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Immigrazione, ripartiamo dalla cittadinanza

Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2021 @ 02:55 In Migrazioni,Società | No Comments

17097166_1411302012254313_295661971266808110_o-1-1024x817di Paolo Attanasio

Di cosa parliamo quando parliamo di ius soli?

«Sullo ius soli la destra sbaglia atteggiamento. Scorretto associare il tema agli sbarchi, non stiamo parlando di immigrazione illegale» [1]. Chissà se queste parole di Enrico Letta, neo-segretario del PD, riusciranno a dare nuova vita ad un dibattito che si trascina ormai da troppo tempo, e che in questi ultimi anni, dopo la rinuncia dello stesso PD a portare avanti la battaglia parlamentare per la riforma del diritto di cittadinanza, era stato di fatto archiviato e lasciato all’attivismo (certo fondamentale, ma purtroppo non sufficiente) della società civile organizzata. Almeno questa è la speranza da parte di molti. Bene ha fatto il neo-segretario a pronunciarle, pur nella pacatezza dei toni che lo contraddistingue («Ci ragioneremo senza isterismo in Parlamento»), dando un salutare scossone ad un’opinione pubblica nazionale ancora piegata dalla pandemia, e a causa di questa sempre più ripiegata su se stessa, in una poco producente contemplazione del proprio ombelico. È necessario, a questo punto, ridare forza e vitalità a questo dibattito, e rilanciarlo con decisione fra le questioni prioritarie all’ordine del giorno di questo anno di rinascita dopo la crisi sanitaria (oltre che socio-economica) creata dal Coronavirus. Impossibile non notare che queste poche e più che ragionevoli esternazioni (dette quasi «per inciso») sono state sufficienti a risvegliare le ire mai sopite delle destre. Ciò detto, in questo testo si cercherà di prescindere dal dibattito fra schieramenti politici, per concentrarsi piuttosto sui suoi contenuti e sulle implicazioni per la società italiana.

Difficile dire qualcosa che non sia già stato detto su questo tema, se non che, forse, si tratta di un argomento sul quale il legislatore si è esercitato (verrebbe da dire, «si è accanito») come su pochi altri, con un peggioramento costante dell’accesso alla cittadinanza negli ultimi decenni. Ciò che comunque si nota nel dibattito in corso è una certa riduttività, e ciò in due sensi: in primo luogo, in una società (irrimediabilmente?) familistica come quella italiana, le voci aperturiste si sono soprattutto concentrate sulla negazione della cittadinanza ai figli di immigrati, nati in Italia o arrivati in tenera età, nella convinzione che così facendo ci si sarebbe più agevolmente assicurato il supporto della maggioranza dell’opinione pubblica autoctona. Questa mossa, per quanto tatticamente comprensibile, ha però il limite di concentrare il dibattito soltanto su una parte della questione, lasciando in ombra la profonda diffidenza del legislatore verso tutte le modalità di acquisizione della cittadinanza diverse dalla discendenza diretta da cittadino italiano, che va generalmente sotto il nome di ius sanguinis.

La questione della cittadinanza va quindi considerata, come vedremo più avanti, nella sua interezza. La questione dello ius soli, per quanto preponderante, non può e non deve essere più di un apripista per riprendere il dibattito sull’accesso alla cittadinanza nella sua totalità. Ma c’è un altro aspetto che occorre considerare: se lo ius soli non è che una parte della più ampia questione della cittadinanza, quest’ultima va inscritta nel più vasto tema delle politiche di integrazione, o meglio, del necessario riconoscimento dell’immigrazione nell’ordinamento, oltre che nella società, nazionale. Parlare di cittadinanza oggi vuol dire parlare di immigrazione, di un nuovo modello di società derivante da nuove modalità di insediamento che sono sotto gli occhi di tutti. Il fenomeno migratorio in Italia ha ormai assunto tali caratteri di consistenza, stabilità e strutturalità che non è semplicemente più sostenibile proseguire con l’estrazione di profitto dalla forza lavoro migrante senza garantire ad essa (e ai suoi familiari) quella serie di diritti che necessariamente ne conseguono.

ansa_20190927_192846_010813-jpg-fdetail_558h720w1280pfhw8a18bccUna legge che viene da lontano: cittadinanza ed emigrazione nel XX secolo

Come è noto, l’Italia resta attualmente ancorata, in virtù di una legge di quasi trent’anni fa (la l. 5 febbraio 1992, n. 91), ad una concezione di nazionalità e cittadinanza profondamente antistorica, soprattutto alla luce di tutti i cambiamenti intervenuti in questo trentennio, e che, a ben vedere, erano visibili anche prima. In realtà, non è certo l’età della legge il suo problema principale, dato che, in un certo senso, era già nata vecchia nel 1992. Il legislatore del 1992, più che guardare avanti (come ogni buon legislatore dovrebbe saper fare) ha continuato infatti a rivolgere lo sguardo al passato. Cominciamo con un pur rapidissimo sguardo storico, indispensabile per capire il presente, partendo, in estrema sintesi, dai punti principali della legge pre-vigente (la legge giolittiana del 1912).

Al centro della concezione della cittadinanza del legislatore italiano si trova ancora, onnipresente, (il fantasma del) l’italiano all’estero, l’emigrante che ancora (e, si potrebbe dire, di nuovo) accompagna tutta la storia dell’Italia fin dall’Unità, e ne caratterizza l’immaginario internazionale. Uno sguardo quindi rivolto al proprio interno oltre che al proprio passato. L’Italia, per lungo tempo una nazione senza Stato, al momento della sua unificazione aveva innanzitutto il problema di inglobare una serie di territori popolati da italofoni (Zincone, 2006: 34), ma allo stesso tempo anche quello di conservare la cittadinanza italiana ai figli degli emigrati in Paesi regolati dallo ius soli, che concedevano la propria a chiunque nascesse sul territorio nazionale. La crescente rilevanza dell’esodo di italiani, soprattutto verso le Americhe e la Francia (solo nei primi 20 anni del XX secolo emigrarono dall’Italia quasi 10 milioni di persone) ebbe un ruolo fondamentale nella legge sulla cittadinanza del 1912 (l. 13 giugno 1912, n. 555).

La prima legge organica sulla cittadinanza emanata dall’Italia unitaria ebbe quindi come caposaldo e regola fondamentale la trasmissione iure sanguinis («È cittadino per nascita il figlio di padre cittadino» recita l’art. 1.1 della legge), e il suo obiettivo principale era la conservazione della cittadinanza per gli italiani lontani dalla patria, e in particolar modo per i loro figli [2]. Ottant’anni dopo, nel 1992, la situazione del Paese era, come è facile intuire, radicalmente mutata, anche, ma non solo, dal punto di vista demografico e migratorio. Dopo il sostanziale stop imposto dal fascismo all’emigrazione, questa è massicciamente ripresa nel secondo dopoguerra, con una media annua di espatri pari a quasi 300mila unità negli anni Cinquanta e Sessanta (lo stesso livello raggiunto dalla grande emigrazione alla fine dell’Ottocento, più esattamente nel periodo 1891-1900). Già negli anni ‘70 l’emigrazione rallenta, attestandosi a poco meno di 100mila. Nelle decadi successive la diminuzione prosegue: poco meno di 70mila negli anni Ottanta, poco meno di 50mila negli anni Novanta e poco più di 40mila nel primo decennio del nuovo secolo [3]. Nel frattempo l’Italia istituzionale (che, al di là delle celebrazioni di facciata, ha sempre guardato con malcelato fastidio alla propria emigrazione) continua a guardare all’indietro: dopo un’infinita fase preparatoria, solo a trent’anni dalla fine della II guerra mondiale viene convocata una Conferenza nazionale dell’Emigrazione (1975), e bisognerà attendere fino al 1988 per vedere la nascita dell’Anagrafe Italiani Residenti all’Estero (AIRE).

Nel frattempo, il contesto italiano sta mutando radicalmente: già all’inizio degli anni ’70, con la crisi economica originata dallo stop alla convertibilità del dollaro in oro e soprattutto dal primo shock petrolifero del 1973, i Paesi del Nordeuropa chiudono i rubinetti dell’immigrazione (anche di quella italiana): gli stranieri in Italia triplicano nel giro di un quindicennio, dal 1970 al 1986 (Pittau, 2020; e Colucci, 2018: 49) [4]. In questo contesto di grandi rivolgimenti, in cui diversi Stati europei mettono mano alle proprie leggi sulla cittadinanza, liberalizzandone l’accesso (Zincone, 2006: 110), ci si sarebbe potuti forse aspettare una tendenza analoga da parte del legislatore italiano. E invece, contrariamente a quanto sarebbe stato logico aspettarsi, la riforma della cittadinanza del 1992 rafforza gli elementi di ius sanguinis già presenti nella legislazione previgente.

La legge del 1992 rinforza la predilezione per gli stranieri di origine italiana, stabilendo in modo esplicito un criterio di ‘preferenza co-etnica’ (Zincone, 2006: 4). La nuova legge rende più difficoltosa la naturalizzazione, richiedendo dieci anni di residenza (contro i 5 richiesti dalla legge del 1912): l’acquisto della cittadinanza, inoltre, non è un diritto, ma questa viene concessa con un atto discrezionale del Ministro dell’Interno. Per gli stranieri di origine italiana invece il termine è più breve (tre anni), mentre quattro anni sono previsti per gli stranieri comunitari. Si teorizza in tal modo una sorta di tripartizione del genere umano: al primo posto gli italiani per discendenza diretta, seguiti dai cittadini di Stati appartenenti all’Unione europea (non dimentichiamo che il 1992 è anche l’anno in cui viene varata la cittadinanza europea). In fondo alla classifica rimangono i cittadini dei cd. “Paesi terzi”, cui vengono riservate le condizioni più dure di accesso alla cittadinanza. La rigida applicazione dello ius sanguinis, inoltre, fa sì che i discendenti di un cittadino italiano, benché nati all’estero, abbiano diritto di richiedere il riconoscimento dello status di cittadino, e quindi non la naturalizzazione, bensì il semplice riconoscimento di una cittadinanza, per così dire, “dormiente”.

Questo sistema di accesso alla cittadinanza italiana, che privilegia in maniera evidente il legame familiare e quello etnico della discendenza, è stato efficacemente definito “familismo legale” (Zincone, 2006). L’acquisto della cittadinanza per matrimonio, invece, almeno nella prima versione della legge del 1992, continua ad essere relativamente agevole (sei mesi di matrimonio e due anni di residenza), ma, come vedremo più avanti, nel corso degli ultimi trent’anni ha subìto non poche modifiche, e tutte restrittive.

ius-culturae-fotoUn trentennio di legge sulla cittadinanza: di male in peggio

La disciplina sulla cittadinanza in Italia, nonostante le reiterate iniziative di mobilitazione e protesta da parte della società civile [5], non solo non è stata dunque migliorata (nel senso di aggiungere agevolazioni per la cittadinanza di residenza), ma, al contrario, ha subìto diversi giri di vite, miranti a rendere sempre più difficoltoso l’accesso, spesso presentando la cittadinanza stessa come un traguardo da meritare a compimento di un percorso di integrazione, e non invece come un diritto che scaturisce dall’interazione costante e costruttiva con un Paese e il suo tessuto sociale, culturale, economico e produttivo. Come accennato sopra, la legge del 1992 vedeva con relativo favore l’acquisizione di cittadinanza iure conubii, e non a caso tale modalità venne utilizzata in misura circa 10 volte superiore alla ben più ardua naturalizzazione negli anni immediatamente successivi all’emanazione della legge stessa (per fare alcuni esempi, nel 1992 il rapporto era di 538 naturalizzazioni iure domicilii contro 3.857 per matrimonio, nel 1993 363 contro 3.857 e nel 1994 599 contro 6.014 (Zincone, 2010: 3).

Ma il primo colpo arriva già con il cd. «Pacchetto sicurezza» dell’allora Ministro dell’Interno Maroni, che nel 2009 quadruplica il periodo di residenza necessario al coniuge di cittadino italiano per l’acquisizione della cittadinanza, portandolo da sei mesi a due anni [6]. In perfetta continuità con questa stretta, dieci anni dopo arriva il cd. «Decreto immigrazione e sicurezza pubblica» (meglio noto come «primo decreto Salvini») (IDOS, 2020: 240) a raddoppiare ulteriormente tale periodo, che arriva a ben 48 mesi (Senato della Repubblica, 2018). Da notare inoltre che una circolare ministeriale [7] precisa che «resta impregiudicato il potere di negare la cittadinanza, anche dopo lo spirare del limite temporale». In altre parole, la procedura per l’acquisizione iure conubii pone a carico del richiedente i ritardi della pubblica amministrazione, addossandogli le conseguenze della propria eventuale inefficienza. Ma c’è di più: come fa notare Paolo Morozzo della Rocca in un suo recentissimo saggio in materia, il vincolo matrimoniale deve rimanere in essere fino «al momento dell’adozione del decreto di conferimento», configurando così «una grave anomalia procedimentale che in Italia impone […] il mantenimento dei requisiti e la mancanza dei motivi di preclusione all’acquisto della cittadinanza sino al momento dell’emanazione del decreto di conferimento, in deroga quindi al principio di civiltà giuridica secondo il quale, maturati tutti i presupposti sostanziali per il riconoscimento di una posizione di diritto soggettivo, questa è fatta salva a prescindere dai tempi di emanazione del provvedimento amministrativo che ne prenda atto,  anche ad evitare che l’ottenimento del beneficio di legge venga condizionato o limitato dall’operare diligente o meno dell’Amministrazione» (Santoro, 2020: 26).

Queste considerazioni trovano poi puntuale riscontro nelle cifre, che registrano la maggiore o minore “accessibilità” di questa o quella modalità di accesso alla cittadinanza. Nello specifico, il giro di vite sull’acquisizione per matrimonio interrompe bruscamente il balzo in avanti di tali acquisizioni registrato negli anni successivi al 2015 (+15,5% nel 2016, +15,5% nel 2017, +8,5% nel 2018, – 42% nel 2019), come si vede dalla tabella 1.

 Tab. 1 Italia. Acquisizione di cittadinanza 2012-2020 suddivisa per modalità

  Residenza Matrimonio Altro Totale
2012 24.573 20.509 20.301 65.383
2013 37.573 23.889 39.250 100.712
2014 58.416 19.652 51.819 129.887
2015 90.591 16.687 70.757 178.035
2016 101.862 19.273 80.456 201.591
2017 62.261 22.255 62.089 146.605
2018 39.453 24.160 48.910 112.523
2019 52.877 17.026 57.098 127.001
Fonte: elaborazione su dati Istat

Con il “decreto Salvini” del 2018 fa poi ufficialmente il suo ingresso nella legislazione italiana la conoscenza della lingua come requisito essenziale per ottenere la cittadinanza (inserito nella l. 91/1992 come art. 9.1). È pur vero che con questa disposizione l’Italia non fa che allinearsi alla tendenza prevalente a livello continentale, dove ormai 23 Stati membri dell’Unione richiedono prova della conoscenza della lingua ufficiale del Paese per accedere alla cittadinanza (IDOS, 2019: 240), ma si tratta di un ulteriore segnale della crescente diffidenza del legislatore nei confronti dello straniero estraneo alla “famiglia” co-etnica degli oriundi. Il livello di conoscenza richiesto è il B1 del Quadro Comune di Riferimento europeo per la conoscenza delle lingue. In un certo senso, questa disposizione ci dice che i pur gravosi requisiti posti dalla legge (come ad esempio la residenza continuativa ultradecennale o quattro anni di matrimonio in costanza di vincolo – come visto poc’anzi – fino al conferimento) possono essere vanificati dalla mancanza di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, la quale quindi, di fatto, viene a considerarsi come un requisito complementare. Un’eccezione è concessa sia ai titolari di permesso di soggiorno UE di lungo periodo, sia a coloro che hanno sottoscritto l’Accordo di integrazione di cui al TU sull’immigrazione (IDOS, 2017: 225), i quali già devono soddisfare il requisito della conoscenza della lingua italiana. Il prescritto livello B1, però, non presuppone una conoscenza banale della lingua [8]. Condivisibile appare dunque l’osservazione di Morozzo della Rocca, il quale rileva che

«È però grave, suscitando fondati dubbi di legittimità costituzionale, la mancata previsione legislativa di un’esenzione a beneficio delle persone anziane (specie se entrate in Italia dopo i 45/50 anni di età) e di quelle con disabilità o con disturbi certificabili nell’apprendimento» (in Santoro, 2020: 33).

Finora abbiamo visto i più importanti elementi che caratterizzano il piano inclinato su cui è stato posto il cammino verso la cittadinanza italiana, che non si limitano certo al mancato riconoscimento dello ius soli (e, ora come ora, neppure dello ius scholae o culturae). Un aspetto di cui si parla meno, ma certamente più inquietante, è quello relativo alla decadenza dalla cittadinanza, una volta ottenutala. Si tratta infatti di un aspetto in cui ancora più stridente appare la contrapposizione discriminatoria fra cittadini italiani e non, come apparirà chiaro tra poco, approfondendo la questione.

Una delle novità fondamentali del decreto Salvini, infatti, concerne non già le modalità di acquisto e concessione della cittadinanza, cioè come si ottiene la cittadinanza italiana, ma come la si perde, e introduce nell’ordinamento (precisamente all’art.10-bis della l. 91/1992) uno degli istituti più dibattuti (e contestati): la revoca della cittadinanza per reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale. Anche in questo caso, l’Italia non è sola in questa disciplina, ma entra a far parte di un gruppo di Stati che, a vario titolo, prevedono e regolamentano la possibilità che un proprio cittadino (non di ogni categoria, come vedremo tra poco) perda quella prerogativa fondamentale, quel «diritto ad avere diritti» di cui ci ha parlato Hannah Arendt (v. Dossier 2016: 228-229).

Non è questa la sede appropriata per approfondire come meriterebbe questa fondamentale questione, che tocca temi come la definizione dello Stato, la natura del legame Stato/cittadino nonché, ma certo non in ordine di importanza, la questione dell’uguaglianza fra le diverse tipologie di cittadinanza. Rainer Bauböck, uno dei massimi esperti internazionali di cittadinanza, ha di recente dedicato un’interessante ricerca a questa tematica (Bauböck, 2018), che riporta l’ampio dibattito fra studiosi sui temi fondamentali relativi alla questione della cittadinanza. Tornando all’ordinamento nazionale, va innanzitutto ricordato che la legge 91/1992 già contemplava alcune ipotesi di perdita automatica della cittadinanza (Senato, 2018: 138); a queste si aggiungono ora i nuovi casi di revoca della cittadinanza introdotti dal decreto immigrazione e sicurezza pubblica, in caso di condanna definitiva per una lunga serie di reati, fra cui delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale (per i quali la legge preveda pene comprese fra un minimo di almeno 5 anni e un massimo superiore a 10), ricostituzione di associazioni sovversive precedentemente sciolte, partecipazione a banda armata, assistenza prestata ad appartenenti ad associazioni con finalità di terrorismo, anche internazionale (per una disamina dettagliata, v. Dossier Senato-Camera: 136 e ss.). Si noti che la revoca della cittadinanza non viene disposta da un tribunale, ma viene adottata con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’Interno entro il termine di tre anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Al di là delle fattispecie di reato che danno luogo alla revoca di cittadinanza, il punto fondamentale è la differenziazione fra diverse modalità di acquisizione della cittadinanza introdotta dalla norma: dalla revoca sono infatti esentati i cittadini per nascita, mentre essa si applica alla cittadinanza acquisita per matrimonio, per naturalizzazione, oppure dal cittadino straniero al raggiungimento della maggiore età.

«In tutti gli Stati, incluse le democrazie liberali – nota Bauböck (2008: 202) – la cittadinanza si acquisisce automaticamente alla nascita, e la si mantiene normalmente per tutta la vita. Ai cittadini per nascita non si richiede di dimostrare la propria adesione ai valori liberali come condizione per mantenere la propria cittadinanza, né ne vengono privati in caso commettano reati».

È ovvio che una norma che opera una distinzione di trattamento fra cittadini di uno stesso Paese, a seconda della modalità in cui questi hanno acquisito il loro status, mina alle fondamenta un principio universalmente riconosciuto (l’unica eccezione all’uguaglianza di trattamenti fra cittadini per nascita e cittadini per naturalizzazione è la norma che negli Stati Uniti stabilisce che il presidente debba essere un cittadino per nascita). È lo stesso principio contenuto all’art. 5.2 della Convenzione Europea sulla Cittadinanza del 1997, che stabilisce che «Each State Party shall be guided by the principle of non-discrimination between its nationals, whether they are nationals by birth or have acquired its nationality subsequently» (Ogni Stato contraente è guidato dal principio di non discriminazione fra i propri cittadini, che siano cittadini per nascita o che abbiano acquisito la cittadinanza in un secondo momento). L’Italia, che ha firmato la Convenzione nello stesso 1997, non l’ha però mai ratificata (https://www.coe.int/it/web/conventions/full-list/- conventions/treaty/166/signatures?p_auth=MEQNo20o).

Un’altra questione aperta dalla normativa in esame è rappresentata dalla concreta possibilità che le persone private della cittadinanza in base alle recenti disposizioni di legge si ritrovino nella condizione di apolidi. I nuovi articoli introdotti nella legge 91/1992 nulla dicono, infatti, in proposito (come rilevato anche dl Dossier dell’Ufficio Studi di Senato e Camera, op. cit.: 138). Tale possibilità è in aperto contrasto con la Convenzione per la Riduzione dell’Apolidia del 1961, sottoscritta e ratificata dall’Italia, seppure con grande ritardo, con la legge 29 settembre 2015, n. 162.

In buona sostanza, l’introduzione dell’istituto della revoca della cittadinanza apre alcuni dilemmi insanabili all’interno dell’ordinamento nazionale, questioni fondamentali che riguardano il rispetto dei diritti umani. In realtà, la nuova disciplina non sembra peraltro neppure in grado di perseguire efficacemente l’obiettivo che si è data, e cioè quello di prevenire gli atti di terrorismo e salvaguardare la sicurezza dello Stato. In primo luogo, essa non mira alla riabilitazione del criminale, in quanto si limita a “rimuoverlo” dall’orizzonte giurisdizionale dello Stato. Inoltre, i terroristi internazionali ai quali la norma sembra volersi indirizzare, non si reputano di certo “puniti” dalla perdita della cittadinanza di uno Stato democratico occidentale che odiano (Paskalev, Vesco, in Bauböck 2018: 185-187). Come suggerisce lo stesso Bauböck (2018: 201), spesso i governi che promuovono la revoca della cittadinanza «non vogliono soltanto fare qualcosa contro il terrorismo, ma vogliono anche che il loro elettorato li veda fare qualcosa»

ius-soliGuardare avanti, per diventare finalmente un Paese inclusivo

Quando si parla di cittadinanza per gli stranieri (quelle rare volte in cui, negli ultimi tempi, se ne parla con cognizione di causa) si fa quasi sempre riferimento alle centinaia di migliaia di bambini e giovani nati in Italia (o arrivati in Italia da piccolissimi) a cui la legge vigente nega la naturalizzazione. Bambini e giovani italiani in tutto e per tutto, a cominciare dalla lingua (spesso dal dialetto), dalla scolarizzazione, dai gusti, dal modo di essere completamente sovrapponibile a quello dei loro coetanei nati da genitori italiani. In queste poche pagine abbiamo visto che, nonostante questa sia una categoria certamente importante, non rappresenta che la punta dell’iceberg in fatto di negazione della cittadinanza, che nel nostro Paese continua ad essere perseguita con rara miopia.

È certamente una banalità, ma l’Italia dovrebbe andare orgogliosa di quei cinque milioni e più di persone che l’hanno scelta come punto di riferimento per la vita futura, propria e dei propri figli. Dovrebbe andare orgogliosa anche di tutte quelle persone (sono ormai oltre 1.200.000) che hanno voluto, richiesto ed ottenuto un passaporto italiano. Le migrazioni, infatti, si sono sempre dirette verso quelle regioni del mondo capaci di assicurare un futuro a chi lasciava (e lascia) il proprio Paese di origine. Nel suo ultimo saggio dedicato alla cittadinanza, Maurizio Ambrosini nota che

«si osserva una relazione positiva tra benessere e immigrazione straniera, anziché il contrario. La stessa relazione si osserva all’interno del nostro Paese: le aree con maggiore incidenza dell’immigrazione sono quelle con redditi più alti e disoccupazione più bassa» (Ambrosini, 2020: 33).

In altre parole, le migrazioni testimoniano la performance e la riuscita del territorio che le riceve, come è avvenuto non solo per gli Stati Uniti e per i Paesi del Nord Europa, tradizionali attrattori di manodopera dall’estero, ma anche per diverse regioni del Settentrione italiano, per decenni meta di migrazioni interne dall’Italia del Sud. Viceversa, l’Italia degli anni ’50 e ’60 non era certo una destinazione ambita dagli immigrati, semplicemente perché aveva ben poco da offrire loro. La ripresa dell’emigrazione dall’Italia, a cui assistiamo da oltre un decennio a questa parte (Pugliese, 2018, S. Pio V-IDOS, 2019) sta viceversa a testimoniare un nuovo declino del nostro Paese e la sua scarsa competitività (e, di conseguenza, forza di attrazione). Tutti i territori che hanno attratto immigrazione dall’esterno se ne sono in un modo o nell’altro avvantaggiati.

Ma avere capacità di attrazione nei confronti dell’immigrazione non è sufficiente per coglierne i frutti. È necessario andare oltre, riconoscendo la volontà di integrazione e la voglia di cittadinanza espressa, in buona parte, dai residenti stranieri. Per anni si è sentito (e purtroppo, ancora si sente) il trito e semplicistico slogan “aiutiamoli a casa loro”. Ma gli emigranti non dimenticano la loro terra di origine e la famiglia che spesso vi è rimasta, e si aiutano molto bene da sé (se gliene viene data la possibilità) con le rimesse, che rappresentano un caposaldo del progetto migratorio e una fonte di introiti importante per i Paesi destinatari, come ad esempio il Senegal, dove le rimesse sfiorano il 14% del PIL nazionale (IDOS, 2018: 49) [9]. Neppure la pandemia è riuscita a fermare il trend delle rimesse inviate dall’Italia, che, nel 2020 sono cresciute di quasi il 13%, e hanno fatto registrare un totale di 6,77 miliardi di Euro.

Oggi come oggi, anche se privi della cittadinanza, gli stranieri residenti godono di numerosi diritti, soprattutto sociali, che però sono in genere limitati a coloro che sono inclusi nel mercato del lavoro. Inoltre, la cittadinanza si esplica ormai in diverse manifestazioni, come ad esempio la partecipazione attiva alla vita culturale, sociale e (in misura necessariamente minore) politica (Ambrosini, 2020: 41). Tutto ciò necessita però del suggello finale dell’ufficialità della pienezza di diritti, che sola può scaturire dall’autorità statale. Manca dunque un’ultima barriera da abbattere, un ultimo miglio da percorrere per sancire con la forza della legge una situazione creata dai movimenti migratori degli ultimi decenni. Spianare la strada al riconoscimento di una situazione che ormai esiste di fatto ed è fra noi (ius soli per i nati in Italia, ma anche abbattimento significativo dei dieci anni di residenza per la naturalizzazione, e ripristino dello ius conubii in forme meno restrittive) è non soltanto, come abbiamo già avuto modo di dire in altra sede (IDOS, 2020: 215) «un atto dovuto nei confronti di chi investe il proprio futuro nel nostro Paese. Si tratta, forse ancor di più, di un gesto rivolto all’intera comunità nazionale, che ancora necessita di un lungo cammino di sensibilizzazione al riguardo».

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1]https://www.repubblica.it/politica/2021/03/16/news/pd_enrico_letta_conferenza_associazione_stampa_estera-292502566/
[2] Cfr. in proposito, Giovanna Zincone (a cura di), Familismo legale, come (non) diventare cittadini italiani, Laterza, Bari-Roma, 2006: 86.
[3] Istituto di Studi Politici S. Pio V-IDOS, L’Europa dei Talenti, migrazioni qualificate dentro e fuori l’Unione europea, Roma, 2019
[4] ) Per un storia dell’immigrazione in Italia, si vedano: Franco Pittau, Politiche dell’immigrazione: la lezione della Prima Repubblica, in «Dialoghi Mediterranei»,  n. 46, novembre 2020, e Michele Colucci, Storia dell’immigrazione straniera in Italia, Carocci editore, Roma 2018.
[5] Ricordiamo, fra tutte, le campagne “Ero straniero” e “L’Italia sono anch’io”, promosse rispettivamente dai Radicali e dalla CGIL.
[6] Si noti, per inciso, che il “pacchetto sicurezza” di Maroni introdusse anche il pagamento di un “contributo” di 200 euro da versare per tutte “le istanze o dichiarazioni di elezione, acquisto, riacquisto, rinuncia o concessione della cittadinanza” (art.1, co. 12) successivamente elevato a 250 euro dal “decreto sicurezza” di Salvini.
[7] Circolare del Ministero dell’interno n. 666 del 15.01.2019
[8] Per la descrizione delle abilità inerenti a ciascun livello cfr. https://archivio.pubblica.istruzione.it/argomenti/portfolio/allegati/griglia_pel.pdf
[9] Senato della Repubblica, Servizio Studi, Decreto-legge immigrazione e sicurezza pubblica, dossier n. 66/2, 9 novembre 2018
Riferimenti bibliografici
Maurizio Ambrosini, Altri cittadini – Gli immigrati nei percorsi della cittadinanza, Vita e Pensiero, Milano, 2020.
Rainer Bauböck, a cura di, Debating Transformations of National Citizenship, Springer Open, IMISCOE Research Series, 2018
Michele Colucci, Storia dell’immigrazione straniera in Italia, Carocci editore, Roma, 2018.
IDOS, Partire e ritornare, uno studio sulle migrazioni tra Italia e Senegal, IDOS, Roma, 2018
Istituto di Studi Politici S. Pio V-IDOS, L’Europa dei Talenti, migrazioni qualificate dentro e fuori l’Unione europea, Roma, 2019
Enrico Pugliese, Quelli che se ne vanno-La nuova emigrazione italiana, Il Mulino, Bologna, 2018
Gennaro Santoro (a cura di), I profili di illegittimità costituzionale della legge sulla cittadinanza, Antigone edizioni, Torino, 2020
Giovanna Zincone (a cura di), Familismo legale, come (non) diventare cittadini italiani, Laterza, Bari Roma, 2006.

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Paolo Attanasio, dopo quindici anni di lavoro in Italia e all’estero nel settore della cooperazione internazionale, si dedica ormai da diversi anni allo studio del  fenomeno migratorio e all’attività di ricerca e consulenza nel settore. Dal 2002 è redattore del Dossier statistico immigrazione, e dal 2007 referente regionale del Centro Studi e Ricerche IDOS, prima per la provincia autonoma di Bolzano, e attualmente per il Friuli Venezia Giulia. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni e rapporti di ricerca, come pure la partecipazione a numerosi progetti di integrazione economica e sociale degli stranieri. Nel 2018 ha pubblicato, con Antonio Ricci, il volume Partire e Ritornare, uno studio sulle migrazioni fra Italia e Senegal.

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