in procinto di partire per la Terra Santa, ammalatosi a causa di una epidemia, dové differire la partenza, il che gli procurò la scomunica da parte del papa, che non credeva alla sua malattia. Comunque l’imperatore decise di recarsi ai “Balnea Puteoli et Baiarum” per potersi curare, come facevano numerosi personaggi di rilievo (Maddalo, 2003: 5). Questo uso si è mantenuto nei secoli, specie nella zona flegrea, di natura vulcanica, e nell’isola d’Ischia, specie quando si sono fatti studi medico-scientifici su tale sistema di cura (Zuccolin, 2005).

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Pietro da Eboli, il Balneum Sudatorium, cioè le stufe di Agnano (XIII secolo), Roma, Biblioteca Angelica, Codice Angelico ms. 1474 (in Aa. Vv., Le Terme Puteolane e Salerno nei codici miniati di Pietro da Eboli, F. Fiorentino, Napoli, 1995)

Primi manuali in età moderna

Un primo cambiamento si ebbe durante il Rinascimento quando gli educatori riformularono i loro princìpi sulla base dell’antico detto latino mens sana in corpore sano. Discorsi pedagogici e programmi educativi sottolineavano l’importanza degli esercizi fisici per uno sviluppo completo della mente e della personalità. Gli umanisti, nel loro intento di ricostruire l’epoca classica, raccomandavano di prestare attenzione ad ogni esercizio fisico (Moreno Murcia, 2009). Tra queste attività anche per il nuoto, come ha sottolineato Arnd Krüger (1984), si è avuto un cambio di attitudine, che ha portato alla compilazione dei primi manuali.  

Nel 1538 Nikolaus Wynmann, un professore di lingue tedesche a Ingolstadt e poi a Tübingen, pubblicò il primo libro sul nuoto dal titolo Colymbetes sive de arte natandi dialogus (Moreno Murcia, 2009). Il suo scopo non era quello di rendere popolare la pratica del nuoto, ma di ridurre le perdite umane dovute all’annegamento. Nel trattato, sotto forma di dialogo tra maestro (Pampirius) e scolaro (Erotes), Wynman descriveva gli stili del dorso, della rana, e dello stile libero e dava notizie di alcuni strumenti utili al galleggiamento, come vesciche animali piene d’aria, fasci di canne di fiume e cinture di sughero. Egli raccomandava non solo ai ragazzi ma anche alle fanciulle di apprendere la tecnica del nuoto, considerata un’arte da Pampirio, poiché permetteva di emergere facilmente dalle onde quando incombeva un pericolo («ut incidente periculo ex undis facilius emergas»: 11). 

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Nikolaus Wynmann, Colymbetes sive de arte natandi dialogus, 1538

Il secondo manuale sul nuoto è stato scritto dal teologo e accademico inglese Everard Digby, espulso dal St. John’s College di Cambridge per motivi religiosi nel 1587, lo stesso anno in cui fu pubblicato il suo trattato sul nuoto, De arte natandi. Il libro, scritto in latino, era diviso in due parti: la prima era prevalentemente teorica, la seconda era una dimostrazione pratica illustrata da una serie di 40 bellissime xilografie composte da cinque blocchi paesaggistici con figure di nuotatori in varie posizioni che mostravano le diverse tecniche di nuoto, dallo stile libero al dorso. L’autore dichiarava che l’essere umano poteva nuotare meglio di un pesce se addestrato nel modo più adatto (Krüger, 2007). Egli dava conto dei metodi più sicuri per entrare nei fiumi, avvertendo di non saltare prima con i piedi (in particolare se l’acqua ha un fondo fangoso a cui i piedi si attaccherebbero) e consigliando un ingresso lento e paziente. Consigliava inoltre ai nuotatori di avere con sé un compagno, per essere aiutato in caso di difficoltà e dava notizie sui diversi tipi di acqua in cui è possibile nuotare, sconsigliando di nuotare in stagni torbidi (in cui gli animali potevano essere stati lavati). Otto anni dopo la pubblicazione il poeta inglese Christopher Middleton lo tradusse in inglese per renderlo accessibile al vasto pubblico, strutturando il libro come un manuale di nuoto completo di disegni e descrizioni dettagliate degli stili.

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Everard Digby, De arte natandi, 1587

Il poeta Edmund Spenser nel libro V di The Faërie Queene (“La regina delle fate”) ha descritto un curioso combattimento tra Artegall e Pollente, che si precipitano nel fiume da un ponte trappola, dove Pollente, «che ben conosceva quell’uso / Per combattere nell’acqua, ebbe grande vantaggio» (v. II,13. 5-6). Michael West, nell’analizzare questo passo, ha sottolineato l’influenza dell’opera coeva di Digby, da lui conosciuto, in cui si dava ampio spazio alla pratica natatoria nei fiumi, una pratica utile anche in caso di combattimento, prescritta dagli scrittori del Rinascimento, come Baldassarre Castiglione ne Il Cortigiano, come metodo di educazione per i giovani gentiluomini (West, 1973:12).

Un altro interessante manuale è quello del francese Melchisédech Thévenot, scienziato, viaggiatore, cartografo, inventore e diplomatico, membro del gruppo Gassendi Montmor, la cosiddetta “Accademia Montmor”, membro dell’Accademia delle Scienze dal 1685 (Dew, 2006: 42ss). Il suo trattato, L’art de nager (“L’ Arte del Nuoto”), pubblicato nel 1696, quattro anni dopo la morte, è molto dettagliato nel descrivere la tecnica del nuoto, specie quello a rana. Il libro, tradotto in inglese tre anni dopo, è diventato il testo base per il nuoto nei secoli seguenti. Nella prefazione egli specifica che l’opera è dedicata soprattutto a quelli che per mestiere devono navigare, marinai e battellieri, ma anche a quelli del popolo minuto che praticano tale attività per semplice divertimento. «La pratica del nuoto è comunque legata all’Arte della Navigazione, … il più grande sforzo dell’umanità, in cui la conoscenza dei venti e della bussola possono evitare i naufragi, per cui i marinai devono apprenderla, anche se è utile in molti frangenti, anche per i viaggiatori che affrontano lunghe traversate». Ricorda anche l’attenzione data dagli antichi, che avevano creato la corporazione degli urinatores. La prima parte, molto interessante, di circa 110 pagine, è la «dissertation sur les bains des Orientaux» che tratta i diversi modi dei popoli antichi di approcciarsi all’acqua, dai pescatori di perle ai bagni termali. Per l’autore l’arte del nuoto è dapprima l’arte di bagnarsi, in una concezione igienica e terapeutica, che unisce i benefici del bagno e quelli dell’esercizio fisico. Nella seconda parte, di circa 60 pagine, egli descrive i diversi modi di nuotare, sul dorso, sul ventre, le tecniche per girarsi, per nuotare come un cane, o con le gambe all’aria per trasportare un oggetto all’asciutto. Egli dà anche consigli pratici, come immergersi in acqua e vincere la sensazione di freddo, come fare per non inghiottire l’acqua, se si ha un crampo, si deve nuotare tenendo il piede in mano, ecc. Se ci si bagna nei fiumi o laghi bisogna fare attenzione alle sterpaglie che nascono nel fondo. Il libro è corredato da 22 disegni che illustrano i differenti modi di nuotare descritti nel testo. Ma non si trovano esercizi per migliorare i vari stili, poiché il nuoto non è ancora diventato un esercizio ginnico, come sarà nei secoli seguenti. L’opera è in effetti un repertorio di pratiche di nuoto utili per le discipline militari, l’igiene, la sicurezza, la salute, il gioco, ma non è ancora la pratica del nuoto come la si intende oggi. Nella terza parte egli dà conto dei diversi modi per aiutarsi nel nuoto, con diversi artifici, come abiti particolari che possono servire da giubbotti di salvataggio, soprattutto quando il mare è in tempesta.

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Melchisédech Thévenot, L’art de nager, 1696

Lo sviluppo del nuoto professionale nella Napoli borbonica: ufficiali e pilotini delle scuole nautiche.

Fin dal suo arrivo Carlo di Borbone decise di creare una Accademia di Marina, fondata nel 1735 sul tipo di quelle spagnole per istruire gli ufficiali che dovevano navigare con la nuova flotta in costruzione. Poi nel 1770 furono fondate le Scuole nautiche a Napoli e Sorrento (Meta e Carotto) nate dal dibattito illuministico che dava grande attenzione all’istruzione del popolo e aveva promosso la creazione di “scuole per il lavoro” (su modello degli Istituti professionali). L’Accademia di Marina e le Scuole nautiche erano basate sulle nuove conoscenze tecniche, necessarie per istruire gli ufficiali e i pilotini che cominciavano ad intraprendere lunghi viaggi oceanici. Uno dei problemi da risolvere era quello della poca pratica del nuoto, per il quale si prescrisse un insegnamento ad hoc sia per gli ufficiali che per i pilotini (Sirago, 2019).

Dagli anni Ottanta il sacerdote pugliese Oronzo de Bernardi, canonico della Cattedrale di Terlizzi, aveva fatto degli studi sul galleggiamento, mentre nuotava in mare, e ha pubblicato un libro sull’“arte di nuotare”, L’uomo galleggiante, dedicato a Re Ferdinando, valente nuotatore (Caldora, 1965), in cui riportava notizie sugli esperimenti fatti, trascrivendo in esso una prima relazione del 29 ottobre 1792 indirizzata a John Acton, “Ministro e Direttore della Real Marina” (de Bernardi, 1794, II: 55-58). Il sacerdote, costretto per motivi di salute, a praticare la balneoterapia, aveva cominciato ad interessarsi del nuoto, sottolineando che la numerosa popolazione marinara del Regno aveva poca pratica di questa “arte”, pur necessaria.

Egli descriveva gli esperimenti da lui fatti nelle acque di Mergellina sotto gli occhi di un numeroso pubblico con alunni dell’Accademia di Marina istruiti da un maestro di nuoto, vestiti con un adeguato «abito di leggiera tela». Aveva anche disegnato una «Pianta per il bagno per la scuola di nuoto» che si sarebbe dovuto costruire per l’Accademia, una sorta di piscina per le esercitazioni pratiche degli alunni da costruirsi «al lido del mare, tutto chiuso, fornito di camerini» (de Bernardi, 1794, II: 28-32). Il bagno non fu costruito ma la pratica del nuoto venne inserita tra le attività dell’Accademia

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Oronzo De Bernardi, L’uomo galleggiante, 1794, Pianta per il bagno della Scuola di nuoto

Anche nel regolamento del Collegio dei Pilotini di San Giuseppe a Chiaia di Napoli e delle scuole nautiche di Piano e Meta di Sorrento, compilato nel 1770, si prescriveva che vi fossero tre marinai che dovevano istruire gli alunni al maneggio delle vele e dei remi ma dovevano anche addestrare gli alunni nel nuoto (Sirago, 2019). Ai primi dell’Ottocento, dopo la fine della Repubblica Partenopea e il ritorno del Re a Napoli, l’avvocato fiscale David Winspeare (Rizzo, 2004) fu   nominato intendente generale dell’Azienda di Educazione: nel febbraio del 1803 visitò il Collegio di San Giuseppe, trovandolo in una situazione critica. In contrasto col soprintendente Pignatelli, aveva proposto una riforma capillare di tutto il complesso, visto che quello della Cocumella, a Piano, era stato abolito. Egli ricordava che dal collegio erano usciti ottimi marinai, istruiti dall’attuale maestro di nautica Luca Lamonea, ormai settantenne, a cui si concedeva «un Aiutante nel di lui figlio Don Giuseppe, di ugual merito». Egli non era d’accordo sull’«abolizione dell’arte di pescare», ritenuta troppo dispendiosa, limitando le esercitazioni al nuoto e al «maneggio de’ remi» con la barca del Collegio e sull’arte di falegname di mare, che si poteva esercitare nella Darsena (Sirago, 2020).

Altre riforme furono effettuate da Gioacchino Murat che nel 1809 pose a capo della “Direzione Generale dell’Istruzione Pubblica” il salernitano Matteo Angelo Galdi. Egli stilò un “Piano” sulla riorganizzazione delle scuole nautiche di Meta e Carotto, a Sorrento, riaperte in epoca francese, frequentate nel 1809 da 374 alunni, nel quale proponeva di dare un taglio tecnico più specifico. Il suo “Piano” era basato sulla organizzazione dell’Istituto Marittimo di Amsterdam diretto dal valente geometra Van Swinden, in cui i giovinetti dai dieci anni studiavano le matematiche con profitto. Perciò suggeriva di far scrivere un corso elementare da due geometri della Reale Accademia di Marina; nel frattempo consigliava di usare i testi di Vito Caravelli, adottati nell’Accademia di Marina, pur riconoscendo che erano di difficile comprensione. Raccomandava per gli alunni delle esercitazioni pratiche, il nuoto, le evoluzioni militari, il tiro al bersaglio, il maneggio delle vele, il «montar sulle antenne» e fare costanti visite ai cantieri navali per apprendere l’arte delle costruzioni. Da ultimo ribadiva la necessità di una esercitazione pratica sulle navi regie e mercantili, come si era fatto in passato «ond’esser pronti ad ogni circostanza di dominare … con vantaggio sull’elemento che divenir [doveva] la loro abitazione ordinaria». Tale “piano” fu poi applicato anche nella Scuola nautica napoletana dei pilotini (Sirago, 2009).

Pescatori – sommozzatori

I napoletani erano abili pescatori di conchiglie raccolte sul fondo del mare in apnea o con rastrelli. Nel 1632 Jean Jaques Bouchard, venuto a Napoli probabilmente come spia, aveva descritto i pescatori di Chiaia che si immergevano in mare in cerca di conchiglie (vongole, ecc.) e cannolicchi per circa cinque-sei ore e poi stremati dal freddo, con la «chair toute retirèe, mollifié» (la pelle tutta raggrinzita) si gettavano nella sabbia bollente, quasi seppellendosi, simili agli indiani dipinti nei libri del nuovo mondo (Bouchard, 1976, II: 413). Ancora nel 1853 Carlo Dalbono raccontava che  i pescatori di Chiaia, Santa Lucia e Posillipo erano celebri per la loro abilità: in particolare quelli di santa Lucia venivano chiamati sommozzatori perché avevano la «ereditaria celebrità per pescare sott’acqua e tuffarsi tutti col capo in giù, sia per tutelare o visitare la falla di un bastimento, sia per isbarazzare l’ancora ed accelerar l’uscita di una nave… [essi si trasmettevano] questa virtù di padre in figlio, e fino alla più tarda vecchiezza nel colmo del rigore invernale [traevano]  sostentamento di cosiffatte fatiche [che li rendevano] sfigurati dalla vampa del sole, nelle carni grinze e violacee, negli occhi cisposi e quasi lagrimanti» a causa del sale (Dalbono, 1977: 37-38).

I pescatori si erano riuniti nella Confraternita di Santa Caterina dei vongolari (cioè dei frutti di mare) fondata nei quartieri Porto e a San Giovanni a Teduccio, che aveva ottenuto il Regio Assenso nel 1661, regolandone l’attività in ogni particolare. Dalle regole si evince una pratica collettiva della pesca i cui addetti, i vongolari, applicavano le regole del mestiere, impegnandosi nella conservazione della risorsa, nella tutela dell’interesse condiviso a rispettare il prezzo di mercato rispettando le “quote di produzione” stabilite quotidianamente dagli amministratori. Ma dalla fine del XVIII secolo spesso sorgevano contenziosi con i pescatori di Chiaia, esclusi dalla Confraternita, che rivendicavano la libertà dei mari e di industria, ostacolati dalle regole. Finalmente nel 1824 i chiaiesi ottennero una risposta positiva perché re Ferdinando stabilì che i divieti di pesca al di fuori dell’appartenenza della Corporazione fossero aboliti. Un anno dopo le stesse corporazioni di mestiere furono abolite, per cui nel 1831 fu emanato un regolamento «per la pesca delle vongole ed altre conchiglie nello spazio di mare compreso tra San Giovanni a Teduccio e la punta di Posillipo», riconfermato nel 1847, e per il controllo delle attività dei pescatori fu creato un corpo di “guardiamari” (Clemente, 2010: 408-409). Ma a fine Ottocento, dopo la riorganizzazione urbanistica del Risanamento, l’antico quartiere dei pescatori luciani è stato trasformato in un quartiere borghese, per cui questo mondo variopinto è sparito (Armiero, 2004).  

Sommozzatori

Il termine sommozzatóre deriva dal napoletano sommozzare «spingersi verso il fondo marino per pescare, tuffarsi nell’acqua» (in uso fin dalla fine del Quattrocento), che si fa risalire a un supposto latino parlato subputeare «immergersi in un pozzo» (composto di sub «sotto» e puteus «pozzo») (treccani.it), il che testimonia l’antica attività dei pescatori napoletani di immergersi in apnea.

10

Leonardo da Vinci, Codice Atlantico (fol. 24v.)

Fin dall’epoca antica vi era questo uso di immergersi non solo per pescare ma anche per riparare le navi o disincastrarle dai bassi fondali, una attività praticata a Roma in età imperiale dalla corporazione dei piscatores e urinatores. In epoca umanistica, con la ripresa degli studi classici, si cominciò a studiare anche questo settore. Leonardo da Vinci tra i suoi appunti ha lasciato dettagliati disegni di un boccaglio respiratore da lui inventato, riportato nel Codex Arundel, f. 24v. Nel Codice Atlantico (fol. 24v.)  sono riportati i disegni di alcune valvole per la respirazione subacquea. Non si ha notizia di eventuali applicazioni ma i disegni mostrano che l’argomento era di interesse comune. Bisogna però attendere il XIX secolo per avere una concreta applicazione. Nel 1838 i fratelli Møller, danesi, ottennero un brevetto per un apparato di pompaggio dell’aria per far respirare un sommozzatore dotato di una muta di cuoio. Lo stesso anno il dottor Manuel Théodore Guillaumet di Argentan, francese, ottenne un brevetto per un dispositivo di erogazione dell’aria per la respirazione subacquea. Da quel momento gli studi si sono moltiplicati permettendo agli uomini di penetrare i segreti del mare (Marchis, 2020).

Nuoto per diletto

Festa di San Giovanni tra Cinquecento e Seicento

La festa che si svolgeva nella Chiesa di San Giovanni a Mare, baliaggio dell’Ordine Gerosolimitano fondata in epoca angioina, nei pressi del Porto (odierna via Marina), era una delle feste cittadine più importanti insieme a quella di San Gennaro, ed era organizzata a spese di artigiani e mercanti che facevano a gara per mostrare il loro potere economico. Dalla seconda metà del Cinquecento si stabilì un preciso rituale: la festa iniziava con la cavalcata del viceré, preceduto dall’Eletto del Popolo, suo anfitrione, che iniziava a partire dall’attuale piazza Municipio e si concludeva alla chiesa di San Giovanni; poi a sera il viceré ripercorreva il percorso a ritroso e, arrivato a palazzo, assisteva ad uno spettacolo pirotecnico allestito sulle galere alla fonda nel porto.

La festa religiosa rappresentava il battesimo nel mare in ricordo di San Giovanni Battista, con un bagno in mare purificatore; ma in realtà man mano si era trasformata, con i suoi sontuosi apparati, nella glorificazione dei viceré mentre l’elemento battesimale veniva ridimensionato, anche perché era indecoroso che uomini e donne, sia pure di notte, si gettassero in mare nudi. La cavalcata del viceré e dall’eletto del popolo metteva in scena una unione simbolica tra gli aristocratici e i popolani e conteneva elementi sia religiosi che pagani, dove il mare era protagonista: si costruiva una scenografia barocca di cartapesta di ambientazione  “marina” con tritoni e sirene, ci si “ribattezzava” nel mare dove i ragazzi si esibivano in spettacolari evoluzioni “sommozzando” in apnea, si allestivano sontuose tavolate ricche  di prelibatezze ittiche e si organizzavano balli tipici. La cavalcata era seguita dagli abitanti del seggio di Porto e degli altri seggi e, secondo la testimonianza di Capaccio, vi partecipavano circa 65 mila popolani. Venne celebrata fino a fine Seicento, poi si preferì quella della Madonna di Piedigrotta, il 7 settembre (Marino, 2008: 203ss.; Sirago, 2021, cap. I).

Le feste di Michele Imperiali, principe di Francavilla

Anche i nobili organizzavano feste marine per gareggiare con gli sfarzosi apparati reali. Uno degli anfitrioni dei viaggiatori non solo inglesi era l’ambasciatore inglese William Hamilton, un giovane trentaquattrenne venuto a Napoli nel 1753 dove rimase fino al 1798, quando seguì il Re a Palermo, fuggito lì prima dell’arrivo dei francesi e della proclamazione della Repubblica Partenopea (Knight, 2003). Quando Giacomo Casanova giunse a Napoli, nel 1770, si pose sotto la protezione di Hamilton che una volta lo accompagnò al palazzo del principe di Francavilla Michele Imperiali alla riviera di Chiaia, di fronte al Castel dell’Ovo (oggi rettorato dell’Università Federico II) per partecipare ad una sontuosa festa. La villa era dotata, sul lato verso il castello, di un moletto per l’attracco delle imbarcazioni e di una terrazza affacciata sul mare. In questa villa il principe allestiva feste marine, descritte dal libertino veneziano con notevole meraviglia: giovani adolescenti di entrambi i sessi si esibivano nel prospiciente specchio di mare in evoluzioni natatorie, sommozzando in apnea, vestiti di lievi abiti, simili a tritoni e sirene (Croce 1914: 200ss.). Per gli ospiti egli faceva allestire dal suo capo cuoco Vincenzo Corrado sontuosi banchetti a base di prodotti ittici, trionfi di ostriche e frutti di mare, costruiti con particolari accorgimenti architettonici in modo da formare una raffinata scenografia, che si rifaceva a quella disegnata dai giovinetti e dalle giovinette (Sirago, 2018°: 122-123).

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La festa della ‘Nzegna, riproposizione moderna

La festa della ‘nzegna: l’iniziazione al nuoto

Santa Lucia era un antico quartiere abitato da marinai e pescatori, detti “luciani”, dove si allestivano ricche esposizioni di frutti di mare da gustare crudi, ricordati dai viaggiatori del Grand Tour e poi dai viaggiatori borghesi dell’Ottocento. Leandro de Moratin nel suo Diario” di viaggio di fine Settecento ricorda che i fanciulli si esibivano davanti agli stranieri in evoluzioni marine per un misero obolo (De Moratin 1998: 47ss.), una abitudine mantenuta almeno fino alla prima metà del Novecento, innata nei piccoli luciani.

Una festa tipicamente borbonica è quella della Nzegna, inaugurata da re Ferdinando, valente nuotatore, ancora presente nella tradizione orale, abolita a metà Novecento. Re Ferdinando fin da piccolo aveva manifestato   predilezione per la pesca insieme alla caccia. Perciò aveva fatto venire da Lipari una quarantina di esperti marinai che aveva sistemato a Portici, dove aveva fatto costruire un quartiere per loro e le loro famiglie, con un porticciolo al Granatello e delle galeottiglie reali con cui si dilettava in questo spasso: tutto ciò era raccontato dal ministro Bernardo Tanucci nel suo epistolario con Carlo, un po’ contrariato per questa “amicizia” con i popolani, che inducevano il re a cattive abitudini, un po’ grossolane. Il ministro raccontava che il re aveva rapporti di amicizia anche con i luciani, i marinai e pescatori di Santa Lucia, da lui considerati i migliori, da cui aveva appreso non solo a pescare ma anche a nuotare (Sirago, 2018b), attività fisica che esercitava in estate uscendo da una porta secondaria del palazzo reale da cui poteva raggiungere la spiaggia del Molosiglio, come raccontava nel suo Diario (Caldora, 1965).

L’ultima domenica di agosto veniva allestita una fantasmagorica festa nel rione dei luciani in onore della Madonna della Catena, un anticipo di Piedigrotta, la ‘Nzegna, dal verbo napoletano ingignare, cioè inaugurare. La festa era aperta dal corteo reale, con la carrozza del re e della regina e le altre dei nobili, che si dirigevano alla spiaggia, attorniati dai popolani che ingignavano (inauguravano) vestiti nuovi e tra musiche, canti e danze arrivavano alla riva dove si gettavano a mare. Era una festa religiosa, come quella di Piedigrotta, ma conservava tutti i tratti pagani. Re Ferdinando, «O’ maste ‘e fest» (il capo della festa), dopo la sua morte fu sostituito da un popolano che in abiti regali insieme ad una regina dava inizio alla festa. Luigi Coppola nel 1853 raccontava che «I Luciani, tutti vestiti come si trovavano, senza nemmeno gettar via il berretto, corr[eva]no alla riva e senza pensarci sopra saltavano a mare!». Altri invece salivano con le loro donne sulle barchette per gustarsi meglio lo spettacolo ed altri invece vi assistevano seduti ai tavoli imbanditi dai “tavernari” (Coppola, 1977).

 Il «paese dei luciani», una zona popolare frequentata dai grandturisti che la descrivevano con entusiasmo, era ogni giorno un tripudio di bancarelle di venditori di ostriche, ricci e frutti di mare, di solito gustati crudi, di venditrici di polipi lessi e di altre prelibatezze ittiche, cucinate anche nelle numerose trattorie aperte nel corso del Settecento (Sirago, 2018a), ancora in attività ai primi del Novecento, secondo la testimonianza di Ferdinando Russo (Russo, 2013: 16), come la trattoria Zi Teresa, fondata nel 1860, trasformatasi in un ristorante di lusso insieme a quelle del Borgo Marinaro.

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Vue du Golphe de Naples prise du Palais de Don Anna a Posilipo, acquaforte di Étienne Giraud (1771), Villa Emma, (Valerio, 2003)

Lo sviluppo della balneazione e della pratica del nuoto a Napoli tra Ottocento e Novecento

La civiltà balneare si è diffusa in Italia nel corso del Settecento, quando gli stranieri compivano il loro Grand Tour: durante il loro viaggio diffondevano questa abitudine già in voga in Francia e Inghilterra, dove erano sorte le città termali di Vichy e Bath ed erano riprese le antiche cure ippocratiche basate sulla balneoterapia. Nel Regno di Napoli l’ambasciatore inglese Hamilton cominciò a praticare il nuoto nel mare di Posillipo, dove trascorreva l’estate nella Villa Emma, una villa di delizie, in cui spesso arrivava re Ferdinando per omaggiare la bella Emma Hamilton (Knight, 2003: 96ss.).

Hamilton aveva imparato a nuotare dai figli dei pescatori posillipini che lo accompagnavano nelle sue evoluzioni natatorie che gli arrecavano grande diletto. In una lettera al nipote Charles scriveva: «ogni mattina sguazzo voluttuosamente nel mare ed alla sera ceno nel Casino di Posillipo» (Donatone, 2000: 103). Anche re Ferdinando praticava questa attività, imparata sia dai marinai liparoti, con cui pescava, sia dai luciani, esperti di tale arte, una amicizia stigmatizzata dal Tanucci (Sirago, 2018b).

Dai primi dell’Ottocento anche la dame inglesi e francesi cominciarono a bagnarsi e a nuotare. La regina Carolina, moglie di Gioacchino Murat, che amava bagnarsi e compiere evoluzioni natatorie, aveva fatto costruire un “bagno” per suo diletto, dotato di un camerino nel giardino della reggia di Portici, da lei molto amata. In un primo momento si era pensato che il bagno fosse stato commissionato da Ferdinando che nel 1774 aveva fatto costruire il porto del Granatello (Portici) e le peschiere reali presso la villa d’Elbeuf, edificata ai primi del Settecento come villa di delizie, poi inglobata da Carlo di Borbone nella tenuta della reggia.

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Portici, Il Granatello e la Villa d’Elbeuf

Massimo Visone, che ha riesaminato la questione, ha stabilito che i lavori del “Bagno della regina”, un edificio in stile neoclassico prospiciente le acque del Granatello, iniziarono il 4 maggio del 1813 e terminarono il 17 dicembre dello stesso anno. Il bagno era composto di un vestibolo principale da cui si entrava nella stanza che dava accesso al bagno, dipinto con motivi marini, un edificio ora in stato di grave degrado (Visone, 2008).

A Napoli dalla fine del Settecento la balneazione era diffusa come pratica terapeutica, una pratica studiata dal dottor Richard Russel in Inghilterra (Michelet, 2021:195ss.). A Posillipo esisteva un “bagno”, una specie di cabina, usata per i bagni terapeutici e anche al ponte della Maddalena esistevano dei “camerini”.

In epoca murattiana l’attività della balneazione venne regolamentata per coloro che chiedevano di costruire “camerini”. Dai primi dell’Ottocento la moda dei bagni si diffuse anche a Napoli per cui si impiantarono dei bagni, usati non solo per la balneoterapia ma soprattutto per diletto, lungo la fascia litoranea, dal Ponte della Maddalena a Palazzo Donn’Anna (Posillipo): però il nuovo mestiere dei “bagniaiuoli” suscitava le proteste dei pescatori, che non potevano più stendere le reti, e delle loro mogli, dedite alla riparazioni delle reti e al lavaggio della biancheria.

Presso il Castel dell’Ovo erano stati costruiti dei bagni sia per il termalismo (con acque sulfuree che sgorgavano dal sottosuolo) sia per i bagni di mare. All’inizio di Santa Lucia, presso il Castel dell’Ovo, era stato costruito il “casino di Sua Maestà”, fornito di «vasche comodissime per i bagni». Da Santa Lucia verso Castel dell’Ovo cominciava il quartiere elegante di Chiaia, con il passeggio della “Villa Reale” (attuale Villa Comunale), presso l’odierna piazza Vittoria, dove furono costruiti molti alberghi di lusso. Tra i “bagni” i più lussuosi erano quelli allo “sbarcatoio della Vittoria”, dove era stato costruito un albergo, Il Vittoria, considerato da Alexander Dumas, venuto in città nel 1835, il migliore. Dopo la costruzione della strada di Posillipo, iniziata nel 1811, vennero costruiti altri bagni eleganti e in estate vennero fittate le case “per la villeggiatura”.

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Plan coupé et elevation du Casin progetté pour les Bains de Mer, de S.M. la Reine des deux Silies dans le Mole de Portici, 1812-1813 ca., Napoli, Biblioteca Nazionale (Visone, fig. 9).

In quel periodo la pratica della balneazione si era notevolmente diffusa, per cui nel 1832 fu emanata una “Ordinanza sui bagni di Mare” con le norme per la costruzione dei camerini, il prezzo da pagare per ognuno di essi, l’obbligo di fare il bagno solo negli stabilimenti che dovevano disporre di una barca di salvataggio «con gente capace di nuotare». Si poteva nuotare dal ponte della Maddalena a Mergellina “con i mutandoni” ma non si poteva entrare nei camerini: era proibito fare il bagno nudi, cosa che facevano regolarmente gli “scugnizzi”, così vennero allestite bancarelle in cui si vendevano i “mutandoni”. Tutti i contravventori erano puniti dalla polizia, che vigilava sugli stabilimenti.

Questo trend favorevole continuò nel secondo Ottocento, anche se Napoli dopo l’Unità aveva perso il suo status di capitale. Gli alberghi divennero sempre più numerosi ed eleganti, come l’Hotel Grand Bretagne, il Bristol, il Britannique, l’Hotel des Londres, citati dalla Guida Beadeker, che consigliava tra i bagni più a la page quelli costruiti presso la Villa Reale. I bagni eleganti erano popolati al mattino dalle dame che si facevano ammirare nei loro deliziosi costumini; le cabine venivano dotate di una botola sul fondale per immergersi e cominciava a diffondersi la pratica del nuoto, anche tra le fanciulle. Ma di sera si trasformavano in luoghi di ritrovo, con allestimento di spettacoli musicali e teatrali sulle rotonde e dai primi del Novecento anche in “sale cinematografiche”.

A fine Ottocento “sulle antiche sorgenti lucullane” venne edificato il “Premiato Stabilimento Balneare Chiatamone Manzi”, uno stabilimento di lusso, fornito di «grandi vasche da nuoto» per bagni minerali e marini, continuamente reclamizzati da Matilde Serao, che si firmava “Gibus” (“Il Mattino”, 1-2 luglio 1892 e 12-13 agosto 1899). Nello stabilimento aperto nel 1882, si praticava sia il termalismo che la balneazione marina (odierno Grand Hotel Vesuvio). Un altro elegante stabilimento era l’“Eldorado”, costruito a Santa Lucia dall’imprenditore Gabriele Valenzano, dotato di ogni comfort, sulla cui terrazza si esibivano di sera le più importanti compagnie teatrali. A Posillipo vennero costruiti altri stabilimenti di lusso tra cui quello di “Villa Quercia”, nella spiaggia di Palazzo Donn’Anna, ribattezzato “Bagno Elena” in onore della futura regina (Sirago, 2013: 37ss.).

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Napoli, Posillipo, Bagno Elena, fine Ottocento

Anche nelle ridenti città di loisir del golfo partenopeo nel corso dell’Ottocento si diffuse la moda della balneazione. A Portici la famiglia Bruno acquistò il palazzo d’Elboeuf, dove aprì il “bagno della Regina” conservando l’antica denominazione, per cui i villeggianti potevano tuffarsi nello stesso luogo in cui soleva bagnarsi la regina Carolina. A Sorrento e a Capri era stato consentito di aprire delle “calate a mare”. E a Capri, dopo la scoperta della Grotta Azzurra, nel 1826, i viaggiatori amavano tuffarsi e nuotare al suo interno. Nell’isola d’Ischia, famosa per il suo termalismo fin dall’antichità, nel corso dell’Ottocento si formarono piacevoli cittadine di loisir, Porto, Casamicciola, Lacco Ameno, in cui insieme ai bagni termali si aggiunsero quelli marini (Sirago, 2013: 69ss.).

Fino alla fine dell’Ottocento le fanciulle dovevano coprirsi con ampi cappelli per mantenere la “pelle di luna” (quella scura era delle lavoratrici nei campi, perciò disdicevole). Perciò anche la Serao dava consigli su come creare misture per preservare la pelle bianca. Dopo la grande guerra, con la diffusione degli sport all’aperto anche per le donne, tra cui il nuoto, prevista dall’educazione fascista, la moda della “pelle di luna” venne sostituita da quella dell’abbronzatura per cui anche i vestiti diventarono più agevoli (Triani, 1988).

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Pronte per il bagno, xilografia in “La Novità”, giornale di moda, fine Ottocento

Il bagno delle fanciulle in epoca fascista

Il tema della diffusione della balneazione, coi i suoi riti, le sue mode, unitamente alla pratica del nuovo sport, il nuoto, tra le “gentili fanciulle”, occupava uno spazio preponderante nei “Mosconi” estivi, tanto da divenire un vero e proprio «saper vivere … marino», come sottolineava Matilde Serao. La giornalista, insieme al marito Edoardo Scarfoglio, fondò il quotidiano Il Mattino, il cui primo numero uscì il 17 marzo 1892.  In questo giornale ella aveva creato una rubrica, “Api, mosconi e vespe” in cui, col soprannome di Gibus (un cappello a cilindro pieghevole), scriveva i suoi “pezzi di costume”, curando anche la pubblicità (necessaria per il sostentamento del giornale), dedita in estate alla “sponsorizzazione” degli eleganti stabilimenti balneari. Poi nel 1904, dopo essersi separata dal marito, aveva fondato un altro quotidiano, Il Giorno, pubblicato fino alla sua morte (1927) in cui aveva mantenuto la sua rubrica (Sirago, 2010).

 In una deliziosa pagina de Il Giorno del 13 agosto 1905 ella annotava:

«…Sì, lettrici che sorridete con una piccola e deliziosa impertinenza, sì, lettori beffardi che in pubblico fate gli uomini superiori e in privato (posso dirlo?) giungete a domandarmi perfino se i lacci degli scarpini gialli possono essere neri! Sì, miei fedeli e buoni amici, c’è e ci deve essere, per la legge che regola ogni cosa umana, un saper vivere che tocchi tutto ciò che appartiene a questo eccezionale e pur così simpatico periodo che è il periodo dei bagni, un saper vivere che dica come deve regolarsi un gentiluomo dal momento in cui si spoglia dell’abito per mettersi in costume da bagno a quello in cui fa il viceversa, e come deve regolarsi una signora che sia costretta a mostrarsi in pubblico con qualche cosa di meno e con qualche attrattiva di più che non abbia in terraferma. Il mare, signori miei, non è un salotto, ed ha certe esigenze e certe libertà, insieme, che il salotto non ha. Ed io vi verrò dicendo, brevemente, in pochi precetti, quello che sia e quello che debba essere questo saper vivere del bagnante e che rappresenta una parentesi nel saper vivere dell’uomo che vive, diciamo così, all’asciutto».

Nei suoi “aforismi balneari” per i giovanotti (Il Giorno, 2 e 15 luglio 1906), ella consigliava: «Non azzardare mai una dichiarazione d’amore in acqua», e per le signorine (Il Giorno, 6-7 luglio 1908) dava avvertimenti su come comportarsi (dal nuoto ai rapporti sentimentali, alla moda).

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Il bagno delle fanciulle in epoca fascista

Il nuoto femminile

Una attenzione particolare era data al nuoto femminile, soprattutto ad una questione di vitale importanza “Deve una donna saper nuotare? (Il Mattino, 17-18 luglio 1893): la risposta era complessa ed articolata (Il Mattino, 18-19 luglio 1893), a seconda delle circostanze (Il Mattino, 6-7 luglio 1894) e del carattere delle varie “bagnanti”, la “sportiva”, la “civetta”, la “paurosa”, l’”originale”, l’”innamorata” (Il Giorno, 2 agosto 1904). E se proprio non si era capaci ci si poteva far aiutare dal “salvagente”, ottimo alleato per le conquiste amorose (Il Giorno, 3-4 aprile 1908). Comunque la Serao nel suo «codinismo sociale e nella sacra reverenza per l’estetica» confessava di avere «un sacro orrore per i bagni di mare», almeno come si prendevano allora «in grande confusione, giovanotti, signorine, signore, uomini maturi» (Il Mattino, 6-7 luglio 1894). Perciò dava consigli pratici sul “costume da bagno”, che doveva essere assolutamente di lana, nero o bigio largo, non goffo, per la massima libertà del nuoto, ma tale da non essere sconveniente (Il Mattino, 7-8 luglio 1892, 19-20 luglio 1893) ed assolutamente non rosso, appariscente (Il Giorno, 21-22 luglio 1910). Consigliava anche di evitare «la cuffietta gialla d’inceratina, … così contraria all’estetica» e dava consigli pratici su come risciacquare i capelli e tenerli in ordine (Corriere di Napoli, 17-18 luglio 1888). Infine offriva delle “ricette contro il sole” per prevenire le scottature e fare in modo che la pelle restasse bianca, secondo i canoni della bellezza femminile che a fine Ottocento prescriveva ancora una “pelle di luna” (Il Mattino, 3-4 e 10-11 luglio 1895).  Si riportano in appendice alcuni “pezzi” sul nuoto femminile di Matilde Serao.

18Conclusioni

Da fine Ottocento il nuoto è diventato uno sport agonistico, sia in singolo, con provetti nuotatori come Carlo Pedersoli (in arte Bud Spencer), campione nello stile libero e pallanuotista e nuotatrici come la famosa Federica Pellegrino, sia in squadra, con la pallanuoto maschile e femminile.

A Napoli una delle prime società agonistiche di nuoto è stata la Rari Nantes: Quatte segge arremeriate, nu bigliardo, nu salotto, ciento socie sfrantumate, venti scuoglie e ‘o mare a sotto, ecco il racconto della sua nascita spartana, ubicata tra via Partenope e via Nazario Sauro (http://www.storiedisport.it/?p=12150). Nel 1900 nelle pagine de Il Mattino, del 23-24 luglio, si pubblicizzava la società napoletana Rari Nantes, aperta alcuni anni prima per promuovere la passione del nuoto con sede a Santa Lucia sotto la presidenza dell’ingegnere Carlo Cottrau, e si riferiva che il prossimo giovedì 26 si sarebbero fatte gare di 30 metri per signore ed altre di maggior resistenza per uomini. La squadra di pallanuoto Rari Nantes Napoli (come fu ribattezzata nel 1927), una delle più importanti squadre italiane, è stata fondata nel 1905 e a cavallo della seconda guerra mondiale ha conquistato ben sei scudetti, cedendo alla nazionale italiana di pallanuoto il suo soprannome di Settebello. Nel 1916 fu creata l’altra grande squadra napoletana di pallanuoto, la Canottieri Napoli nell’omonimo circolo fondato due anni prima, con cui la Rari Nantes si è scontrata in epiche competizioni tra gli anni Cinquanta e Sessanta (http://www.circolocanottierinapoli.it/).

Ma il nuoto è presente anche in altri ambiti: una famosa gara natatoria che si disputa nel Golfo partenopeo è la Capri Napoli, la storica e tradizionale maratona natatoria italiana, la cui prima edizione risale al 1° agosto 1954 (l’ultima è stata realizzata il 6 settembre 2020): 55 edizioni in 67 anni, una delle più antiche competizioni tra quelle ancora disputate e la più antica tra quelle presenti nei due circuiti mondiali FINA dell’open water (marathon e ultramarathon). Il 9 novembre 2020 la IMSHOF (International Marathon Swimming Hall of Fame) ha appena ufficializzato che la Capri-Napoli entra nella hall of fame del nuoto mondiale, per la classe 2021, nella sezione “Honor Organizations” (http://www.caprinapoli.com/web/).

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021 

Appendice

Articoli di Matilde Serao
Il Mattino, 17-18/7/1893
«Data la consuetudine, di cui io e tutte le persone ragionevoli non ci meraviglieremo mai abbastanza, vale a dire che nel bagno di mare uomini e donne, giovanotti e signorine, nei vestiti meno vestiti che è possibile immaginare, si debbono trovare insieme, senza una difficoltà al mondo, data questa consuetudine che è in così aperta contraddizione con i rigori materni, ai balli, ai teatri, alle passeggiate, la domanda che sorge, naturale, è questa: deve una donna saper nuotare? Deve ella essere esperta in questo esercizio della forza, come è esperta al camminare, al ballare, e, magari, al cavalcare (Giacché, da qualche tempo a questa parte, quel grazioso, elegante, igienico “sport” che è il cavalcare, si va propagando molto, con grande soddisfazione dell’estetica e della grazia: e d’ora in poi, si daranno anche delle mode di amazzoni, spesso, nelle cronache mondane, poiché anche questa moda ha le sue variazioni). Dato le belle spiagge italiane il risalire che fanno i bagni di mare nelle simpatie del pubblico, e il rinnovellarsi di molto pubblico nelle rotonde degli stabilimenti, deve mai una giovane signora, una signorina, che vuole essere ammirata, anche nelle glauche onde saper nuotare con costanza e con valore? E’ una parte dell’educazione, oramai, questo “sport”, e bisogna che le madri, che le sorelle maggiori si occupino perché le giovinette, perché le giovani signore siano delle nuotatrici perfette, avanti a Dio? Queste domande s’impongono in questo momento in cui tutti gli indecisi, i titubanti, gli spiriti destinati ad una continua incertezza, hanno risoluto di tuffarsi in mare, aumentando così la folla di quelli che avevano già cominciato i bagni di mare: s’impongono, giacché nel mondo com’è regolato, ora, il bagno di mare, è un diporto mondano, è una vessazione, è un circolo, è un  “raout” in una forma poco bizzarra con “costumi” alquanto biblici, proprio dei primi tempi della genesi, e quindi deve avere anche le sue regole mondane, e bisogna recarvisi più o meno preparati e bisogna anche sapere come andarvi, se in preda alla grande ignoranza dell’arte natatoria o alla profonda sapienza di quest’arte, per cui si possono attraversare leggermente le onde, e fuggire, e sparire, e ritornare, e da capo scomparire … e infine mistificare ancora una volta il pubblico. Ora … lo sforzo è finito, vi dirò domani se la donna elegante, se la fanciulla pure, debbono o non debbono saper nuotare».
Il Mattino, 18-19/7/1893 (id. Il Giorno 12/8/1905)
«Una donna giovane elegante, una giovane signorina “debbono” saper nuotare per queste ragioni:
Perché chi nuota prende sempre un buon bagno di mare
Per eccitare l’invidia delle altre donne che non sanno notare.
Per eccitare l’ammirazione vera o palese negli uomini che nuotano o che non nuotano affatto.
Per mettere in mostra l’elasticità della persona.
Per sfuggire alle seccature di bagnini che vogliono insegnare il nuoto.
Per sottrarsi all’insegnamento del nuoto offerto dai corteggiatori troppo compiacenti.
Per slanciarsi lontano da un gruppo di donnine maldicenti che non sanno nuotare.
Per sfuggire la famiglia composta da padre, madre, cugine, figli, suocera, zia, serva,
che si riunisce fuori il quadrato, ingombra il mare e assorda con le sue chiacchiere e coi suoi strilli i bagnanti.
Per offrire un gradito spettacolo a coloro che osservano dalla rotonda o dalla loggetta.
Per avere un’idea della propria forza e della loro grazia, il che è sempre confortante.
Per andare ad osservare che cosa fa il proprio fidanzato con quella signorina bionda.
Per vedere se il proprio marito è fedele alle consegne coniugali.
Per discorrere un poco, lontano dagli occhi materni, al signor Tal dei Tali
Per non discorrere, tuffandosi nelle salse onde, con l’altro signor Tal de Tali.
Per diventare più bella e più forte.
Per fare una cosa originale.
Per imitare ed esaltare la fantasia maschile.
Per fare dire a coloro che la decantano: “essa infine, nota come un delfino”.
Per non avere le labbra violette e gli occhi lacrimosi.
Per fingere a sé stessa di essere libera e indipendente.
Per fare quello che fanno le altre signore eleganti e le altre fanciulle graziose».
 Il Mattino, 18-19/7/1894 (id. Il Giorno 15-16/7/1908)
«Beninteso che la fanciulla o la signora desiderosa di abbandonarsi ai piaceri sportivi del nuoto, non deve essere affetta da nessuna di quelle timidezze fisiche che non vengono precisamente dalla paura, ma vengono quasi completamente dalla civetteria. Non deve aver troppe preoccupazioni oer i suoi delicati piedini, massime nei momenti in cui si esce dallo stabilimento, e s’incontrano delle pietre; meglio qualche graffio che, del resto, il mare medica subito, da sé stesso, anziché quelle scarpette di tela e di paglia, che danno un fastidio enorme ai piedi, che non si tengono maoi bene e con cui è impossibile nuotare. E neppure deve temere troppo di bagnarsi i suoi bei capelli: lontano da lei tutte le cuffie, tutte le inceratine, che sono l’ideale della goffaggine! Riunisca i suoi bei capelli in treccia, in tortiglioni molto stretti e li fissi sul sommo della testa, con forcinelle molto forti e senza nessun riccioletto sulla fronte: metta un grande cappello di paglia, legato sotto il mento e via, nel glauco elemento come si diceva nelle antiche poesie! Se i capelli si bagnano, come è molto probabile, ritornando nel camerino li scioglierà per asciugarli, poi li bagnerà con l’acqua di vena, per lavarli sommariamente e infine, una volta per settimana, durante i bagni di mare, essa li laverà molto con una leggiera acqua di lisciva. Così ella potrà notare senza dolersi pei suoi capelli morbidi e lucidi, ed essi finiranno per essere vantaggio e non svantaggio della stagione estiva. Neppure affliggersi per le sue belle braccia rotonde e le sue mani fini che il sole renderà brune! E’ impossibile che il costume di una nuotatrice abbia le maniche lunghe; esse impediscono assolutamente il nuoto: esse incappano ogni moto e danno la malinconia. Ora il mare e il nuoto sono due cose allegrissime! Le mani e le braccia si faranno brune, senz’altro: ma appena si va a casa, vi si applica della chiara d’uovo battuto e questa semplicissima medicina le rinfresca e toglie, man mano, il bruno. Senza timidità e senza civetteria, dunque: bisogna che la nuotatrice abbia uno spirito libero e che trovi della grazia nel movimento, nella salute, nella freschezza del suo sangue e nell’agilità dei suoi muscoli: a casa tutte le delicatezze e tutte le mollezze. Una nuotatrice è una donna di forza: e molti uomini oltre ad ammirarla per tante cose, l’ammirano anche per questa qualità, che essi non possiedono».
 Il Giorno, 2/8/1904
«Regola generale: la donna non ama il mare. Non lo ama perché in acqua usa acconciature rozze; perché il mare rende impacciati, ridicoli, e non consente nessuna delle civetterie che in terra sono il trionfo dell’eterno femminino; perché in seno ad Anfitrite “moglie del dio Nettuno” anche gli uomini perdono l’attitudine al “flirt” o, se “flirtano”, lo fanno così goffamente da far pietà
Tuttavia, la donna si bagna; e, talvolta, diventa perfino una nuotatrice formidabile. Perché si bagna? Perché nuota? Il mistero può essere svelato.
“La sportiva”. Nuota per far della ginnastica sana, all’aria aperta, nell’aperto mare. Preferisce le spiagge solitarie e le acque profonde. Nessuna civetteria di “toilette”. Maniche corte, collo libero, gambe libere. Non teme il sole, non teme gli schiaffi dell’acqua. Si secca moltissimo degli uomini, ma se ne libera con due buone bracciate che la fanno filare tra i flutti come un “destroyer” (distruttore).
“La civetta”. Nuota per essere accompagnata. Il suo costume è castigatissimo, e l’abbondanza dei nastri e dei “volants” la farebbe affondare se non avesse costantemente un cavaliere … marino a lato. Talvolta ne ha due; talvolta ne ha cinque. In tal caso ella diventa una nave ammiraglia. È per ciò che ogni altra bagnante la … squadra, con un certo risentimento sdegnoso.
“La paurosa”. Nuota … per modo di dire. Ha sempre una barca che la scorta. Un anello di salvataggio alla cintola, e un fratello che la sorregge prudentemente. Qualche volta il fratello è un cugino: in tal caso ella finge di avere un poco di paura in più, ed impara assai meno presto a nuotare da sola.
“L’originale”. Nuota non per “sport” né per civetteria, ma per originalità. Ha dei costumi bizzarri: rossi, bianchi, a fasce, perché tutti la scorgano a un chilometro di distanza. Si spinge al largo, nelle onde, si rovescia sulla schiena, solleva un’onda spumosa, spaventa tutti i pesci del vicinato. Ostenta di non voler compagnia, pretende di dispregiare il sesso forte. Con la coda dell’occhio conta tutti gli occhialini che la seguono nelle sue evoluzioni stravaganti, dalla spiaggia.
 “L’innamorata”. Nuota soltanto per “lui” Esce sola, discretamente, senza dare nell’occhio. Egli la segue e, molto lontano dagli sguardi dei curiosi, la raggiunge. Ella può dirgli, così, tante cose: e può sentirsene dire tante altre. E nessuno sentirà i loro discorsi! Ed è la sola fra le nuotatrici, la sola, veramente, che trovi il nuoto un esercizio delizioso!».
Il Giorno, 4/7/1905 (id. 5-6/8/1913)
«Che cosa v’ha di più piacevole che il fendere i flutti, a nuoto, spingendosi innanzi, come presi dalla ebrezza dell’infinito, nella solitudine del gran deserto d’acqua, dove il nostro corpo pare si perda, sospeso nell’abisso della grande trasparenza smeraldina? A mare! A mare!»
Il Giorno, 6-7/7/1908
«Se non sapete notare, lettrice, non andate ove sono nuotatrici e nuotatori: unireste l’imbarazzo e la noia alla poca seduzione del costume da bagno.
Se volte imparare fatelo di nascosto, con un marinaio: mai, imparare il nuoto con un corteggiatore, o un innamorato. O non imparate a nuotare, o l’amore languisce.
Se amate molto un uomo, non fatevi vedere in acqua da lui, siate anche bellissima e seducentissima.
Se avete un fidanzato, sarebbe un sacrilegio di farsi vedere in costume da bagno, da lui.
Se egli nuota mediocremente, e voi benissimo, fuggitelo, perché la vostra superiorità lo seccherà molto.
Se egli non sa nuotare, fuggitelo egualmente, perché lo umiliereste».
Il Giorno, 26-27/7/1910 (id. 3/4/8/1910)
«Ora buona del bagno! Che importa, se si fa tardi? Che importa, se l’acqua è bassina? Che importa se l’aria è infuocata? Nella sala si aspetta così bene! I ventaglietti si agitano, così vivacemente! I garofani, gli ultimi garofani, olezzano di cannella agli occhielli dei “vestons” bianchi maschili! Si “fila” così bene! Si “flirta” così bene! La vasca è così lieta di persone, di grida gioconde, di risate, di saluti, di baci, sì, anche di baci, poiché le donne si baciano anche in mare! E, fuori, vi è sempre qualcuno di conoscenza, e vi è sempre un signore, pieno di buona volontà, che è pronto ad insegnarvi il nuoto! E in acqua si vedono tutti i difetti nascosti delle amiche e si mostrano tutte le proprie virtù di grazia e di bellezza! E si “fila”, in acqua, dalle otto a mezzogiorno! E si “flirta”, Dio mio, si “flirta” sempre, in acqua».
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Maria Sirago, dal 1988 è stata insegnante di italiano e latino presso il Liceo Classico Sannazaro di  Napoli, ora in pensione. Partecipa al NAV Lab (Laboratorio di Storia Navale di Genova). Ha pubblicato numerosi saggi di storia marittima sul sistema portuale meridionale, sulla flotta meridionale, sulle imbarcazioni mercantili, sulle scuole nautiche, sullo sviluppo del turismo ed alcune monografie: La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ‘800 e ‘900, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2013; Gente di mare. Storia della pesca sulle coste campane, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2014, La flotta napoletana nel contesto mediterraneo (1503 -1707), Licosia ed. Napoli 2018.

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